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giovedì 19 luglio 2012

Via D'Amelio: vent'anni dopo

L'attacco frontale che il Presidente della Repubblica ha voluto portare alla Procura di Palermo per la vicenda delle telefonate intercorse tra lui e Nicola Mancino è la dimostrazione più  eclatante, se ancora ce ne fosse bisogno, di come la Casta, anche in uno dei momenti più difficili della storia d'Italia, non abbia alcuna intenzione di farsi giudicare, prima ancora che dalla magistratura, dai cittadini, assumendosi una buona volta il peso delle enormi responsabilità dell'attuale disastro morale-politico-sociale ed economico in cui versa il nostro Paese.
E' uno spettacolo avvilente che angustia ogni cittadino, anche quelli che meno attenzione pongono alle vicende politiche e che, quando pure vi gettano un occhio di traverso, subito se ne ritraggono disgustati.
E' sorprendente che il primo cittadino d'Italia, su una vicenda gravissima come la stagione delle stragi di mafia del 1992-93, a vent'anni di distanza da quei fatti sanguinosi che hanno gettato a livello internazionale un'ombra infamante di sospetto su tutti noi ed una seria ipoteca alla credibilità dellle nostre istituzioni, ponga in essere uno scontro durissimo proprio contro quei magistrati che, mettendo a repentaglio la propria stessa incolumità, si stanno dannando l'anima, nell'isolamento generale in cui sono stati confinati dai media di regime e dalla partitocrazia tutta, per recuperare la verità di una stagione maledetta e finalmente portare alla sbarra i mandanti e gli esecutori materiali di quella mattanza.
Il tutto, per distruggere il contenuto di recenti conversazioni telefoniche che Sua Eccellenza ha intrattenuto nei mesi scorsi con un privato cittadino indagato per falsa testimonianza ed intercettato da quegli stessi pm, Nicola Mancino (nel luglio del '92 ministro dell'Interno), che gli si era rivolto sia direttamente che per il tramite del suo consigliere giuridico, affinché intervenisse nell'inchiesta, in barba a elementari principi di correttezza  giuridica.
Volendo pure riconoscere le migliori intenzioni al Capo dello Stato nel delimitare le proprie prerogative costituzionali, è un dato di fatto che la sua condotta finisce per impattare pesantemente con una delicatissima inchiesta dagli esiti decisivi per l'essenza stessa della nostra democrazia: accertare finalmente le responsabilità e i fatti di quel drammatico biennio stragista.
Per tutti gli Italiani questa dovrebbe essere un'assoluta priorità, l'unico lavacro possibile per bonificare le nostre istituzioni e segnare un discrimine con un passato sconvolgente.
Ma non è così per il primo cittadino che subordina l'accertamento di quella tragica verità alla distruzione dei contenuti di quelle sue incaute telefonate con Mancino.
Ma cosa mai ci sarà in esse di tanto sconveniente da fargli preferire la loro immediata distruzione, con un inevitabile strascico di polemiche?
Fra l'altro rinforzando nei cittadini la generale sensazione che la politica è qualcosa di veramente abietto.
Le parole pronunciate da Antonio Di Pietro per esortare Giorgio Napolitano a desistere da questo scontro, tornando sui propri passi e divulgando spontaneamente quelle telefonate, non hanno nulla di indecente come il segretario del Pd Pierluigi Bersani sostiene, cronicamente a corto di argomenti, e volendo quasi assumere improvvidamente le vesti di garante di Napolitano: "Di Pietro sa benissimo, come sanno tutti, che a giudizio di tutti, compresi i magistrati il presidente Napolitano non ha nessuna ragione di difendere la sua persona". 
Ma come fa a dire questo, se non conosce il contenuto delle telefonate?
Indecente è che il segretario di quello che potrebbe diventare la prima forza politica italiana si acconci a una goffa difesa d'ufficio del presidente Napolitano, senza neanche rendersi conto (questo sì è molto grave!) che ponendo questa sgangherata tutela sul Presidente della Repubblica, contribuisce pure lui a metterlo in straordinaria difficoltà.
Bersani si mette a fare il Niccolò Ghedini della situazione, senza però averne né i titoli né le capacità, scimmiottando l'avvocato di Berlusconi con esiti disastrosi.
Insomma anche in questo campo, Pd e Pdl si comportano esattamente allo stesso modo: quando si tratta di difendere i compagni di cordata, usano gli stessi slogan, la stessa arroganza, lo stesso disprezzo per i cittadini.
Insomma, il richiamo della foresta, o meglio il richiamo di Casta, è più forte di tutto. Persino del buon senso.  Per loro il potere viene prima di tutto, è sopra la legge, e non si fa giudicare. Mai.
Neppure quando la loro credibilità è scesa sotto zero, neppure quando i loro comportamenti scavano un fosso incolmabile con gli elettori: basta fare un giro per la rete in queste ore per rendersene conto.
Neppure quando ricorre il ventesimo anniversario della strage di Via D'Amelio e si apprestano a commemorare, come niente fosse, il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta: con la faccia contrita, continueranno a recitare il copione di sempre.
Incuranti di una liturgia ormai logora e vuota, invocheranno per l'ennesima volta giustizia, ma, dietro le quinte, fanno di tutto perché a ciò non si arrivi mai.

lunedì 16 luglio 2012

Il Quirinale contro la Procura di Palermo: una brutta pagina di storia

Si apprende in queste ore che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha firmato il decreto di incarico all'Avvocatura generale dello Stato per sollevare conflitto di attribuzione nei confronti della Procura generale di Palermo, per la nota vicenda delle telefonate intercorse e intercettate tra Napolitano stesso e Nicola Mancino, essendo state messe sotto controllo le utenze telefoniche di quest'ultimo, indagato dai pm siciliani per falsa testimonianza nell'ambito dell'inchiesta sulla presunta trattativa Stato mafia.
Per i cittadini onesti di questo Paese, l'atteggiamento di Napolitano è veramente incomprensibile.
Ma come??
Di fronte alla necessità di fare chiarezza sulla stagione delle stragi mafiose del 1992-93 e sul 'papello' che i boss mafiosi avrebbero concordato con gli apparati istituzionali, che cosa fa il Capo dello Stato?
Invece di compiacersene elogiando pubblicamente l'impegno profuso dai magistrati di Palermo per venire a capo dei troppi misteri e fare luce sulle tante zone d'ombra di quella stagione eversiva e di sangue che provocò numerosissime vittime innocenti (in primis, il sacrificio umano di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e delle loro scorte, a cui il popolo Italiano deve eterna riconoscenza) e magari fare in modo che possano continuare a lavorare, facendo loro sentire il più possibile la vicinanza dei vertici delle istituzioni, con la massima serenità, efficacia e celerità per individuare i mandanti occulti di quell'ecatombe, che cosa fa il primo cittadino della repubblica?
Ingombrantemente, si mette di traverso all'inchiesta palermitana, non solo non svelando spontaneamente il contenuto di quelle conversazioni che pure nelle settimane scorse ha affermato stizzosamente essere irrilevanti, ma addirittura appellandosi alle sue prerogative di irresponsabilità per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, scomodando a sproposito l'art. 90 della Costituzione.
In pratica si attesta sulla linea di difesa di Eugenio Scalfari che questi aveva spudoratamente esposto in un recente editoriale che, è il caso di ricordarlo ai lettori più distratti, nei giorni scorsi è stata oggetto di pubblico ludibrio da parte di molti osservatori ed esperti costituzionalisti, per essere palesemente un coacervo di castronerie sul piano logico e di giganteschi strafalcioni giuridici.
Infatti, dando un attimo per  buone le parole di Scalfari ma solo come esercizio di scuola, ovvero ragionando per assurdo, si arriverebbe alla conclusione impossibile che, qualora la primula rossa della mafia, Matteo Messina Denaro, decidesse di telefonare al Quirinale, gli ufficiali di polizia che magari ne ascoltano da tempo le conversazioni, dovrebbero immediatamente interrompere l'intercettazione stessa, quand'anche nel corso della telefonata pronunciasse minacce contro l'inquilino del Colle o svelasse le sue complicità o ancora il suo nascondiglio per essersi risolto a porre fine alla propria latitanza.
Tutto ciò nel malinteso intento di tutelare (?) l'irresponsabilità del presidente della Repubblica.
Una tale mostruosità si commenta da sé.
Ma ciò che più delude (o indigna) è la motivazione che Napolitano adduce a tale iniziativa: "evitare si pongano, nel suo [nda: del Presidente] silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell'occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la costituzione gli attribuisce".
Insomma, la classica foglia di fico: non lo faccio per me ma per il mio successore.
E doveva cogliere proprio l'occasione sbagliata per contornare, in punta di diritto, le proprie prerogative costituzionali?
E proprio quando alle viste per l'Italia democratica c'è il traguardo di riportare alla luce, vent'anni dopo, le nefandezze e le responsabilità del biennio stragista,  da cui ha preso forma l'attuale Seconda repubblica.
Mentre l'Italia si dibatte tra mille difficoltà, una brutta pagina di storia viene scritta oggi in cima al Colle: eppure lassù non c'è Berlusconi!

giovedì 21 giugno 2012

Repubblica e la difesa del Colle

Le rivelazioni che stanno uscendo grazie alle indagini della procura di Palermo sul patto mafia-stato che nel 1992 avrebbe tra l'altro portato alla strage di via D'Amelio, con l'uccisione del giudice Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta, sono di un'estrema gravità e qualsiasi cittadino italiano degno di questo nome avrebbe il diritto sacrosanto di pretendere, ad alta voce, la massima trasparenza a tutti i livelli istituzionali affinché sia fatta finalmente luce, con vent'anni di ritardo,  su una delle stagioni più oscure e terribili della nostra storia.
Soprattutto ci si aspetterebbe da parte degli attuali vertici istituzionali, in primis la presidenza della Repubblica, la massima collaborazione con quel manipolo di eroici magistrati che, avendolo giurato prima ancora che sopra la tomba dei colleghi alla propria stessa coscienza ed a tutti gli Italiani, si prodigano quotidianamente nell'indifferenza o nel silenzio complice della politica, combattendo una lotta impari ed a rischio del proprio estremo sacrificio, per venire a capo delle tante ombre che ancora si affollano su quelle tragiche vicende e ne occultano la verità e le gravissime responsabilità penali.
Purtroppo, nella costernazione di quanti hanno ancora a cuore questo Paese, non è così. E ad essi si risponde in modi evasivi ed arroganti.
Lo staff del presidente della Repubblica ha infatti definito come "risibili e irresponsabili illazioni" le rivelazioni del Fatto Quotidiano sulle pressioni esercitate dall'ex ministro Nicola Mancino contro i pubblici ministeri di Palermo, in prima linea nell'indagine sullo scellerato patto che, cedendo al ricatto mafioso, all'epoca avrebbe finito per barattare l'incolumità di alcuni politici per l'allentamento delle condizioni carcerarie dei boss mafiosi allora detenuti.
Meno grave ma ugualmente inquietante è che alcuni importanti quotidiani, dopo essere stati i primi ad averne dato nei giorni scorsi la notizia (sia pure a pagina 22 che, come ironizza il grandissimo Marco Travaglio, "dev'essere quella riservata agli scandali di Stato")  si affannino adesso a minimizzarne la portata, e per voce delle loro firme migliori, a mettere su una difesa del Colle così sbilenca e raffazzonata da lasciare allibiti.
Racconta, infatti, Eugenio Scalfari in un poco meditato intervento video, spendendosi a spada tratta per Giorgio Napolitano, che non sarebbe la prima volta che il Capo dello Stato interviene su un'inchiesta in corso quando la magistratura procede in ordine sparso e fa il caso del conflitto di competenza sollevato a suo tempo tra le procure di Salerno e Reggio Calabria.
Ma,  a parte le mille riserve su questo paragone, Scalfari fa finta di non sapere che sulla trattativa mafia-Stato del '92-93 non c'è alcun conflitto di competenza tra le procure di Palermo e Caltanissetta (che intanto sta indagando sulla strage di Via D'Amelio) e dunque nessuna necessità di coordinamento o normalizzazione, che dir si voglia.
Inoltre, implicitamente egli avalla l'inammissibile pratica per cui un imputato, quale è allo stato degli atti il privato cittadino Nicola Mancino,  possa chiedere riservatamente un intervento superiore sull'inchiesta in cui lui stesso è direttamente coinvolto abusando della conoscenza personale del Capo dello Stato.
Una mostruosa bestemmia logica prima ancora che giuridica.
Ed è per questo che Scalfari, mandato all'ammasso il buon senso, è costretto a spostare il focus della sua argomentazione sul governo Monti, usando le stesse argomentazioni che per anni hanno usato gli ascari di Berlusconi per sottrarlo politicamente all'assunzione di responsabilità sui suoi vizi pubblici e privati: chi attacca Napolitano per queste ragioni pretestuose (sic!), egli conclude, lo fa per indebolire il governo Monti e quindi il PD deve prendere le distanze da Antonio Di Pietro, promotore di un'indagine parlamentare sui fatti del biennio nero '92-93.
Ma è possibile che un quotidiano come Repubblica sia disposto a tale sacrificio culturale, intellettuale (e di lettori!), pur di difendere ciecamente il Quirinale, il governo dei tecnici e  quel che resta del PD?