martedì 1 maggio 2012

I farisei del Palazzo attaccano Grillo: vigilia della caduta dell'Ancien régime?

E' bastata una battuta paradossale di Beppe Grillo in un comizio a Palermo, secondo il suo solito stile ad effetto, in cui ha accostato la mafia, che imponendo il pizzo alle imprese non ha interesse a strangolarle pena la sua stessa sopravvivenza, con la finanza internazionale, che tartassa ciecamente i cittadini fino a stroncarne qualsiasi iniziativa economica, perché la Casta scatenasse un inferno di dichiarazioni contro di lui.
Siamo all'assurdo che uomini politici che guadagnano a sbafo 15.000 euro netti al mese, lasciando che il governo del Paese venga affidato ai banchieri mentre molta gente è alla disperazione, hanno pure la faccia tosta di specularci sopra dando del mafioso a Grillo.
Ma come?
Non è forse Pierluigi Bersani che sta tessendo da mesi la tela di un'alleanza politica del Partito Democratico con  l'UDC di Pierferdinando Casini, quello che ha difeso per anni, in prima persona e a spada tratta, Totò Cuffaro, detto Vasa Vasa, il presidente della Regione Sicilia che il 23 gennaio 2010 la Corte d'Appello di Palermo ha condannato a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato nel processo 'talpe alla Dda', essendo stata riconosciuta l'aggravante di aver favorito Cosa Nostra?
Sentenza confermata l'anno successivo dai giudici di Cassazione che nelle motivazioni   hanno dichiarato provato "l'accordo politico-mafioso tra il capo-mandamento Giuseppe Guttadauro e l'uomo politico Salvatore Cuffaro, e la consapevolezza di quest'ultimo di agevolare l'associazione mafiosa, inserendo nella lista elettorale per le elezioni siciliane del 2001 persone gradite ai boss e rivelando, in più occasioni, a personaggi mafiosi l'esistenza di indagini in corso nei loro confronti."
Non era stato il suo segretario  Pierferdinando Casini, qualche tempo prima in vista delle elezioni politiche del 2008, a definire Cuffaro un "perseguitato politico" annunciando di candidarlo alle consultazioni nazionali, violando dunque la promessa, in campagna elettorale, di non candidatura per chi avesse subito condanne?
E tutto ciò senza neppure prendersi la briga di una tardiva pubblica ammenda di tali dichiarazioni, a condanna definitiva ormai emanata!
Questa gente, fra l'altro responsabile del disastro economico, finanziario ma innanzitutto morale in cui versa il nostro paese, si permette il lusso di dare lezioni di antimafia a Grillo che, per la sua storia, evidentemente sta agli antipodi del mondo in cui è nato e prosperato il fenomeno mafioso e le altre forme di criminalità organizzata. Ma anche per i comportamenti: sua l'iniziativa di una legge di iniziativa popolare contro i condannati in Parlamento o la bellissima idea del Calendario dei santi laici, in cui protagonisti sono proprio alcune vittime illustri della violenza mafiosa.
Non sarebbe, quindi, neanche il caso di doverlo precisare se la Casta non si fosse impadronita di questa uscita sfortunata di Beppe Grillo in modo famelico e volgare, accusandolo di voler intercettare il voto mafioso.
Senza rendersi conto così di dimostrare urbi et orbi di continuare a tenerci molto a quella riserva di voti...
La battuta, estrapolata dall'iperbole di un ragionamento molto più ampio che tentava di mostrare come lo stato possa essere a volte altrettanto spietato delle organizzazioni criminali nel pretendere i tributi, potrà essere considerata infelice, inopportuna.
Ma farne scattare la crocifissione mediatica a furor di Casta non è degno di un paese democratico o presunto tale: ha il sapore amarissimo della purga.
A volte, per l'imprevisto sempre in agguato, con conseguenze involontariamente ridicole.
Ieri sera, ad esempio, nel notiziario delle ore 20 di Rai News24, il pur bravo conduttore Corradino Mineo è sbiancato in volto quando, avendo chiesto alla regia di mandare in onda la battuta grillina per ricevere un commento da parte dell'europarlamentare dell'IDV Sonia Alfano, si è visto  trasmettere un'altra parte del discorso palermitano di Grillo, in cui egli giustamente invocava, ad elezioni politiche concluse, la celebrazione di un processo pubblico che sanzionasse severamente le ruberie dell'ultimo ventennio e si concludesse, da un lato, con la restituzione del maltolto e, dall'altro, con la condanna dei politici responsabili ai lavori socialmente utili.


Giacobinismo ha subito chiosato l'altro giornalista in studio, Oliviero Beha, mentre il direttore Mineo, annuendo, implorava intanto la regia di mandare in onda il pezzo giusto: se no la gente a casa non capisce!
Ecco, questo infortunio televisivo dimostra lo spazio abissale che ormai separa la vecchia politica del trio Alfano-Bersani-Casini dagli umori della gente che questi hanno abbandonato irresponsabilmente al proprio destino dopo aver portato l'Italia al tracollo e averla lasciata alla mercé dei banchieri, della tecnocrazia europea e delle agenzie di rating, attraverso la nomina del commissario liquidatore Mario Monti.
Pochi osservatori, neppure persone di solito attente come Mineo e Beha, si rendono conto che, se soffia forte il vento giacobino, è forse perché la situazione in cui ci troviamo è talmente difficile da essere ormai imminente, più di quanto i media non lascino trapelare, la caduta dell'Ancien régime partitocratico.

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