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mercoledì 11 dicembre 2013

Il silenzio di Napolitano sulle minacce al pm Di Matteo

Purtroppo sono cronaca di questi giorni le rinnovate gravissime minacce rivolte dal boss mafioso Totò Riina contro il pm Nino Di Matteo, magistrato che indaga sulla trattativa Stato-mafia. 
Minacce sempre più gravi e circostanziate tali da premurare i responsabili dell'ordine pubblico ad elevare al massimo livello operativo la protezione di questo magistrato a cui viene caldamente suggerito di usare per gli spostamenti quotidiani non più la macchina blindata ma un Lince, un carro armato come quelli usati dai nostri soldati in Afganistan. 
Palermo come Kabul, si direbbe. 
Soltanto questa semplice ma paradossale analogia dovrebbe far riflettere tutti sulla drammaticità del momento mentre la magistratura, abbandonata dalla politica ad inseguire la legalità su un crinale sempre più insidioso, manda a processo pezzi dello Stato per venire a capo di quel patto scellerato che venne sancito vent'anni fa tra suoi apparati, più o meno deviati, e i boss mafiosi per fermarne l'azione stragista. Come non ricordare infatti gli assassini politici, la mattanza di Capaci e di via D'Amelio, le bombe di Roma, Firenze, Milano?
A parte la necessità di interrogarsi sul perché proprio adesso ci sia questa escalation di minacce da parte del boss mafioso di Corleone, che, al limite, dovrebbe essere contento che finalmente la giustizia italiana faccia piena luce su chi sia stata la sua controparte istituzionale di quella convergenza eversiva visto che, finora, a pagarne le conseguenze giudiziarie sono stati soltanto i boss di Cosa nostra, la domanda che scuote le coscienze e che inquieta i cittadini onesti, insieme al timore che Di Matteo non venga protetto abbastanza dallo Stato (anche semplicemente per carenza di risorse o per le possibili inefficienze dell'apparato di sicurezza), è un'altra ed è, se possibile, più allarmante.
Come mai il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di fronte all'inasprimento della sfida mafiosa contro uno dei magistrati di punta sul fronte della criminalità organizzata, non si è sentito in animo di pronunciare una parola, che sia una, di solidarietà e di conforto nei suo confronti? 
Perché, nonostante siano arrivate, da più parti, pubbliche sollecitazioni in questo senso, particolarmente accorate e vibranti, colui che dovrebbe incarnare l'unità nazionale ed essere il primo tra i cittadini, ancor oggi non si sente in dovere di esprimere a nome del popolo italiano un gesto simbolico di apprezzamento, di stima e di vicinanza verso un magistrato così impegnato nella lotta alla mafia, fatto oggetto reiteratamente dell'intimidazione criminale?
Non vogliamo credere che, tra un monito e l'altro, nel suo irrituale protagonismo sulla scena politica, che molti autorevoli osservatori valutano da tempo oltre il tracciato costituzionale, il presidente della Repubblica non abbia trovato il tempo e la determinazione per fermarsi a riflettere in merito. 
Disponibilità che pure ha mostrato nel sottoscrivere, nell'ambito del processo sulla Trattativa, una lettera indirizzata al Presidente della Corte d'Assise di Palermo tre settimane fa,  nella quale, in qualità di teste ammesso a deporre sui contenuti di una missiva inviatagli dallo scomparso consulente giuridico Loris D'Ambrosio, sostiene di non avere nulla da riferire e quindi di voler evitare la testimonianza (benchè una successiva nota del Quirinale abbia smentito questa intenzione).
In una stagione politica così travagliata, non vorremmo che questa grave inadempienza di Napolitano, che vorremmo attribuire a sciatteria dei suoi uffici, si riverberi negativamente sulla Presidenza della Repubblica, proprio mentre a Milano un sit-in di cittadini davanti all'aula bunker dove è in corso un'udienza di quel processo (che deve registrare l'assenza forzata di Di Matteo proprio per motivi di sicurezza), esprime a questo valoroso magistrato quella solidarietà che dal Colle finora è clamorosamente mancata.

giovedì 11 luglio 2013

La nuova notte della repubblica

Il governo Letta è una contraddizione in termini.
Ormai dopo tre mesi, questa sembra la scoperta dell'acqua calda. 
Ciò nonostante, grazie al tam tam dei media, poteva fino all'altro ieri vantare un grosso avvenire dietro le spalle, in forza del mandato eccezionale ricevuto dal Presidente della Repubblica, chiamato a fare gli straordinari dopo che una legge elettorale palesemente incostituzionale ci ha restituito un Parlamento senza alcuna maggioranza politica.
Tecnicamente, è stato il governo del tirare a campare per non tirare le cuoia, come avrebbe suggerito Giulio Andreotti: l'ammucchiata Pd-Pdl si è caratterizzata per la necessità di gestire il potere senza però concretamente esercitarlo, cioè senza incidere nel tessuto sociale del Paese.
La situazione economica è difficilissima, non parliamo di quella finanziaria, conseguenza della rigidità dell'euro che di fatto impedisce qualsiasi seria politica fiscale: senza leva monetaria che accompagni la politica fiscale, non ci sono gradi di libertà per qualsiasi governo varchi la stanza dei bottoni.
L'unica cosa che sarebbe possibile attuare (e non è da poco!) è la legge sul conflitto di interessi, una nuova legge elettorale, il riassetto del sistema radiotelevisivo, la riforma della pubblica amministrazione, una nuova politica industriale, il riassetto del sistema bancario italiano, la riforma della sanità, della scuola, del finanziamento della politica, degli ordini professionali, dell'assetto istituzionale che, senza la necessità di abolire le province, ridefinisca funzioni, capacità di spesa e risorse degli enti locali, in un quadro di riorganizzazione dell'intera macchina pubblica.
Alcune di queste riforme sono a costo zero, altre consentirebbero un notevole risparmio di spesa che potrebbe poi essere destinata a quegli interventi strutturali che richiedono necessariamente nuovi investimenti. 
Ma allora perché il governo Letta non le mette perlomeno in cantiere? 
Semplice. Pd e Pdl esprimono proprio quella classe dirigente che ha plasmato così male il nostro Paese in questi ultimi vent'anni e che, pertanto, non ha la minima intenzione di cambiare, non fosse altro perché entrerebbe in conflitto d'interessi con se stessa. 
D'altra parte, a livello europeo, essa è priva di qualsiasi credibilità, sia per il livello di corruzione raggiunto che per l'estrema inaffidabilità mostrata in più occasioni, a cui fa paradossalmente da contraltare una totale subordinazione ai diktat USA, come la recente vicenda degli F35 e la posizione del Ministero degli Esteri rispetto al caso Morales-Snowden dimostrano inoppugnabilmente.
Vicenda sconcertante quella dei cacciabombardieri americani, affrontata dalla nostra classe di governo con il pragmatismo levantino dei mercanti d'armi, piuttosto che, come sarebbe stato lecito attendersi, con la consapevolezza e la fermezza di uomini dello stato che hanno sinceramente a cuore gli interessi della comunità nazionale.
Impossibile quindi che l'inesperto Enrico Letta possa mai recarsi  a Bruxelles a battere i pugni al tavolo della Merkel, senza fare il bis dell'accoglienza, eufemisticamente goliardica, riservata due anni fa dal duo Merkel-Sarkozy a Silvio Berlusconi.
Ci sono quindi abbastanza motivi per cui il suo esecutivo sia diventato, senza che i media lo abbiano fatto notare al grande pubblico, un governo balneare, il dicastero delle mille proroghe: dall'Imu, all'Iva, agli F35, è tutto un rinvio... aspettando Godot.
L'unico provvedimento preso, il cosiddetto decreto del fare, è un tale guazzabuglio giuridico, un tale sconsiderato affastellamento di norme le più disparate, come il M5S aveva da subito denunciato, che bisognerà al più presto rimetterci mano. 
E' di ieri la notizia che le norme sul cosiddetto wi-fi libero, la liberalizzazione della banda larga attraverso l'estensione dei nodi di accesso pubblici, contrariamente alle intenzioni dello stesso governo, sono un tale pasticcio da frenarne lo sviluppo. A dimostrazione che anche sul piano squisitamente operativo e persino nella scelta dei suoi collaboratori, il governo del grande inciucio non smentisce la propria vocazione maggioritaria all'inettitudine.
Ma adesso ci si è messo pure Berlusconi in persona che, mandando avanti i suoi uomini alla Camera ed al Senato, ha di fatto aperto la crisi di governo, pur non avendola finora voluta formalizzare. 
Il casus belli, ancora una volta, i suoi problemi personali: ovvero la decisione della Corte di Cassazione di calendarizzare per il 30 luglio il processo Mediaset che, al secondo grado di giudizio, ha già condannato Berlusconi per frode fiscale a 4 anni di reclusione con l'interdizione per 5 anni dai pubblici uffici.
Se la corte non dovesse rilevare le eccezioni formali che l'imputato ricorrente ha avanzato (cosa che appare ai più esperti abbastanza scontata), la sentenza contro Berlusconi diverrebbe definitiva.
Platealmente, Berlusconi rovescia così sul piano istituzionale una sua privatissima questione, a suggello del profilo di un personaggio in cui l'aspetto pubblico è indissolubilmente intrecciato con quello personale, tanto da non potere distinguere il politico dall'uomo d'affari da sempre ai ferri corti con la giustizia.  
Andare a dibattere se la scesa in campo di Berlusconi nel '94 sia stata conseguenza delle sue urgenze giudiziarie o viceversa, questione che inopinatamente ancora anima dopo vent'anni gli ascari berlusconiani nei talk show televisivi, è un po' come azzuffarsi se sia nato prima l'uovo o la gallina...
Il fatto è che, con le dichiarazioni dei suoi uomini ( e delle sue donne!) di questi due giorni ma soprattutto con la sospensione dei lavori parlamentari pretesa ieri con il vergognoso voto del Pd, in una sorta di impossibile sciopero del Parlamento contro la Magistratura (scontro di potere di inaudita e pericolosissima portata eversiva), la divisione dei poteri si è andata a fare benedire.
Comunque vada, l'intimidazione che ha subito la Corte di Cassazione da parte di un Parlamento che si è prestato, con la complicità del Pd (è bene sottolinearlo!), a fungere da scudo istituzionale per proteggere gli interessi privati del condannato Silvio Berlusconi, produce inesorabilmente uno strappo tremendo al nostro assetto costituzionale e non può in nessun modo essere ignorato, condizionando pesantemente e per la prima volta in forma così pubblica e solenne, un altro potere dello Stato nell'esercizio delle sue prerogative costituzionali.
Le parole di oggi del capogruppo del Pdl Renato Schifani, già presidente del Senato (quindi seconda carica dello Stato) che minaccia l'uscita dal governo in caso di una decisione della Cassazione contraria agli interessi di Berlusconi (decisione della Suprema Corte che, si badi bene, è solo di legittimità, non potendo esprimere la stessa una pronuncia di merito che è già avvenuta e che, in quanto formatasi nei due precedenti livelli di giudizio, è da considerarsi, nel merito, definitiva) rappresentano un ulteriore attacco alle Istituzioni di portata platealmente deflagrante a cui il Capo dello Stato non può restare in alcun modo indifferente.
Ma prima ancora è il Pd che deve prendere atto di questa gravissima situazione, tirandosi fuori, innanzitutto per sensibilità e decoro istituzionale, da questo gioco al massacro che sta facendo collassare, prima che la sua rappresentanza democratica, lo stato di diritto.
Anche perché qualunque sia il pronunciamento della Cassazione, esso avrà a questo punto una portata dirompente. 
Se verrà confermata la condanna d'appello contro l'imputato Berlusconi, ne discenderà la crisi di governo; se la cancellerà, dimostrerà comunque la propria gravissima ed incostituzionale subalternità ai diktat di un pluriinquisito. 
Comunque la si pensi, l'uomo di Arcore, vero deus ex machina del governo presieduto da Enrico Letta, ha ipso facto messo in crisi la Corte di Cassazione.
La condizione drammatica in cui la Cassazione si trova ad operare è quindi conseguenza di un putsch mediatico orchestrato dai luogotenenti di Berlusconi, che intende, neppure più velatamente, piegare a proprio vantaggio l'opera della magistratura.
E tutto ciò senza la necessità di usare le maniere forti ma con lo stesso intento prevaricatore.
Solo il Pd, giocando d'anticipo ed aprendo formalmente la crisi di governo, poiché il gioco di Berlusconi è ormai scoperto e di palese violazione delle regole costituzionali (mai s'è visto prima d'ora che la vita di un governo dipenda dal destino giudiziario privato di un singolo parlamentare, peraltro non investito di alcun incarico governativo), può mettere fine a questa deriva da incubo.
Che dovrebbe indurre anche la Procura della Repubblica di Roma ad intervenire, avendo la sfida berlusconiana oltrepassato ogni limite.
Infine, una domanda a Guglielmo Epifani, segretario pro tempore del Pd.
Ma come è possibile restare ancora un attimo a reggere il moccolo al Cavaliere in questa tremenda notte delle Istituzioni?

giovedì 30 agosto 2012

Il Quirinale si difende (da solo!) soltanto con la trasparenza

Dopo le fasulle rivelazioni di Panorama, settimanale di proprietà berlusconiana, sul contenuto delle telefonate intercorse tra il Capo dello Stato e Nicola Mancino, già ministro dell'Interno nel biennio stragista 1992-93, è evidente a tutti che la Presidenza della Repubblica è sotto attacco da parte della destra guidata dall'ex premier.
Non importa che le telefonate non siano state rese pubbliche e restino secretate nella cassaforte della Procura di Palermo.
A questo punto, potrebbero pure essere già state distrutte, ma la cappa di sospetti e veleni che ammanta il Quirinale è tutta lì a dimostrare che di certo Giorgio Napolitano questa volta non se la potrà cavare solo con la dura nota diramata quest'oggi e che suona quantomai contraddittoria:
"La 'campagna di insinuazioni e sospetti' nei confronti del Presidente della Repubblica ha raggiunto un nuovo apice con il clamoroso tentativo di alcuni periodici e quotidiani di spacciare come veritiere alcune presunte ricostruzioni delle conversazioni intercettate tra il Capo dello Stato e il senatore Mancino. Alle tante manipolazioni si aggiungono, così, autentici falsi. Il Presidente, che non ha nulla da nascondere ma valori di libertà e regole di garanzia da far valere, ha chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi in termini di principio sul tema di possibili intercettazioni dirette o indirette di suoi colloqui telefonici, e ne attende serenamente la pronuncia. Quel che sta avvenendo, del resto, conferma l'assoluta obbiettività e correttezza della scelta compiuta dal Presidente della Repubblica di ricorrere alla Corte costituzionale a tutela non della sua persona ma delle prerogative proprie dell'istituzione. Risibile perciò è la pretesa, da qualsiasi parte provenga, di poter "ricattare" il Capo dello Stato. Resta ferma la determinazione del Presidente Napolitano di tener fede ai suoi doveri costituzionali. A chiunque abbia a cuore la difesa del corretto svolgimento della vita democratica spetta respingere ogni torbida manovra destabilizzante".

Perché il presidente, con il suo comportamento di resistenza alla pubblicazione delle intercettazioni, tende oggettivamente a potenziare la carica dirompente di quelle possibili manovre destabilizzanti.
Se è vero, come egli afferma (e come non abbiamo ragione di dubitare), che sia risibile il tentativo di ricatto nei suoi confronti, ha solo un modo per dimostrarlo: rendere pubbliche quelle conversazioni e ritirare il lacerante conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo.
Non c'è altra strada!
Come da settimane i giornalisti del Fatto Quotidiano, Beppe Grillo e, in Parlamento, il solo Antonio Di Pietro, non si sono stancati di fargli capire in tutti i modi possibili,  Giorgio Napolitano, ascoltando i cattivi consiglieri che lo attorniano dentro e fuori il palazzo presidenziale, ha finito per ficcarsi spontaneamente in un vicolo cieco.
E sono stati gli unici che, a viso aperto e con grande lealtà, gli hanno dimostrato inoppugnabilmente che tra il resistere asserragliato dentro il Palazzo dietro presunte prerogative costituzionali (che Costituzione alla mano, non esistono!), il tutto per non rivelare il contenuto di quelle conversazioni, e il renderle una volta per tutte pubbliche, rinunciando pure ad un pericolosissimo precedente quale il ricorso alla Consulta secondo il parere spassionato di insigni giuristi come Franco Cordero e Gustavo Zagrebelsky, la seconda strada risulta inequivocabilmente la migliore, anzi l'unica ragionevolmente percorribile per limitare al massimo i danni alle nostre istituzioni ed eliminare sul nascere qualsiasi torbido tentativo di usare strumentalmente questa vicenda.
Del resto, a fronte di conversazioni private sicuramente non all'altezza della considerazione che gli Italiani nutrono per il loro anziano presidente (altrimenti egli non indugerebbe tanto a farle rendere note, diversamente da come si è regolato per quelle con l'ex capo della protezione civile, Guido Bertolaso), l'insistere nel tenerle nascoste a tutti i costi, dimostra sfiducia proprio nei loro confronti e nel loro grado di maturità.
Perché gli Italiani dovrebbero allora continuare a fidarsi del loro Capo dello Stato se questi dimostra, con la sua reticenza, di non ricambiarla?
Distrutte che fossero quelle telefonate e con ricorso alla Consulta necessariamente vinto (dato il peso massimo della sua istanza), forse che la figura istituzionale del Presidente della Repubblica non sarebbe maggiormente esposta ad ogni più bieca manovra di corridoio ed a qualsivoglia illazione, tanto da minarne irrimediabilmente il prestigio personale ed  a svilirne il ruolo essenziale esercitato nell'equilibrio costituzionale?
Come si vede, purtroppo, non ci sono altre chance per Giorgio Napolitano.
Per smontare il ricatto in essere (così poco risibile da rendere imperativa la sua immediata e  dura nota), l'unica strada resta la trasparenza!

venerdì 24 agosto 2012

Ezio Mauro sulla scia di Scalfari: W il Colle e la partitocrazia!

Sollecitata da più parti, quasi sospirata dal berlusconiano Giuliano Ferrara, è arrivata la risposta di Ezio Mauro, il direttore di Repubblica, chiamato a dipanare un grave problema di linea editoriale tenuto conto che sul suo giornale dove il corazziere Eugenio Scalfari fa il bello e cattivo tempo lanciando strali contro chiunque osi mettere in discussione il comportamento di Giorgio Napolitano, scrivono pure grandi giuristi come Gustavo Zagrebelsky e Franco Cordero, assai critici con la recente decisione del Presidente della Repubblica di sollevare conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, per via delle sue improvvide telefonate con Nicola Mancino, delle quali il Capo dello Stato avrebbe preteso la distruzione immediata  sulla base di sue millantate prerogative di intangibilità, esortando i pm siciliani a conformarsene, pure oltrepassando la legge (che lascia questa decisione al Gip durante la cosiddetta udienza-filtro in cui sono presenti tutte le parti processuali).
Rivendica con orgoglio il fatto che sul suo giornale possano confrontarsi liberamente pareri contrapposti anche se, ad avviso di molti, gli interventi pur autorevoli in dissenso con il Quirinale rappresentano voci fuori dal coro, anche visivamente sopraffatte dai caratteri cubitali e le lenzuolate di segno opposto; oggetto pure di dileggio da parte del fondatore di Repubblica che domenica all'insigne costituzionalista Zagrebelsky ha riservato un trattamento speciale, non esitando a dargli dello sprovveduto, dello scorretto, persino dell'ignorante.
Così  meritandosi, per la prima volta in assoluto, il plauso peloso dei lacché berlusconiani, da Sandro Bondi a scendere, che da sempre hanno i nervi scoperti sulle questioni giudiziarie, per evidenti necessità di bottega.

Mauro cerca di attraversare il difficile crinale che lo obbliga, su un versante, a non sconfessare il suo anziano mentore, pena la fine, brevi manu, della sua avventura professionale a Largo Fochetti, dall'altro a non poter eccepire veramente nulla alle due illustri firme di Repubblica, in  particolare a Zagrebelsky, a cui lo unisce pure una grande amicizia personale.
Così, preso tra  due fuochi (o meglio tra il lanciafiamme di Scalfari e la lucida penna dei prestigiosi collaboratori) si trova, con un artificio retorico, prima a sostenere posizioni più aperte (l'indagine della Procura "è meritoria" e "gli italiani hanno il diritto di conoscere la verità sulla trattativa Stato-mafia, dopo vent'anni di nascondimenti, di menzogne e depistaggi") così segnando un distinguo rispetto al pensiero scalfariano, ma poi a battere precipitosamente in ritirata: il conflitto sollevato da Napolitano "è perfettamente legittimo. Può non essere opportuno, ed è una valutazione politica: io non lo avrei aperto".

Ma Mauro non è la Corte Costituzionale (che il 19 settembre sarà chiamata ad esprimersi sull'ammissibilità giuridica del ricorso) e riconoscendone l'inopportunità, finisce per fare una critica nient'affatto marginale all'operato di Napolitano.
Anche perché stiamo parlando di un'iniziativa presidenziale presa in un momento particolarmente grave per l'Italia, in cui tutto ci si poteva attendere tranne che colui che, per dirla enfaticamente alla Mauro, "gli altri Paesi considerano come uno dei pochi punti fermi della nostra democrazia" desse vita ad uno scontro istituzionale tanto dirompente e dalle conseguenze ancora imprevedibili.
Infatti, si immagini  per un istante che cosa potrebbe accadere tra qualche settimana se la Consulta giudicasse inammissibile il conflitto di Napolitano: costui, dopo aver squassato l'equilibrio dei poteri, come potrebbe restare un minuto in più al proprio posto?
E' ovvio che in questo modo si mettono i giudici costituzionali con le spalle al muro, costringendoli a prendere una decisione  a favore del Colle, che più politica non potrebbe essere! Come saggiamente, dall'alto della sua scienza e di una particolare sensibilità istituzionale, ma pure con tutta la cautela di questo mondo, osservava sgomento Zagrebelsky.
Che il punto cruciale sia questo è dimostrato dal fatto che quegli stessi corazzieri di complemento che plaudono alla sconsiderata iniziativa di Napolitano si rendono conto che urge farla passare il più possibile sotto tono.
Macché, non è un atto presidenziale senza precedenti, è una tazzulella 'e caffé! Che volete che sia?
Ammesso e non concesso che sia dell'importanza di una tazzina di caffé, non si capisce come mai Napolitano l'abbia sollevata proprio adesso e contro la Procura di Palermo.
Perché, in precedenza, quella di Firenze, nell'ambito delle indagini sulla cosiddetta cricca degli appalti, aveva messo agli atti proprio le telefonate intercorse tra il Presidente e Bertolaso, in cui il primo si preoccupa, con una grande partecipazione emotiva, della situazione dei terremotati dell'Aquila.
Quindi l'affermazione ripetuta adesso pure da Ezio Mauro che "il Presidente non ritiene che i testi delle sue conversazioni private debbano essere divulgati, a tutela delle sue prerogative più che del caso specifico" suona finta e appare di giorno in giorno come la classica foglia di fico, che però è più imbarazzante di Alte nudità verbali che probabilmente serve ad occultare.

Poi Mauro inizia a menare il can per l'aia, mettendo sullo stesso piano le telefonate di Napolitano con Nicola Mancino, testimone poi divenuto indagato, con quelle intercorse  per finalità istituzionali con i più disparati interlocutori, nell'ambito di quella tipica attività istituzionale di moral suasion che il Capo dello Stato quotidianamente deve esercitare sia come potere discrezionale che come dovere d'ufficio. Come, ad esempio, quella che ha caratterizzato le settimane precedenti le dimissioni di Berlusconi e l'avvento di Mario Monti a Palazzo Chigi.
Per poi domandarsi retoricamente "è interesse di Napolitano (posto che non si parla in alcun modo di reati) o è interesse della Repubblica che queste conversazioni non vengano divulgate? Secondo me è interesse di tutti, con buona pace di chi allude senza alcuna sostanza a misteriosi segreti da proteggere, già esclusi da tutti gli inquirenti."
Ecco che il direttore di Repubblica finisce per attestarsi rapidamente sulla linea di Scalfari circa l'esistenza di un complotto contro il Quirinale, che egli ammette di aver focalizzato sul nascere già due mesi fa.
Non arriva a definirne i contorni, con nomi e cognomi, ma siamo lì, è lo stesso populismo giuridico evocato da Luciano Violante qualche giorno fa.
Solo che ci arriva, con uno sforzo retorico degno di migliore causa, con un discorso tutto strampalato dove, ficcandoci dentro tutto e il suo contrario e agitando prima dell'uso (shakerando da bravo barman persino le categorie culturali della destra e della sinistra), alla fine va a parare sempre lì, sull'antipolitica, che sarebbe l'origine di tutti i mali italiani.
Due i passaggi decisivi:
"Io ho una mia risposta, che non piacerà ai miei critici sui due spalti contrapposti. Il fatto è che l'onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra. Una destra diversa dal berlusconismo, evidentemente, ma sempre destra: zero spirito repubblicano, senso istituzionale sottozero (come se lo Stato fosse nemico), totale insensibilità sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza e dell'emancipazione, delega alle Procure non per la giustizia ma per la redenzione della politica, considerata tutta da buttare, come una cosa sporca."

Ma con chi ce l'ha? E' l'identikit dell'attuale Partito Democratico...
Sembra impossibile, forse abbiamo capito male, così andiamo avanti:
"Ma per chi ha queste posizioni, cultura è già una brutta parola. Meglio alzare ogni giorno di più i toni chiamando i politici "larve", "moribondi", "morti". Meglio alimentare la confusione, fingere che la destra sia uguale alla sinistra, che è il vero nemico, come il riformismo è stato sempre il nemico del massimalismo.
Ecco perché per coloro che sostengono queste posizioni Berlusconi non è mai stato il vero avversario, ma semplicemente lo strumento con cui suonare la loro musica. Per questa nuova destra, Napolitano e Berlusconi devono essere uguali, ingannando i cittadini."
Ah, adesso è chiaro: ce l'ha pure lui con Beppe Grillo, Antonio Di Pietro, e perché no?, Marco Travaglio e i ragazzi del Fatto Quotidiano!
Siamo all'apoteosi del ridicolo: insomma, la colpa della decadenza italiana, del fallimento politico-istituzionale ed economico-finanziario, sarebbe, udite udite, di chi fuori dal Palazzo (è bene precisare, con la propria dedizione quotidiana e senza prendere una sola lira di denaro pubblico!) negli ultimi vent'anni ha denunciato la corruzione, le ruberie, il parassistismo, il nepotismo e l'incompetenza della partitocrazia, le deviazioni dal solco costituzionale della nostra democrazia.
Gli unici responsabili dello scempio attuale sarebbero cioè coloro che da sempre invocano verità e giustizia e sostengono il lavoro dei magistrati affinché accertino la responsabilità di quanti, dentro e fuori le Istituzioni, quale che sia il colore politico e il ruolo ricoperto, sono stati gli ispiratori, i mandanti, i lucratori della stagione del Terrore politico-mafioso.
Per Mauro addirittura rappresentano "la nuova destra", non meno pericolosa di quella berlusconiana, da  "'il Borghese' degli anni più torvi" (dice proprio così!).
Adesso si capisce come mai dalle parti del Pdl, Bondi, Cicchitto, Gasparri, Ferrara & c., increduli, stiano festeggiando.


domenica 19 agosto 2012

Scalfari furioso contro Zagrebelsky

Eugenio Scalfari, nel suo ultimo editoriale, arriva a prendersela addirittura con l'insigne costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, colpevole di aver invitato, con un intervento chiarissimo e oggettivamente ineccepibile su Repubblica di venerdì, il Capo dello Stato a fare un passo indietro nella guerra dichiarata alla Procura di Palermo, in seguito all'inaudito e senza precedenti conflitto di attribuzione sollevato contro i Pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia, da cui derivarono le stragi del 1992-93 con l'uccisione del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta ma forse anche la precedente ecatombe di Capaci, con il chilometro di autostrada fatto saltare al passaggio del corteo di auto in cui viaggiavano Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti di scorta.
E' vero che con l'età, specie se veneranda, si perdono i freni inibitori ma Scalfari ha l'ardire di  impartire insulse lezioni di diritto costituzionale non solo ad un ex presidente della Consulta ma soprattutto ad un indiscusso valentissimo giurista, lui che si è laureato in giurisprudenza nel 1946, avendo avuto al massimo dimestichezza con lo Statuto Albertino piuttosto che con la Costituzione Repubblicana (del 1948). 
Ma è forse proprio la sua vetusta e obsoleta preparazione universitaria, accanto ad una percezione di sè tanto smisurata da sembrare caricaturale, che lo induce erroneamente a riconoscere a Giorgio Napolitano i poteri di un monarca assoluto, da ancien régime.
Il tutto condito da argomentazioni speciose in cui evoca per l'ennesima volta un clima eversivo che congiurerebbe contro il Quirinale a cui lo stesso Zagrebelsky non solo colpevolmente non si sottrarrebbe ma di cui finirebbe per essere direttamente responsabile; senza dimenticare quelle forze politiche e quei giornali (leggi: Il Fatto Quotidiano) e l'uso che fanno delle sue dichiarazioni.
Scalfari giunge a tanto: ad additare presunti nemici del Presidente inserendoli in una sua fantomatica lista di proscrizione.
Siamo veramente messi male!
E poi, prendendo spunto da una recente missiva del Colle, riesce a confondere, ipocritamente, il predicare bene con il razzolare male.
Purtroppo per lui, quello che contano sono i comportamenti.
Ed è inutile che Napolitano faccia la bella figura di esortare i pm palermitani a fare piena luce sulle inchieste in corso se poi, per occultare le telefonate con Mancino che lui stesso deve evidentemente ritenere disdicevoli, arriva a compiere un atto di inaudità gravità, cui consegue la delegittimazione ipso facto di quegli stessi organi inquirenti.
Siamo tutti stanchi di quei continui vuoti e polverosi moniti cui, nella migliore tradizione italiana, non segue alcun comportamento coerente, beninteso non solo da parte sua. 
Ma ciò che di più riprovevole tenta di fare Scalfari è di negare l'esistenza della trattativa Stato-mafia, fingendo che non ci sia mai stata, nonostante parlino, molto più della ricostruzione degli storici, l'evidenza incontrovertibile di importanti sentenze giudiziarie definitive.
Per Scalfari, ma sembrano le parole di Marcello Dell'Utri, non c'è verità da conoscere: "Qual è dunque il reato che si cerca, la verità che si vuole conoscere? Deve essere un'altra e non questa". Oppure, prosegue, attribuendone l'analisi ad Antonio Ingroia "una trattativa svoltasi in una fase in cui la mafia era ridotta al lumicino e per tenerla in vita si invocava l'aiuto dello Stato".
Qui lo scantonamento di Scalfari diventa pericoloso: ma quando mai la mafia è stata ridotta al lumicino?
Il fatto che i capimafia da dentro il carcere spingessero per l'abolizione del 41 bis non vuole assolutamente dire che il loro potere si fosse indebolito né che indebolita fosse l'organizzazione criminale che continuavano a comandare.
E' tuttavia evidente che in una struttura tanto accentrata e gerarchizzata come Cosa nostra, che  dipende in tutto e per tutto dai boss, sia pure internati nelle patrie galere, la possibilità di questi di comunicare più facilmente con l'esterno andava al più presto ristabilita, anche al prezzo di alzare il livello della sfida criminale contro lo Stato e di scatenare un volume di fuoco senza precedenti, persino contro vittime innocenti.
Possibile che Scalfari prenda un abbaglio simile con tanta sciocca sicumera?
Ed anche il riferimento che fa a Giovanni Falcone non solo è di pessimo gusto ma è per certi versi inquietante. 
Cosa sta tentando di dirci? Forse che sia meglio per i magistrati palermitani rilasciare poche interviste, non addentrarsi nella "zona grigia" del coinvolgimento della politica, per poi comunque saltare in aria  su una bomba?
Dov'è finito lo Scalfari degli anni del giornalismo d'inchiesta ora che, in preda al cupio dissolvi, sta dilapidando miseramente un patrimonio di credibilità per difendere, non si sa bene come e perché, l'uomo Napolitano ma non certo l'istituzione che egli rappresenta?

La verità è che è ancora oggi in atto una lotta senza esclusione di colpi di una parte dello Stato, quella che trattò con i mafiosi ed essa stessa è stata infiltrata o è organica alla mafia, contro la parte sana che pretende finalmente verità e giustizia.
Ciò sta avvenendo nel corso di un passaggio politico epocale in cui il vecchio assetto della Seconda repubblica è collassato su se stesso in conseguenza della grave crisi finanziaria ed economica e dell'improvviso emergere di forze e movimenti nuovi che non ne possono più di una dittatura strisciante in cui ha finito per degradare il finto bipolarismo italiano.
Se il famigerato ABC, simbolo supremo di nullità ideologica e parassitismo politico, l'impresentabile trio Alfano-Bersani-Casini, non fosse stato costretto a venire allo scoperto,  appoggiando insieme e appassionatamente il governo di Mario Monti, ponendo fine a quello stucchevole teatrino quotidiano che li vedeva finti avversari con le loro penose schermaglie di rito da dare in pasto ad un elettorato ingenuo, stanco e disattento che la sera cerca in televisione solo intrattenimento a livello di "Scherzi a parte", molto probabilmente sarebbe stato possibile evitare lo scontro aperto con la magistratura ed arrivare ad una qualche forma di normalizzazione, contando sul frastuono della disinformazione di regime.
Ma l'accelerazione impressa alle indagini degli eroici pm siciliani, anche  grazie alle rivelazioni di Spatuzza e di Massimo Ciancimino, in aggiunta alla grave crisi politico-istituzionale con il discredito generale dei vecchi partiti e ai nuovi irridenti movimenti della società civile, in primis quello capeggiato da Beppe Grillo, fa temere per chi è rimasto o addirittura è andato al potere proprio a seguito di quella sanguinosa stagione, che una drammatica e definitiva resa dei conti presto ci sarà.
Ecco perché lo scontro è trasversale ai vecchi schieramenti; ecco perché l'anomalia Silvio Berlusconi ha finito per troppo tempo per camuffare una parte della verità, cioè il vero titanico scontro tra lo Stato democratico e un irriducibile Controstato politico-mafioso, i cui esponenti vestono evidentemente diverse maglie, non solo quella del Pdl.

venerdì 10 agosto 2012

La patacca di Repubblica contro Grillo

L'oscena deriva  che ormai da mesi ha imboccato il quotidiano Repubblica, divenuto di colpo un giornalaccio che gli ormai sparuti  lettori  sempre più spesso confessano di leggere di nascosto, lontano da sguardi indiscreti per non doversi giustificare prima ancora con se stessi di un'abitudine del mattino divenuta improvvisamente imbarazzante, ha toccato oggi un'altra punta di volgarità, nel quadro  di una vera e propria caccia all'uomo che sul piano mediatico il quotidiano diretto da Ezio Mauro ha scatenato inopinatamente contro il leader del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo.
Infatti, con un furore che neppure al nemico Berlusconi è stato mai riservato, la pattuglia di cronisti sguinzagliati al suo inseguimento è pronta in tempo reale ad avventarsi famelicamente su ogni sua dichiarazione, come un branco di lupi, pur di metterlo in qualche modo in cattiva luce.
Con risultati  il più delle volte controproducenti oltreche infamanti per lo stesso quotidiano romano.
Scavano nella sua vita privata, passano ai raggi X la sua lunga e brillante carriera di artista inviso da sempre alla partitocrazia, sin dagli anni ruggenti della sua barzelletta sui socialisti, ben sei anni prima che scoppiasse Tangentopoli e travolgesse i potenti uomini del cosiddetto CAF, cioè Craxi e Forlani.
Come sempre capace, come nessun altro, di anticipare i tempi e di condensare in una battuta uno scenario che di lì a poco si sarebbe manifestato con la caduta dei partiti della prima repubblica: molto meglio dei verbosi soloni che, a quell'epoca, sulla stampa, costruivano surreali cronache politiche, farcite di vuoti slogan, insulsi retroscena, termini criptici come verifica, governo vattelapesca, staffetta, ago della bilancia, riformismo, maggioranza variabilepatto del camper, ecc., espressioni gergali di una classe politica corrotta,   giunta tardivamente al capolinea  e soltanto perché finalmente colta con le mani nel sacco, dopo aver per decenni saccheggiato lo Stato.
Di lì l'ostracismo eterno che gli venne giurato dalla Casta e che continua a tenerlo lontano dagli schermi televisivi, ormai da oltre venticinque anni a questa parte.
Molto ma molto tempo prima del famigerato editto bulgaro contro Biagi, Santoro e Luttazzi pronunciato dal premier Silvio Berlusconi.
E adesso torniamo ai titoli di prima pagina che l'edizione on line di Repubblica (ma il Corriere non è da meno!)  dedica da giorni alle performance olimpiche dei nostri atleti, avendo del tutto sovvertito l'ordine delle notizie.
Così il Pil italiano a -2,5 % (profonda, drammatica recessione!), vera perla del governo Monti, scivola in basso  nel palinsesto mediatico per dare l'apertura addirittura a Josefa Idem, che si merita titoli sensazionali per aver raggiunto la finale olimpica di canoa alla veneranda età di 48 anni.
Un gesto sportivo rilevante ma che sicuramente non può oscurare tutto quello che di grave sta intanto succedendo in Italia e che, sistematicamente, viene fatto passare sotto silenzio.
A partire dalla guerra senza esclusione di colpi che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha mosso contro la Procura di Palermo (che indaga sulle stragi mafiose del 1992-93 e sulla trattativa che apparati dello Stato hanno intessuto con Cosa Nostra), invocando presunte sue prerogative e immunità che la Costituzione, Carta alla mano, non gli riconosce.
Ma anche la vicenda di Taranto, con il sequestro da parte della magistratura degli impianti dell'Ilva per inquinamento ambientale; o la vergognosa approvazione, senza un minimo di dibattito pubblico, della legge sulla subdola spending review che prevede tagli di spesa selvaggi, con grave pregiudizio, questa volta sì, per i diritti costituzionali del cittadino.
Così lo sport televisivo viene dispensato agli Italiani come oppio.
E i politici che ci stanno conducendo al fallimento si augurerebbero un'Olimpiade all'anno pur di  farci dimenticare le loro malefatte!
Vi ricordate come hanno cercato poco più di un mese fa di sfruttare le vittoria della nazionale di calcio sulla Germania per costruire il mito di cartapesta di SuperMario Monti e celebrare l'epopea delle sue gesta assolutamente ordinarie al vertice di Bruxelles?
Adesso la stampa serva mette letteralmente in bocca alla connazionale Josefa, di chiare origini tedesche, una insignificante battuta contro Beppe Grillo: Repubblica on line ieri ci ha fatto, pazzescamente, per ore il titolo d'apertura!
Ma basta cliccarci sopra per scoprire che è una bufala, questa sì una vera patacca.


L'home page di Repubblica di ieri pomeriggio, 9 agosto 2012

"Non ho parlato io, mi han chiesto cosa ne penso. Allora, considerando che comunque una grande percentuale della squadra italiana è fatta anche da atleti nati altrove ed anche per questo gli Italiani tifano, credo che dire sia proprio momento di esaltare nazionalismi e pensare delle cose del genere io lo credo veramente ridicolo. Non ne avrei parlato se non mi avessero chiesto."

Povera Josefa, ti hanno messo fuori strada!
Se avessi letto il post di Beppe Grillo, ti saresti accorta che il Beppe nazionale diceva tutt'altra cosa, di ben altra levatura della demenziale semplificazione che ne hanno voluto fare i maggiori quotidiani.
In particolare, egli poneva l'accento sull'uso politicamente spregiudicato che viene fatto di questo gigantesco circo foraggiato dalle multinazionali.
Pensaci un attimo: come dargli torto? Il solo fatto che, mediaticamente, un quinto posto in una finale olimpica valga  molto di più del deferimento degli eroici pm palermitani al Consiglio Superiore della Magistratura, la dice lunga su come viene maltrattata l'informazione pubblica in Italia.
Ma pur di aizzare la gente, sviandola dalla scottante attualità politico-istituzionale ed economico-finanziaria, orchestrando un vergognosa campagna di stampa contro un Movimento che farà piazza pulita della Casta e dei suoi araldi e tamburini, si è disposti a tutto, anche a profanare quello che pomposamente, in altri momenti, proprio loro, facce di bronzo, chiamano lo spirito olimpico.

PS: mentre tagliano 20'000 (ventimila!) posti letto negli ospedali, cioè burocraticamente cancellano con un tratto di penna 20'000 malati bisognosi di cure urgenti, è accettabile concedere finanziamenti pubblici, cioè a carico di tutti noi contribuenti, per tenere all'ingrasso giornalacci che fanno un uso spudoratamente privato e di parte della comunicazione pubblica?
Anche in questo caso, nel voler abolire questo vergognoso e anacronistico cadeau che la Casta fa al mondo dell'informazione, Beppe Grillo ha centomila volte ragione!


lunedì 16 luglio 2012

Il Quirinale contro la Procura di Palermo: una brutta pagina di storia

Si apprende in queste ore che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha firmato il decreto di incarico all'Avvocatura generale dello Stato per sollevare conflitto di attribuzione nei confronti della Procura generale di Palermo, per la nota vicenda delle telefonate intercorse e intercettate tra Napolitano stesso e Nicola Mancino, essendo state messe sotto controllo le utenze telefoniche di quest'ultimo, indagato dai pm siciliani per falsa testimonianza nell'ambito dell'inchiesta sulla presunta trattativa Stato mafia.
Per i cittadini onesti di questo Paese, l'atteggiamento di Napolitano è veramente incomprensibile.
Ma come??
Di fronte alla necessità di fare chiarezza sulla stagione delle stragi mafiose del 1992-93 e sul 'papello' che i boss mafiosi avrebbero concordato con gli apparati istituzionali, che cosa fa il Capo dello Stato?
Invece di compiacersene elogiando pubblicamente l'impegno profuso dai magistrati di Palermo per venire a capo dei troppi misteri e fare luce sulle tante zone d'ombra di quella stagione eversiva e di sangue che provocò numerosissime vittime innocenti (in primis, il sacrificio umano di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e delle loro scorte, a cui il popolo Italiano deve eterna riconoscenza) e magari fare in modo che possano continuare a lavorare, facendo loro sentire il più possibile la vicinanza dei vertici delle istituzioni, con la massima serenità, efficacia e celerità per individuare i mandanti occulti di quell'ecatombe, che cosa fa il primo cittadino della repubblica?
Ingombrantemente, si mette di traverso all'inchiesta palermitana, non solo non svelando spontaneamente il contenuto di quelle conversazioni che pure nelle settimane scorse ha affermato stizzosamente essere irrilevanti, ma addirittura appellandosi alle sue prerogative di irresponsabilità per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, scomodando a sproposito l'art. 90 della Costituzione.
In pratica si attesta sulla linea di difesa di Eugenio Scalfari che questi aveva spudoratamente esposto in un recente editoriale che, è il caso di ricordarlo ai lettori più distratti, nei giorni scorsi è stata oggetto di pubblico ludibrio da parte di molti osservatori ed esperti costituzionalisti, per essere palesemente un coacervo di castronerie sul piano logico e di giganteschi strafalcioni giuridici.
Infatti, dando un attimo per  buone le parole di Scalfari ma solo come esercizio di scuola, ovvero ragionando per assurdo, si arriverebbe alla conclusione impossibile che, qualora la primula rossa della mafia, Matteo Messina Denaro, decidesse di telefonare al Quirinale, gli ufficiali di polizia che magari ne ascoltano da tempo le conversazioni, dovrebbero immediatamente interrompere l'intercettazione stessa, quand'anche nel corso della telefonata pronunciasse minacce contro l'inquilino del Colle o svelasse le sue complicità o ancora il suo nascondiglio per essersi risolto a porre fine alla propria latitanza.
Tutto ciò nel malinteso intento di tutelare (?) l'irresponsabilità del presidente della Repubblica.
Una tale mostruosità si commenta da sé.
Ma ciò che più delude (o indigna) è la motivazione che Napolitano adduce a tale iniziativa: "evitare si pongano, nel suo [nda: del Presidente] silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell'occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la costituzione gli attribuisce".
Insomma, la classica foglia di fico: non lo faccio per me ma per il mio successore.
E doveva cogliere proprio l'occasione sbagliata per contornare, in punta di diritto, le proprie prerogative costituzionali?
E proprio quando alle viste per l'Italia democratica c'è il traguardo di riportare alla luce, vent'anni dopo, le nefandezze e le responsabilità del biennio stragista,  da cui ha preso forma l'attuale Seconda repubblica.
Mentre l'Italia si dibatte tra mille difficoltà, una brutta pagina di storia viene scritta oggi in cima al Colle: eppure lassù non c'è Berlusconi!

sabato 26 luglio 2008

Un'opinione autorevole sul lodo Alfano, tra prêt à porter e alta moda

Ero andato a dormire un po’ inquieto, interrogandomi sulla promulgazione lampo del famigerato lodo Alfano da parte del Presidente Giorgio Napolitano.
Il dubbio che mi arrovellava era se il Colle stavolta si fosse mostrato troppo accondiscendente nei confronti del Cavaliere: insonne, mi rigiravo nel letto con l’incubo di una firma che forse poteva essere ritardata, magari dopo un rinvio del provvedimento alle Camere per manifesta incostituzionalità.
Di colpo, la notte cominciò a folleggiare di personaggi storici come Celestino V che, nel delirio onirico, restava papa nonostante le pressioni del Cavaliere per farlo dimettere. Poi un flash su Sandro Pertini che sbraitava contro i ritardi nei soccorsi alle popolazioni dell’Irpinia colpite dal terremoto del 1980 e che ammoniva i suoi successori di rifletterci a lungo prima di mettere una firma in fondo ad un qualsiasi testo di legge, con una parata di padri costituenti che faceva da sfondo… scene senza né capo né coda, frutto di un’immaginazione troppo eccitata e dell’amletico dubbio diurno sull’opportunità per Napolitano di firmare l’immunità alle alte cariche a spron battuto.
Al risveglio, a parte il pallore davanti allo specchio e la bocca impastata d'amaro, postumi di una notte difficile, mi fiondavo in edicola per sapere se qualcuno di molto ma molto più autorevole di me condividesse i dubbi sul possibile eccesso di zelo presidenziale.
All’improvviso la folgorazione: il parere del grande costituzionalista Walter Veltroni, da non confondere con l’omonimo e contestato leader del Pd, campeggiava in quinta pagina a chiarirmi finalmente le idee:
"Sono convinto che il Presidente Napolitano in tutta la vicenda del cosiddetto 'lodo Alfano' abbia svolto con il consueto equilibrio il suo compito in una fase certamente non facile. Così come penso che, dopo l'approvazione delle Camere, la firma del provvedimento sia stata un atto dovuto".
"Al Presidente nella nostra Costituzione viene riservato in casi come questo una sola valutazione di 'manifesta incostituzionalita' del provvedimento. E in questo caso il testo approvato teneva conto di molti dei rilievi di costituzionalita' sollevati dalla Corte in occasione della precedente bocciatura di quello che allora si chiamava lodo Schifani".
"Manteniamo questa ferma convinzione sull'operato del Presidente, senza con questo rinunciare in alcun modo al nostro giudizio negativo sul lodo Alfano, e anche all'idea che, una materia di questa delicatezza, la maggioranza avrebbe fatto bene ad affrontarla con una legge costituzionale e non con un provvedimento ordinario fatto approvare in maniera tanto frettolosa da apparire autoritaria."

Colui che è cresciuto divorando a piene mani i memorabili scritti di Vezio Crisafulli, l’opera omnia in lingua originale di Hans Kelsen e tenendo a portata di mano sul comodino il manuale di Costantino Mortati, con la sua interpretazione autentica della nostra Costituzione mette finalmente la parola fine a questo fastidioso, sterile chiacchiericcio sui poteri del Presidente della Repubblica.
Il suo pronunciamento dirada finalmente la nebbia sulla questione e svela quanto malanimo ci sia da parte di chi ha avuto l’ardire di criticare garbatamente il Presidente.
Secondo Veltroni al Presidente è riservata solo una valutazione di manifesta incostituzionalità che, nella fattispecie, non aveva motivo di esprimere in quanto il lodo Alfano, a suo dire, non è incostituzionale. Tuttavia (apprezzate la finezza del ragionamento veltroniano!), il Pdl per una materia di tale delicatezza avrebbe fatto bene ad utilizzare lo strumento della legge costituzionale.
In altri termini, per l’illustre costituzionalista Walter Veltroni va benissimo il lodo Alfano così com’è, in versione base, cioè sotto forma di legge ordinaria; tuttavia, lui ne avrebbe gradito, ma è una semplice questione di gusti, la versione più accessoriata, full optionals, quella addobbata con legge costituzionale.
Insomma, come se si parlasse di capi di abbigliamento: va benissimo la sfilata prêt à porter dello stilista Angelino Alfano primavera-estate 2008, ma la sua collezione di Alta moda sarebbe stata molto, ma molto più glamour
Teniamo a mente questa sua autorevole opinione quando, magari fra qualche anno e per le ricorrenti ubriacature della storia, lui stesso (o qualcuno del suo staff!) si accingesse a candidarsi meritatamente ad una delle alte cariche.