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venerdì 2 agosto 2013

1° agosto 2013 h. 19,40: la caduta del berlusconismo

Con la sentenza pronunciata a Roma dalla Corte di Cassazione, ieri sera, che ha sancito la condanna definitiva di Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione per frode fiscale con l'interdizione dai pubblici uffici (da quantificare in separata sede con rinvio ad una sezione diversa della Corte d'Appello di Milano), si chiudono vent'anni di storia della Seconda Repubblica con un verdetto che non ammette repliche.
Berlusconi è stato dichiarato definitivamente colpevole di un grave reato, aver frodato il fisco.
Adesso politicamente andranno tratte le dovute conseguenze, tenuto conto che fino ad oggi la vita istituzionale del Paese è stata dominata da un dominus che, con un potere se possibile ancora più invasivo proprio negli ultimi dieci anni, è stato dichiarato un delinquente, cioè un soggetto che commette un atto anti-sociale ritenuto reato dalla legge penale. 
Al di là delle determinazioni che assumerà Berlusconi in seguito all'esecutività di una pena che già molti  sui media si sono già presi la briga di tentare invano di annacquare ("sì, è stato condannato ma l'interdizione dai pubblici uffici richiederà un nuovo giudizio per cui fino ad allora Berlusconi è ancora un cittadino libero con i normali diritti di chiunque altro...") ma che scatta sin da subito per cui egli resta già adesso a disposizione della giustizia, spetta alla politica prendere atto di quanto accaduto per adottare le determinazioni del caso.
In particolare il Partito Democratico non può più accettare, per non perdere definitivamente la faccia di fronte non solo alla sua base elettorale ma alla comunità internazionale, la tutela di un tal personaggio sul governo che esso stesso appoggia.
Ormai non è più in gioco la credibilità della sua classe dirigente, l'impresentabile nomenklatura del Pd, ma quella del Paese di fronte al suo popolo ed agli osservatori internazionali. 
Sul punto non è più possibile glissare neppure per una malintesa ragion di Stato perché il discredito internazionale che ogni tentativo sia pure di stendere un velo pietoso sulla vicenda provocherebbe ipso facto è ragion di Stato.
E' la Storia che chiede adesso ad una classe politica delegittimata di fare per una volta i conti con se stessa: fughe dalla realtà nè per il partito di Berlusconi ma soprattutto per il Pd non sono più possibili.
E' in gioco la tenuta dello Stato di diritto e della nostra democrazia.
L'ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti qualche giorno fa sosteneva che la condanna di Berlusconi avrebbe comportato inevitabilmente la fine del Pd.
Sarebbe l'auspicabile catarsi di questa vicenda, il lieto fine di vent'anni malvissuti.

lunedì 12 novembre 2007

Il ricorso di De Magistris e l'uguaglianza dei cittadini

L’inchiesta Why not è stata tolta definitivamente a Luigi De Magistris.
In attesa della decisione del CSM prevista per il 17 dicembre sul suo possibile trasferimento d’ufficio, il reclamo presentato dal pm di Catanzaro contro l’avocazione decisa dal procuratore facente funzioni Dolcino Favi è stato respinto per “difetto di legittimazione”.
La decisione della Cassazione, peraltro facilmente prevedibile sul piano formale, ha giudicato infatti inammissibile tale ricorso in quanto l’unico titolato a presentarlo era il Procuratore capo di Catanzaro Mariano Lombardi.
La Suprema Corte ha cioè rigettato la richiesta del sostituto procuratore Luigi De Magistris, non entrando nel merito della questione ma limitandosi ad un pronunciamento di carattere meramente formale: spetta soltanto al suo capo ufficio fare opposizione.
Il fatto è che il capo di De Magistris è proprio colui che era stato sospettato dal pm di Catanzaro di aver intralciato la sua inchiesta informandone in anticipo alcuni indagati.
Siamo al paradosso: secondo la Cassazione l’unico titolato a promuovere il ricorso contro l’avocazione è proprio uno di quelli che, secondo le carte del magistrato inquirente, potrebbe averla ostacolata.
Sul piano formale, la sentenza della Cassazione non fa una grinza: è corretta.
Tuttavia, nella fattispecie in esame, finisce per produrre conseguenze paradossali sancendo de facto una sostanziale disparità di trattamento dei cittadini in materia di giustizia.
E’ questa la cosa più assurda: formalmente, è assolutamente corretto togliere l’inchiesta a De Magistris perché è nelle prerogative del procuratore generale farlo e in quelle del suo capo ufficio non opporvisi; in pratica, a causa della particolare funzione rivestita da alcuni personaggi entrati nelle sue indagini (secondo le cronache, addirittura il Ministro della Giustizia ed il Procuratore capo di Catanzaro), ciò ne impedisce la sua normale conclusione.
E’ inutile tornare sulle motivazioni che hanno spinto il procuratore supplente Favi ad avocare l’inchiesta un attimo prima di lasciare il suo incarico: l’avocazione è un provvedimento eccezionale che viene preso di solito di fronte ad un’inerzia del magistrato inquirente, non a causa di una sua presunta “incompatibilità nel procedimento” con un riferimento troppo disinvolto all’art. 372 lett. A cpp.
Ma proseguiamo il ragionamento: l’esercizio di un potere attribuito al procuratore di avocare l’inchiesta contrasta, nel caso in esame, con il beneficio superiore di vederla portata a compimento proprio da colui, il pubblico ministero De Magistris, che l’aveva incardinata.
A questo punto, senza entrare nel merito dell’inchiesta Why not, si può trarre una prima conclusione generale: le normali procedure previste dal nostro ordinamento giudiziario non funzionano quando la lente investigativa è puntata su personaggi eccellenti come ministri, alti magistrati, autorità in carica.
Si può affermare, cioè, che esse non siano costituzionalmente corrette, ledendo il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione.
Può la Costituzione formale del nostro Paese venire così palesemente travisata nella sua applicazione materiale attraverso leggi, regolamenti, procedure burocratiche?
L’art. 3, dopo i fatti di Catanzaro, andrebbe coerentemente riscritto così: “La legge è uguale per tutti, ma non tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”.
Fare un po’ di chiarezza eviterebbe almeno i continui fraintendimenti di quanti (e non sono pochi!), peccando di ingenuità o semplicemente perché sprovvisti di una laurea in giurisprudenza, credono ancora nella terzietà ed imparzialità dell’organizzazione giudiziaria.