Visualizzazione post con etichetta Silvio Berlusconi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Silvio Berlusconi. Mostra tutti i post

mercoledì 15 agosto 2018

Il ponte Morandi: l'11 settembre del sogno europeo

Adesso che il ponte Morandi è venuto giù portandosi dietro la vita di decine di vittime innocenti, alle famiglie delle quali va tutta la nostra vicinanza, è partito un vergognoso scaricabarile da parte del mainstream che tende a minimizzare le responsabilità politiche per quanto accaduto sostenendo che, eventualmente, la responsabilità della cattiva manutenzione ricade sulla società Austrade per l'Italia del gruppo Benetton. 
Ma costoro hanno volutamente la memoria corta: perché la società Autostrade era di proprietà statale, dell'Iri, ed è stata prima quotata in Borsa nel 1987 per poi essere privatizzata nel 1999 dal governo D'Alema, con il regalo dell'allungamento della durata delle concessioni autostradali da 30 a 50 anni (governo Berlusconi). 
Risultato: scarsa manutenzione e utili spropositati per il gruppo (ora con gli spagnoli di Abertis si chiama Atlantia). In 6 anni la famiglia Benetton ha quadruplicato l'investimento iniziale. 
La responsabilità di quanto accaduto ieri è di un'intera classe politica, di centrodestra e di centrosinistra, che hanno cavalcato a partire dagli anni '80-'90 il mito delle privatizzazioni selvagge, sostenendo che per salvaguardare gli equilibri di bilancio pubblico imposti dall'UE (parametri di Maastricht), si dovesse fare cassa. 
Così è avvenuta, con il plauso generale di PD e FI, la più colossale svendita ai privati dei principali servizi e delle infrastrutture pubbliche italiane, che il Paese aveva messo su con decenni di sudore e sacrifici, a partire dal secondo dopoguerra. 
Chi non ricorda i famigerati "capitani coraggiosi" partiti all'assalto della Telecom? 
Ancora oggi costoro, nonostante la clamorosa sconfitta del 4 marzo, insistono nel perorare una dissennata politica delle privatizzazioni, facendo credere che la gestione privatistica sia più efficiente e migliore qualitativamente per il Paese. 
Il degrado attuale dei servizi telefonici, elettrici, ferroviari, autostradali, di tutte le infrastrutture che fanno quotidianamente il Paese reale, sta a lì a smentirli, in modo clamoroso e definitivo. 
Pagheranno mai costoro per il tradimento ordito ai danni dei cittadini e che ha trovato ieri solo l'ennesima, tragica, manifestazione? Ieri si è consumato, nell'incredulità sgomenta di un'opinione pubblica disinformata (richiamando le parole del videoblogger Claudio Messora), l'11 settembre del 'sogno europeo'.

venerdì 4 luglio 2014

Il faccia a faccia di Renzi con il Pregiudicato dura due ore: ma Serra non se ne accorge


Ancora una volta Michele Serra, da bravo dirigente di complemento del PD, cerca di sviare l’attenzione dal patto scellerato vidimato da Renzi con il Pregiudicato per polemizzare gratuitamente con Grillo e Casaleggio, perché presenti al ricevimento ufficiale all’ambasciata americana. E, con un espediente retorico vecchio come il cucco, fingendo di ironizzare sull’atteggiamento dietrologico che imputa ai 5Stelle, se ne fa lui stesso interprete.
Eppure, ove mai fosse preso da un sussulto deontologico, dovrebbe sapere che la notizia del giorno è stata l’incontro a porte chiuse tra Renzi e il Pregiudicato.
Perché se è ormai Renzi in persona ad imporre la diretta streaming per parlare di legge elettorale con i parlamentari del Movimento, quando invece si tratta di incontrare nell’appartamento presidenziale il frodatore fiscale e tentare con lui di scassinare la Costituzione della Repubblica, le telecamere devono rimanere rigorosamente fuori.
Con l’implicito beneplacito di Serra che a quell’ora, ronfando sull’amaca, non tollera di essere disturbato per nessun motivo.

domenica 16 febbraio 2014

Renzi ripropone le larghe intese con il Pregiudicato d'Italia

Il ciclone Renzi che ha abbattuto d'improvviso e in sole 48 ore il governo Letta, senza un doveroso passaggio parlamentare, riporta agli antichi fasti la stagione delle larghe intese
Perché il tentativo del sindaco di Firenze può spiegarsi unicamente con l'aver ricevuto l'esplicito inconfessabile nulla osta di Silvio Berlusconi, il Pregiudicato d'Italia. Altrimenti la sua iniziativa fallirebbe già in queste ore, ancor prima che il suo governo possa accendere i motori.
O Renzi è uno squilibrato, ma non abbiamo motivo di pensarlo, oppure la riedizione delle larghe intese, riveduta ed edulcorata con le bischerate del guitto fiorentino, è ai nastri di partenza, con un orizzonte temporale che comunque resta incerto.
Sono i numeri che lo dicono: il perimetro del futuro governo Renzi è lo stesso, identico, di quello di Letta. Ragione per cui il programma politico non potrà in nulla deviare da questo: Renzi potrebbe comodamente riciclare lo sbiadito Impegno Italia, approntato solo lunedì scorso dal nipote di suo zio, senza neppure fare la fatica di riscriverlo e magari neppure di rileggerlo. 
Sì, certo, potranno cambiare alcune figure dell'esecutivo, come l'impresentabile Cancellieri. Ci potrà essere l'ingresso di personalità carismatiche come Epifani, l'inevitabile sostituzione di Saccomanni all'Economia, ma la politica economica di questo governo, elemento decisivo per tratteggiarne la fisionomia, non potrà differire di una virgola da quella del governo Letta: una supina accettazione dei diktat europei, una cieca e cronica austerity che proseguirà per mancanza di liquidità, le privatizzazioni di buona parte dei pochi gioielli di famiglia rimasti (Eni, Enel, Finmeccanica), la necessità di nuovi tagli alla spesa e l'introduzione ormai imminente di una tassa sui depositi bancari e sulla ricchezza finanziaria in tandem con una rimodulazione di quella sulla proprietà immobiliare, ovvero la famosa patrimoniale che i tedeschi, non avendo alcuna intenzione di venire in nostro soccorso, ci vogliono imporre da tempo.
In fondo, è l'esatto contrario di quello che solo fino ad una settimana fa Renzi si era impegnato a fare, lasciando libertà di movimento ad Enrico Letta, in attesa di prenderne il posto dopo le prossime elezioni politiche anticipate. 
Come sia possibile che Renzi possa compiere un simile voltafaccia, una mossa così avventata e autolesionista, sembra un mistero. Qui non si tratta di rischiare il tutto per tutto, come lui stesso ha già ammesso, ma di consegnarsi anima e corpo al Pregiudicato. 
Una condotta apparentemente dissennata: infatti, cosa accadrebbe se non dovesse trovare i numeri per ottenere la fiducia? Di certo, passerebbe alla storia come il kamikaze del PD! 
Insomma, Renzi affida il suo destino politico nelle mani di Berlusconi e dei suoi bravi... se non è questo un suicidio politico!
Ma se questo puzzle non torna, forse può voler dire che le cose non stanno proprio come ci vengono presentate.
E' molto strano che, come si mormora da più parti dentro al PD, la "profonda sintonia" con il Pregiudicato d'Italia dichiarata giorni fa da Renzi a Largo del Nazzareno a conclusione dell'incontro con quest'ultimo sulla legge elettorale e sulle riforme costituzionali (un pessimo biglietto di presentazione!) non coinvolga evidentemente anche la partita del governo, cosa che anche sul piano logico sembrerebbe scontata.
Non si capisce infatti come sia possibile per i due compagni di merende fare le riforme costituzionali insieme, d'amore e d'accordo, e poi schizofrenicamente farsi la guerra all'ultimo sangue sul governo: una buffonata a cui nessun italiano, con un minimo di spirito di osservazione, potrebbe mai abboccare.
Come riconosce pure il corazziere Eugenio Scalfari, nell'odierno messale,  il programma economico di Renzi non si differenzia in nulla da quello di Forza Italia:
   
"Renzi si è impegnato a non fare governi con Forza Italia e — si spera — manterrà l’impegno, ma gli accordi con Berlusconi si estendono ad una buona parte del suo programma di riforme. Non comprendono la politica economica e i provvedimenti che la riguardano. Ma, nelle ancora vaghe dichiarazioni di Renzi in proposito, non si ravvisano sostanziali diversità da Forza Italia: sgravi ai lavoratori e alle imprese e quindi cuneo fiscale ridotto per quanto possibile; prevalenza del contratto di lavoro aziendale su quello nazionale; nuove forme di ammortizzatori sociali; semplificazione delle procedure, più elasticità finanziaria rispetto ai vincoli di Bruxelles; diminuzione delle tasse e tagli delle spese.
Queste finora sono le dichiarazioni di Renzi. Ricordano sia quelle di Letta sia quelle di Squinzi e della Confindustria, sia quelle della Cgil, sia quelle di Forza Italia quando ancora si chiamava Pdl."

Il renzismo non è altro che la continuazione del berlusconismo in forme più adeguate ai tempi sul piano della comunicazione: in sintesi, il cinepanettone che diventa pratica di governo. 
Di qui la necessità impellente di Renzi di rompere gli indugi per piazzare i suoi uomini prima che lo spoils system di Letta ne potesse bloccare la proliferazione.
Ma a questo punto si capisce anche perché Napolitano non lo abbia rinviato alle Camere. 
Al contrario di ciò che afferma Scalfari infatti presentarsi alle Camere avrebbe fatto emergere di fronte al Paese i veri motivi di questo affrettato e inopinato cambio in corsa: ovvero, il riemergere della figura del Pregiudicato come eminenza grigia del nuovo esecutivo, vero mattatore delle larghe intese. 
Ciò spiega pure perché Re Giorgio non abbia trovato nulla di disdicevole nell'accogliere al Quirinale il frodatore fiscale, in predicato di scontare la pena, per le Consultazioni.
Anche in questo caso, la figura di Napolitano che ormai dal Colle gioca una partita politica a tutto campo, infischiandosene di ciò che prescrive la Costituzione riguardo alla sua funzione super partes, ne esce a pezzi. Quando l'arbitro non solo inizia a fischiare i rigori esclusivamente a favore di una squadra ma lui stesso inizia a calciarli per infilare la porta dell'Opposizione, vuol dire proprio che lo stato democratico è giunto al capolinea: chiamatelo, se volete, un nuovo 8 settembre.
Ma una ultima riflessione va a questo punto fatta: possibile che dentro il PD lascino agire indisturbato il kamikaze Renzi  e osservino indifferenti le macerie ideologiche che sta causando, senza muovere un dito? Dà tanto la sensazione che il Pregiudicato d'Italia, proprio grazie a Renzi, abbia ormai ultimato la scalata a questo partito, la cui nomenklatura resta inerte, intenta solo ad occultare i troppi scheletri nell'armadio.
Insomma, non solo ancora non è ancora stata fusa la chiave per la cella del Pregiudicato ma è proprio lui a possedere la combinazione di qualche cassaforte dal contenuto scottante e, quindi, giocoforza a comandare le danze.


sabato 10 agosto 2013

Nonostante la Cassazione, l'estate italiana resta storia di ordinaria ingiustizia

Intanto che il Quirinale riflette su come garantire l'agibilità politica al pregiudicato Silvio Berlusconi ovvero come restituirgli una nuova verginità, in barba allo slogan di una vecchia campagna pubblicitaria "la legge è uguale per tutti", in Italia succedono molte altre cose:

- un pizzaiolo di Albisola  in un pomeriggio di luglio, assolato inutilmente di sedie vuote, ha l'ardire di servire al tavolo una coppia di turisti: errore grave, 5.000 euro di multa da parte degli zelanti agenti della polizia municipale perché la sua licenza non contempla la somministrazione al pubblico ma solo la vendita della pizza al taglio;

-  un artista di strada a Venezia viene placcato da ben sette agenti della polizia municipale e finisce  in acqua insieme alle sue tele: la sua grandissima colpa è di sbarcare il lunario vendendo quadri ai turisti senza il necessario permesso comunale, che lui afferma di aver richiesto più volte;

- senza lavoro e senza casa, una famiglia (madre, padre e tre figli) vive in una capanna nei boschi dell'aretino e il comune ci fa sapere che è in carico ai servizi sociali e se vivono così "è per una loro scelta".
Evviva la libertà, ci verrebbe da dire, evviva uno Stato che si fa in quattro per garantire a tutti i diritti di libertà, anche quello, magari eccentrico, di vivere in una capanna, come ai tempi di Cappuccetto Rosso;

- il fatto, adesso rilanciato come scoop da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera ma in verità  noto da tempo, delle pensioni di platino (d'oro non rende l'idea!) di cui beneficiano dirigenti della Telecom e dell'Enel ma anche numerosissime altre categorie di dirigenti pubblici: il recordman è Mario Sentinelli, ex dirigente della compagnia telefonica, che si aggiudica 91.337, 18 euro lordi al mese.
Costoro, dulcis in fundo, a questi vitalizi faraonici possono aggiungere pure lo stipendio che percepiscono per gli incarichi che continuano a svolgere!
Di questa storia, Beppe Grillo ne ha fatto un suo particolare cavallo di battaglia, denunciandola da par suo durante l'ultima campagna elettorale: tagliare le pensioni sopra i 5.000 euro al mese per risparmiare 7 miliardi di euro l'anno.
Ma finora la classe politica Pd-Pdl ha fatto orecchie da mercante: ci si è poi messa pure la Corte Costituzionale a sancire poco tempo fa "l'illegittimità del contributo di perequazione sulle pensioni di importo superiore a 90.000 euro (annui)", il famoso contributo di solidarietà che adesso l'Inps sta restituendo ai fortunati pensionati: il colmo del paradosso. 
Come chiarisce Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera di oggi, ci sono diritti acquisiti di serie A e diritti di serie B: per cui mentre l'ex ministro del Welfare (si fa per dire) Elsa Fornero ha falcidiato le pensioni di milioni di poveracci che hanno perso persino la perequazione automatica al costo della vita, i diritti dei megadirigenti della prima e seconda repubblica sono intangibili per grazia divina;

- bruciano i boschi e le montagne di mezza Italia e si scopre improvvisamente (ma il fatto era noto da tempo) che la spending review del gigante dell'Economia, il professorissimo Mario Monti, ha tagliato i fondi per i mezzi antincendio. Pensiamo di immaginare la prontezza di spirito del nostro ministro della Difesa Mario Mauro con il suo fortunato slogan "Armiamo la pace" che decisamente preferisce gli F35; ma anche l'improvviso stupore del presidente della Commissione Bilancio della Camera, il piddino Francesco Boccia, fresco di studi sull'utilità di spendere in questo modo 12,1 miliardi (cifra dichiarata dal ministro Mauro nel question time alla Camera) che in un famosissimo tweet di qualche settimana fa sentenziò: «In sostanza non si tratta di fare guerre, con gli elicotteri si spengono incendi, trasportano malati, salvano vite umane #F35». Ieri l'impareggiabile Mauro ha così risposto al collega di partito Mauro Pili (Pdl) che ricordava che con un F35 si sarebbero potuti comprare ben 8 Canadair, i famosi aerei antincendio. "Se tolgo un F35 è chiaro che, sul piano della pura logica, posso fare un asilo una scuola, un ospedale, acquistare un aereo antincendi... Ma potremo anche rovesciare l'onere della prova. Il programma F35 è partito 20 anni fa, dovevano essere 150 aerei, oggi siamo arrivati ipoteticamente a 90. Con i 60 tagliati, quante scuole, quanti asili e quanti Canadair sono stati comprati?''.
Decisamente fuori dal comune la profondità di pensiero dei membri di Comunione e Liberazione...

E mentre Napolitano, dopo essersi inopinatamente dichiarato favorevole ad una riforma della giustizia, appena pronunciata la sentenza definitiva della Cassazione  quasi a volerne limitare gli effetti, facendo la felicità del Pdl ed essere tornato di corsa a Roma dalle vacanze altoatesine per dare udienza ai suoi capigruppo, i due Renati, Schifani e Brunetta, saliti al Colle per chiedere spudoratamente addirittura la grazia per Berlusconi (cosa che, anche solo tecnicamente, è impossibile) si è chiuso in una pausa di riflessione (almeno così la chiamano al Quirinale), Berlusconi alza ulteriormente i toni e gli lancia platealmente il guanto della sfida a mezzo stampa (di famiglia): "Ultimatum di Silvio: 7 giorni".

"Dura lex, sed lex" dicevano gli antichi romani. Difficile tacitare così il pizzaiolo di Albissola, l'artista di strada di Venezia, la famiglia aretina, i 4 milioni di pensionati al minimo con i loro 500 euro, coloro che perdono tutto (ma proprio tutto: casa, affetti, bestiame) per colpa degli incendi boschivi, o chi incorre nella vita di tutti i giorni nelle ire della pubblica amministrazione da placare solo attraverso il pagamento di cospicue sanzioni pecuniarie, se poi alla TV vedi un condannato come Silvio Berlusconi tenere banco nella partita istituzionale, assestando schiaffi non solo alla magistratura ma persino al Presidente della Repubblica. 
Schiaffi morali, naturalmente: ma la precisazione non ci consola affatto. Anzi.

venerdì 2 agosto 2013

1° agosto 2013 h. 19,40: la caduta del berlusconismo

Con la sentenza pronunciata a Roma dalla Corte di Cassazione, ieri sera, che ha sancito la condanna definitiva di Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione per frode fiscale con l'interdizione dai pubblici uffici (da quantificare in separata sede con rinvio ad una sezione diversa della Corte d'Appello di Milano), si chiudono vent'anni di storia della Seconda Repubblica con un verdetto che non ammette repliche.
Berlusconi è stato dichiarato definitivamente colpevole di un grave reato, aver frodato il fisco.
Adesso politicamente andranno tratte le dovute conseguenze, tenuto conto che fino ad oggi la vita istituzionale del Paese è stata dominata da un dominus che, con un potere se possibile ancora più invasivo proprio negli ultimi dieci anni, è stato dichiarato un delinquente, cioè un soggetto che commette un atto anti-sociale ritenuto reato dalla legge penale. 
Al di là delle determinazioni che assumerà Berlusconi in seguito all'esecutività di una pena che già molti  sui media si sono già presi la briga di tentare invano di annacquare ("sì, è stato condannato ma l'interdizione dai pubblici uffici richiederà un nuovo giudizio per cui fino ad allora Berlusconi è ancora un cittadino libero con i normali diritti di chiunque altro...") ma che scatta sin da subito per cui egli resta già adesso a disposizione della giustizia, spetta alla politica prendere atto di quanto accaduto per adottare le determinazioni del caso.
In particolare il Partito Democratico non può più accettare, per non perdere definitivamente la faccia di fronte non solo alla sua base elettorale ma alla comunità internazionale, la tutela di un tal personaggio sul governo che esso stesso appoggia.
Ormai non è più in gioco la credibilità della sua classe dirigente, l'impresentabile nomenklatura del Pd, ma quella del Paese di fronte al suo popolo ed agli osservatori internazionali. 
Sul punto non è più possibile glissare neppure per una malintesa ragion di Stato perché il discredito internazionale che ogni tentativo sia pure di stendere un velo pietoso sulla vicenda provocherebbe ipso facto è ragion di Stato.
E' la Storia che chiede adesso ad una classe politica delegittimata di fare per una volta i conti con se stessa: fughe dalla realtà nè per il partito di Berlusconi ma soprattutto per il Pd non sono più possibili.
E' in gioco la tenuta dello Stato di diritto e della nostra democrazia.
L'ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti qualche giorno fa sosteneva che la condanna di Berlusconi avrebbe comportato inevitabilmente la fine del Pd.
Sarebbe l'auspicabile catarsi di questa vicenda, il lieto fine di vent'anni malvissuti.

giovedì 11 luglio 2013

La nuova notte della repubblica

Il governo Letta è una contraddizione in termini.
Ormai dopo tre mesi, questa sembra la scoperta dell'acqua calda. 
Ciò nonostante, grazie al tam tam dei media, poteva fino all'altro ieri vantare un grosso avvenire dietro le spalle, in forza del mandato eccezionale ricevuto dal Presidente della Repubblica, chiamato a fare gli straordinari dopo che una legge elettorale palesemente incostituzionale ci ha restituito un Parlamento senza alcuna maggioranza politica.
Tecnicamente, è stato il governo del tirare a campare per non tirare le cuoia, come avrebbe suggerito Giulio Andreotti: l'ammucchiata Pd-Pdl si è caratterizzata per la necessità di gestire il potere senza però concretamente esercitarlo, cioè senza incidere nel tessuto sociale del Paese.
La situazione economica è difficilissima, non parliamo di quella finanziaria, conseguenza della rigidità dell'euro che di fatto impedisce qualsiasi seria politica fiscale: senza leva monetaria che accompagni la politica fiscale, non ci sono gradi di libertà per qualsiasi governo varchi la stanza dei bottoni.
L'unica cosa che sarebbe possibile attuare (e non è da poco!) è la legge sul conflitto di interessi, una nuova legge elettorale, il riassetto del sistema radiotelevisivo, la riforma della pubblica amministrazione, una nuova politica industriale, il riassetto del sistema bancario italiano, la riforma della sanità, della scuola, del finanziamento della politica, degli ordini professionali, dell'assetto istituzionale che, senza la necessità di abolire le province, ridefinisca funzioni, capacità di spesa e risorse degli enti locali, in un quadro di riorganizzazione dell'intera macchina pubblica.
Alcune di queste riforme sono a costo zero, altre consentirebbero un notevole risparmio di spesa che potrebbe poi essere destinata a quegli interventi strutturali che richiedono necessariamente nuovi investimenti. 
Ma allora perché il governo Letta non le mette perlomeno in cantiere? 
Semplice. Pd e Pdl esprimono proprio quella classe dirigente che ha plasmato così male il nostro Paese in questi ultimi vent'anni e che, pertanto, non ha la minima intenzione di cambiare, non fosse altro perché entrerebbe in conflitto d'interessi con se stessa. 
D'altra parte, a livello europeo, essa è priva di qualsiasi credibilità, sia per il livello di corruzione raggiunto che per l'estrema inaffidabilità mostrata in più occasioni, a cui fa paradossalmente da contraltare una totale subordinazione ai diktat USA, come la recente vicenda degli F35 e la posizione del Ministero degli Esteri rispetto al caso Morales-Snowden dimostrano inoppugnabilmente.
Vicenda sconcertante quella dei cacciabombardieri americani, affrontata dalla nostra classe di governo con il pragmatismo levantino dei mercanti d'armi, piuttosto che, come sarebbe stato lecito attendersi, con la consapevolezza e la fermezza di uomini dello stato che hanno sinceramente a cuore gli interessi della comunità nazionale.
Impossibile quindi che l'inesperto Enrico Letta possa mai recarsi  a Bruxelles a battere i pugni al tavolo della Merkel, senza fare il bis dell'accoglienza, eufemisticamente goliardica, riservata due anni fa dal duo Merkel-Sarkozy a Silvio Berlusconi.
Ci sono quindi abbastanza motivi per cui il suo esecutivo sia diventato, senza che i media lo abbiano fatto notare al grande pubblico, un governo balneare, il dicastero delle mille proroghe: dall'Imu, all'Iva, agli F35, è tutto un rinvio... aspettando Godot.
L'unico provvedimento preso, il cosiddetto decreto del fare, è un tale guazzabuglio giuridico, un tale sconsiderato affastellamento di norme le più disparate, come il M5S aveva da subito denunciato, che bisognerà al più presto rimetterci mano. 
E' di ieri la notizia che le norme sul cosiddetto wi-fi libero, la liberalizzazione della banda larga attraverso l'estensione dei nodi di accesso pubblici, contrariamente alle intenzioni dello stesso governo, sono un tale pasticcio da frenarne lo sviluppo. A dimostrazione che anche sul piano squisitamente operativo e persino nella scelta dei suoi collaboratori, il governo del grande inciucio non smentisce la propria vocazione maggioritaria all'inettitudine.
Ma adesso ci si è messo pure Berlusconi in persona che, mandando avanti i suoi uomini alla Camera ed al Senato, ha di fatto aperto la crisi di governo, pur non avendola finora voluta formalizzare. 
Il casus belli, ancora una volta, i suoi problemi personali: ovvero la decisione della Corte di Cassazione di calendarizzare per il 30 luglio il processo Mediaset che, al secondo grado di giudizio, ha già condannato Berlusconi per frode fiscale a 4 anni di reclusione con l'interdizione per 5 anni dai pubblici uffici.
Se la corte non dovesse rilevare le eccezioni formali che l'imputato ricorrente ha avanzato (cosa che appare ai più esperti abbastanza scontata), la sentenza contro Berlusconi diverrebbe definitiva.
Platealmente, Berlusconi rovescia così sul piano istituzionale una sua privatissima questione, a suggello del profilo di un personaggio in cui l'aspetto pubblico è indissolubilmente intrecciato con quello personale, tanto da non potere distinguere il politico dall'uomo d'affari da sempre ai ferri corti con la giustizia.  
Andare a dibattere se la scesa in campo di Berlusconi nel '94 sia stata conseguenza delle sue urgenze giudiziarie o viceversa, questione che inopinatamente ancora anima dopo vent'anni gli ascari berlusconiani nei talk show televisivi, è un po' come azzuffarsi se sia nato prima l'uovo o la gallina...
Il fatto è che, con le dichiarazioni dei suoi uomini ( e delle sue donne!) di questi due giorni ma soprattutto con la sospensione dei lavori parlamentari pretesa ieri con il vergognoso voto del Pd, in una sorta di impossibile sciopero del Parlamento contro la Magistratura (scontro di potere di inaudita e pericolosissima portata eversiva), la divisione dei poteri si è andata a fare benedire.
Comunque vada, l'intimidazione che ha subito la Corte di Cassazione da parte di un Parlamento che si è prestato, con la complicità del Pd (è bene sottolinearlo!), a fungere da scudo istituzionale per proteggere gli interessi privati del condannato Silvio Berlusconi, produce inesorabilmente uno strappo tremendo al nostro assetto costituzionale e non può in nessun modo essere ignorato, condizionando pesantemente e per la prima volta in forma così pubblica e solenne, un altro potere dello Stato nell'esercizio delle sue prerogative costituzionali.
Le parole di oggi del capogruppo del Pdl Renato Schifani, già presidente del Senato (quindi seconda carica dello Stato) che minaccia l'uscita dal governo in caso di una decisione della Cassazione contraria agli interessi di Berlusconi (decisione della Suprema Corte che, si badi bene, è solo di legittimità, non potendo esprimere la stessa una pronuncia di merito che è già avvenuta e che, in quanto formatasi nei due precedenti livelli di giudizio, è da considerarsi, nel merito, definitiva) rappresentano un ulteriore attacco alle Istituzioni di portata platealmente deflagrante a cui il Capo dello Stato non può restare in alcun modo indifferente.
Ma prima ancora è il Pd che deve prendere atto di questa gravissima situazione, tirandosi fuori, innanzitutto per sensibilità e decoro istituzionale, da questo gioco al massacro che sta facendo collassare, prima che la sua rappresentanza democratica, lo stato di diritto.
Anche perché qualunque sia il pronunciamento della Cassazione, esso avrà a questo punto una portata dirompente. 
Se verrà confermata la condanna d'appello contro l'imputato Berlusconi, ne discenderà la crisi di governo; se la cancellerà, dimostrerà comunque la propria gravissima ed incostituzionale subalternità ai diktat di un pluriinquisito. 
Comunque la si pensi, l'uomo di Arcore, vero deus ex machina del governo presieduto da Enrico Letta, ha ipso facto messo in crisi la Corte di Cassazione.
La condizione drammatica in cui la Cassazione si trova ad operare è quindi conseguenza di un putsch mediatico orchestrato dai luogotenenti di Berlusconi, che intende, neppure più velatamente, piegare a proprio vantaggio l'opera della magistratura.
E tutto ciò senza la necessità di usare le maniere forti ma con lo stesso intento prevaricatore.
Solo il Pd, giocando d'anticipo ed aprendo formalmente la crisi di governo, poiché il gioco di Berlusconi è ormai scoperto e di palese violazione delle regole costituzionali (mai s'è visto prima d'ora che la vita di un governo dipenda dal destino giudiziario privato di un singolo parlamentare, peraltro non investito di alcun incarico governativo), può mettere fine a questa deriva da incubo.
Che dovrebbe indurre anche la Procura della Repubblica di Roma ad intervenire, avendo la sfida berlusconiana oltrepassato ogni limite.
Infine, una domanda a Guglielmo Epifani, segretario pro tempore del Pd.
Ma come è possibile restare ancora un attimo a reggere il moccolo al Cavaliere in questa tremenda notte delle Istituzioni?

martedì 30 aprile 2013

La scorciatoia di Repubblica per le larghe intese

Repubblica.it pubblica un videomessaggio di Massimo Giannini, "La scorciatoia", in cui il vicedirettore  traccia un rapido bilancio del discorso di fiducia tenuto alle Camere dal neopremier Enrico Letta. 
Esordisce con un vecchio espediente retorico, ponendosi una domanda da novello piccolo principe: "Un male necessario può diventare un bene collettivo?"
Cosa vi aspettate sia stata la sua conclusione?
Certo che Sìiiii! 
Infatti si affretta subito a definire quello di Letta  "un buon discorso, che non nasconde le difficoltà ma cerca di trasformarle in opportunità".
Ecco un primo tentativo, un po' patetico, di cercare di raddrizzare all'improvviso la baracca, ovvero la linea editoriale di Repubblica, dopo che per anni (ma sarebbe meglio parlare dell'intero ventennio berlusconiano) il quotidiano di Scalfari si è contraddistinto, anima e corpo, per un antiberlusconismo di facciata irriducibile e oltranzista,  che, a conti fatti, presentava più ombre che luci.
Così, dalla cabina di regìa di  Repubblica, mai una parola chiara e definitiva di critica sull'impostazione economica della proposta politica di Berlusconi, né sul modello sociale di riferimento, solo polemiche di piccolo cabotaggio, di forma più che di sostanza, spesso personali, magari sul ministro Tremonti, al massimo sul millantato riformismo del partito di Arcore; mutuandone molto spesso idee e linguaggio per un'agenda di governo (come nel caso del federalismo, delle tasse, dei fannulloni, della privatizzazioni, delle grandi opere, dei tagli all'università, ecc.).
Mai e poi mai una severa disanima del paradigma berlusconiano, solo e soltanto un faro acceso sulle sue vicissutidini private e giudiziarie: che seppure possono mettere in discussione l'uomo politico, di certo non ne mettono in dubbio l'ideologia, cioè il berlusconismo, che trova nell'uomo di Arcore il massimo interprete, non di certo l'unico e quel che è peggio, non confinato al solo centrodestra.
E' così potuto accadere che il volume di fuoco di Largo Fochetti si sia concentrato, per un'estate intera, sui suoi festini e le tante starlette di corte: di qui  l'ossessivo e stucchevole decalogo di domande su tale Noemi da Casoria, ripetuto infinite volte, a nome di due prime firme, Giuseppe D'Avanzo ed Ezio Mauro.
Il paese già stava affondando ma Repubblica scontava tutto a Berlusconi tranne le sue imperdonabili scappatelle.
Ma adesso, finalmente, è arrivato il rompete le righe: le truppe della corazzata De Benedetti si stanno riorganizzando perché il nemico storico non esiste più, parola degli strateghi di Largo Fochetti!, e tutte le forze devono essere ricompattate contro il nuovo nemico, questo sì, l'Acerrimo, contro il quale rispolverare l'armamentario peggiore: Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle.
A cui Scalfari e c. hanno dichiarato guerra totale, non si sa quando e soprattutto perché: tanto che moltissimi lettori, in ondate ripetute, sono stati costretti a fare le valigie.
Scoppiata la pace tra i due poli (ma quando mai si sono fatti la guerra?), è in atto il riposizionamento delle forze. 
Particolarmente rischioso, perché il fuoco amico, come si sa, è il peggiore: come potrebbe spiegarci Romano Prodi...
Così alcuni deputati democrat brancolano nella più totale confusione (comunque meglio dei loro elettori, caduti in depressione) con il loro segretario Bersani, mai stato tanto operoso da quando ha rassegnato le dimissioni, che in Parlamento prima abbraccia Alfano per rieleggere Napolitano e poi fa il segno di vittoria a Enrico Letta.
Per le giovani leve, oggi è un nuovo otto settembre: i nemici di ieri sono diventati gli amici di oggi e tra amici evidentemente non ci si può sparare.
Come urlava al telefono Alberto Sordi nei panni del tenente Innocenzi nel capolavoro di Luigi Comencini "Tutti a casa" (titolo paradossalmente emblematico anche oggi): "Signor colonnello, tenente Innocenzi, accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!.... No, allora tutto è finito signor colonnello! (esplode una bomba) Ma non potreste avvertire i tedeschi che stanno continuando a sparare... mi scusi, signor colonnello, ma cerchi di comprendere, io ero all'oscuro di tutto! Quali sono gli ordini?" 

Se il PD ha trovato intese larghissime con il PDL bisogna ormai farsene una ragione.
Intanto i deputati dei due gruppi agiscono in tandem per tentare di mettere a tacere, appellandosi impropriamente al regolamento, chi a Montecitorio ha il coraggio di dire la verità: è il caso del deputato del M5S Colletti, il cui intervento è stato preso in sandwich dalle parole rabbiose sia del piddino Rosato che della pidiellina Saltamarini, in un'assonanza di toni e di contenuti veramente inedita e rivelatrice.
Ma a questo punto le vecchie battaglie di sempre (conflitto di interessi, legge anticorruzione, riordino del sistema radiotelevisivo) vanno archiviate rapidamente come episodi del passato: da adesso in poi, col nuovo ministero Letta (zio o nipote, a voi la scelta!), diventeremo patriotticamente tutti nipoti di Mubarak!
Ormai, da Libero, al Giornale, a Repubblica, a L'Espresso, a l'Unità, al Corriere, sale un solo comune grido: Abbasso Grillo! Bandiera Azzurra trionferà! (quando Berlusconi diventerà Presidente della Repubblica... a quel punto vedremo Bersani fare la ola).
Guai naturalmente ad esibire una qualche perplessità per l'improvviso e inopinato cambio di campo di Largo Fochetti: ogni commento che non sia più che in linea con il nuovo Verbo delle larghe intese è messo al bando!
Mica come quel bontempone di Grillo che prima i commenti li pubblica e poi, semmai, li fa rimuovere.
No, quelli di Repubblica sono dei veri professionisti, intervengono chirurgicamente alla radice.
A meno che l'opinione non sia talmente sgangherata da trasmettere la sensazione che chi critica il matrimonio PD-PDL o è un esaltato o un ignorante. Oppure il commento viene pubblicato per semplici esigenze statistiche: possibile mai che nei forum di Repubblica vige il pensiero unico?
Qualcuno tra i lettori a lungo andare potrebbe sentire puzza di bruciato... molto ma molto meglio un pluralismo telecomandato.




sabato 20 aprile 2013

Bersani e Berlusconi hanno condotto l'Italia nell'abisso

Un paese nella melma fino alla punta dei capelli, con due partiti, PD e PDL, compagni di merende nella più scellerata e scandalosa gestione della cosa pubblica, che si affidano ancora una volta all'ottantottenne Giorgio Napolitano per non lasciare la stanza dei bottoni e garantirsi la reciproca e perenne impunità.
E' questa la disgraziata e impietosa fotografia del Paese che ci viene restituita dalla quinta fumata nera per le elezioni del Presidente della Repubblica.
Il governo del cambiamento, che sembrava così a cuore all'impareggiabile Pierluigi Bersani (in questa fase storica, peggio di lui nessun cittadino, persino analfabeta, avrebbe potuto procedere, a meno di essere contemporaneamente senza intelletto, senza passione e senza vergogna) si è rivelato uno squallido bluff con cui ha preso in giro per settimane il corpo elettorale accusando ingiustamente e proditoriamente il leader del M5S di essere lui a non volere formare un nuovo governo: quando invece ne pretendeva solamente una firma in bianco per continuare a fare, d'intesa con Berlusconi, i fatti propri.
E' stata dura, a causa di una vergognosa campagna orchestrata dai media dell'eterno inciucio per confondere l'opinione pubblica, ma alla fine l'amara verità si staglia limpida e inconfutabile. E' merito proprio del grandissimo Beppe Grillo, già per questo padre della patria, a cui gli Italiani onesti dovrebbero serbare una grande riconoscenza, a fronte di queste termiti che hanno letteralmente spolpato il paese, se il mostruoso bluff si è disvelato.
Del cambiamento, la banda Bersani&Berlusconi non sa veramente cosa farsene, anzi ne ha il massimo sgomento: troppi devono essere gli scandali che li uniscono, troppe le partite rimaste in sospeso, troppe le collusioni, gli accordi sottobanco, i dossier tenuti in cassaforte, le cordate parallele, i ricatti incrociati.
Al Quirinale non può andare né Stefano Rodotà né chiunque altro sia una persona perbene fuori dalla mischia, nessun Italiano con la I maiuscola che possa semplicemente far rispettare la Costituzione: perché un requisito essenziale per gli aspiranti inquilini del Colle deve essere la ricattabilità, il controllo in remoto.
Ci può andare, quindi, solo chi è parte integrante di questo avvelenato sistema di potere, dove la gestione della cosa pubblica diventa funzionale al mantenimento dei privilegi della nomenklatura, delle ruberie, dell'ingiustizia sociale, della negazione dei diritti di cittadinanza agli stessi Italiani. 
Oppure ci può restare chi è organico a questo sistema inemendabile e non ha più né la forza fisica né l'età anagrafica e politica per potervisi efficacemente opporre, o semplicemente emendarlo: così Napolitano viene preso virtualmente in ostaggio da PD e PDL,  asserragliati nel Palazzo, che se ne infischiano altamente dei mugugni della piazza, ancor meno di una situazione economica di una gravità senza precedenti.
Così potranno continuare a sopravvivere d'amore e d'accordo ancora a lungo senza lasciare soverchie speranze a coloro che in queste ore li stanno osservando attoniti dall'agorà mediatico.
Grillo è riuscito, con una condotta democraticamente irreprensibile e grazie ad un linguaggio efficace, a scoperchiare finalmente il vaso di Pandora mostrando a tutti i cittadini che, dietro il solito teatrino quotidiano ad uso e consumo degli ingenui e dei distratti, le classi dirigenti di destra e di sinistra hanno stipulato, da tempo, all'insaputa dei propri elettori, un'alleanza tanto forte quanto inconfessabile, un vero patto di ferro.
Tenuto coperto in tutti i modi. Ma il buio pesto dell'Italia dei misteri verrà prima o poi squarciato.
E forse un giorno la storia degli ultimi vent'anni, dalle bombe di Capaci e Via D'Amelio, potrà essere completamente riscritta. Riina,  Provenzano, Ciancimino, i Graviano, torneranno ad essere quello che sempre in fondo sono stati: marionette sanguinarie nelle mani di menti criminali raffinatissime e senza morale, reggenti occulti del nostro sventurato Paese.
A meno di un miracolo dell'ultima ora, per noi Italiani non ci sono ancora speranze: se di colpo di stato di può parlare, esso è in atto dal 1992 e né il clamoroso responso delle urne del 25 febbraio né l'indignazione popolare possono al momento sovvertire questa sporca partita che vede sconfitti i cittadini onesti.

martedì 16 aprile 2013

Il Movimento 5 Stelle ha costruito al PD un'autostrada per il cambiamento


Dopo tante chiacchiere, è arrivato il momento di giocare a carte scoperte. 
Perché Pierluigi Bersani, ormai all'ultimo giro di giostra, deve finalmente dimostrare che il refrain di queste settimane, ripetuto come un tormentone estivo, varare il tanto famigerato governo del cambiamento, non è un semplice espediente dilatorio, cioè uno slogan da dare in pasto alla sua base elettorale, con il morale sotto le scarpe, per confortarla dopo l'ennesima cocente delusione di una vittoria mancata sul filo di lana: forse l'estremo bluff di una leadership ormai senza idee e senza passione.
In queste settimane, facendo a pugni persino con il comune buon senso prima ancora che con la legge dei numeri, il segretario democratico ha cercato in tutti i modi di farsi dare un incarico pieno da Giorgio Napolitano per dare vita ad un esecutivo di minoranza che, di volta in volta, avrebbe cercato i voti in Parlamento, magari facendo scouting tra gli eventuali Scilipoti del M5S ovvero continuando ad inciuciare con il Cavaliere in incontri a porte chiuse. 
Una strada sbarrata che ha costretto il Paese alla paralisi dell'attività istituzionale, perché nel frattempo, d'accordo col PDL, Pierluigi Bersani ha impedito la costituzione delle commissioni parlamentari permanenti e dunque l'avvio dei lavori delle assemblee legislative, oltre a rendere ancora più impervia la strada per un nuovo esecutivo, costringendo il Presidente della Repubblica a prendere tempo.
Solo così si può spiegare la convocazione di un'imbarazzante Congrega dei Dieci Saggi che in dieci giorni di inutile 'copia e incolla' hanno prodotto delle relazioni assolutamente irrilevanti, di cui nessuno già oggi, a distanza di soli quattro giorni, si ricorda più.
Mentre dentro il suo partito i mugugni si sono trasformati rapidamente in una vera e propria guerra di tutti contro tutti e, soprattutto contro di lui, Bersani, che già aveva giocato ambiguamente di sponda con il Cavaliere per l'elezione di Piero Grasso, uomo d'apparato, alla presidenza del Senato.
In questo quadro, il duello a distanza di ieri tra il rottamatore Matteo Renzi e la senatrice Anna Finocchiaro denuncia lo sfaldamento del PD mentre il segretario si incaponisce ad inseguire l'araba fenice di un governo a sua immagine e somiglianza,  seguendo una strategia schizofrenica: insistere con Napolitano nel volersi presentare alle Camere con un governo di minoranza mentre contemporaneamente cerca addirittura le larghe intese con Berlusconi per la scelta del prossimo inquilino del Colle. 
Una pretesa politicamente assurda: come pure i sassi sanno, la partita del prossimo governo si giocherà, come la Costituzione impone, proprio nelle stanze del Quirinale per cui non si capisce perché il maldestro smacchiatore di giaguari voglia lasciare fuori dalla porta di Palazzo Chigi il Cavaliere, quando proprio con lui intende scegliere il nome del nuovo Presidente della Repubblica, per i prossimi sette anni vero deus ex machina della vita istituzionale del nostro Paese.
Com'è possibile che Berlusconi sia impresentabile per Palazzo Chigi ma è partner affidabile, leale e autorevole per il Colle? 
Ai simpatizzanti del PD l'ardua sentenza!
Forse dietro questo suo atteggiamento apparentemente incomprensibile c'è la convinzione di poter contare comunque sui voti del M5S, come se ritenesse inconsciamente che siano voti del PD in momentanea libera uscita: ma se così fosse, la parola dovrebbe passare ad un bravo psicanalista.
Anche perché il M5S e il suo leader Beppe Grillo gli hanno sbarrato la strada da subito, in modo plateale, senza lasciargli speranza alcuna. 
E' vero, Bersani ha cercato di 'convincere' Grillo attraverso una  fatwa mediatica, accusandolo indirettamente di tutto, semplicemente perché, coerentemente alla campagna elettorale e alle battaglie politiche degli ultimi cinque anni (a partire dal primo V-day), il leader del M5S si è rifiutato di firmargli una delega in bianco su quei famigerati otto punti di programma, fra l'altro tutto fumo e niente arrosto.
Un politico con un minimo di senso della realtà avrebbe immediatamente compreso che un movimento di cittadini come quello guidato da Grillo si sarebbe condannato all'irrilevanza politica se avesse dato il nulla osta ad un'operazione del genere, ovvero un governo a guida Bersani, il quale, già durante le consultazioni, dichiarava che, una volta seduto a Palazzo Chigi, in mancanza dell'appoggio dei parlamentari pentastellati sui singoli provvedimenti, avrebbe non solo fatto scouting nelle sue fila ma cercato pure il soccorso azzurro di Berlusconi.
Ad esempio, su una questione cruciale come la Tav, in mancanza dei voti di Grillo, l'impareggiabile premier Pierluigi avrebbe cercato il consenso scontato del PDL, con il M5S messo così fuori gioco e lasciato in un angolo a leccarsi le ferite e a meditare con Seneca sull'ingratitudine umana
Perché togliere la fiducia ad un governo a cui la si è inizialmente accordata non è così facile come qualche ingenuo potrebbe pensare: anzi, in talune circostanze, è praticamente impossibile. 
A quel punto, addio Movimento, morto prima di essere diventato adulto, come un fiore di campo che resiste al gelo primaverile ma perde i petali al primo soffio di vento.
Adesso, grazie alla coerenza e lungimiranza del suo leader, il M5S torna al centro della scena politica avendo, con le sue Quirinarie (tanto sbeffeggiate dai media di regime quanto in fin dei conti rivelatesi preziose), indicato al PD un poker di nomi, difficilmente rispedibili al mittente.
Milena Gabanelli in pole position, Gino Strada, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, tutte persone perbenissime, esponenti di chiara fama di quella società civile con cui, in queste settimane, Bersani ha detto di voler interloquire (lo dimostra il numero sterminato di delegazioni non partitiche ricevute nel suo giro di consultazioni).
C'è solo l'imbarazzo della scelta: non sta a noi ripercorrere lo specchiato curriculum di questi Italiani a cui gli iscritti al M5S hanno riservato le loro simpatie.
La scelta di uno di loro, posto che il candidato di bandiera per le prime tre votazioni per Grillo sarà proprio Milena Gabanelli, significherebbe finalmente una svolta nella politica italiana, capace di rappresentare per la prima volta dai tempi fulgidi di Sandro Pertini un sentimento di stima diffuso e trasversale che scavalca la tradizionale e sclerotica dicotomia destra - sinistra, che ha nascosto in questi anni, dietro un'apparente contrapposizione ideologica, una smaccata convergenza di interessi, tanto torbida quanto sottaciuta: il famigerato inciucio.
Grillo e i suoi parlamentari hanno così scaraventato la palla nel campo del PD che a questo punto deve scoprire le proprie carte: perché rifiutare questi nomi sembrerebbe una missione impossibile. 
Non fosse altro che  appaiono di altissimo gradimento proprio nell'elettorato di centrosinistra e alcuni di loro pescano larghi consensi anche nel centrodestra: è il caso dei due insigni costituzionalisti Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà.
In una fase storica in cui si tratta di mettere mano a imponenti riforme istituzionali, chi meglio di un valente giurista può farsi garante della transizione indolore e in punta di Costituzione alla Terza Repubblica?
Se Bersani e il gruppo dirigente del PD non saprà cogliere l'attimo fuggente che da giovedì mattina si presenterà al Parlamento riunito in seduta comune con i rappresentanti delle Regioni, non solo decreterà un definitivo fallimento personale ma innescherà la deflagrazione del Partito Democratico, costringendo il Paese a tornare al più presto alle urne dopo un drammatico nulla di fatto.
Contro la tentazione del grande inciucio con Silvio Berlusconi per puntare su nomi a questo punto di basso o bassissimo profilo come Amato, Marini, D'Alema, Violante, Severino, Cancellieri, Bonino, Finocchiaro, Monti, Casini e chi più ne ha più ne metta, il poker esibito dal Movimento 5 Stelle metterà automaticamente a nudo i vizi e le virtù del gruppo dirigente del PD. 
Anche perché qualcuno dovrà prima o poi spiegare ai propri elettori perché mai le larghe intese si debbano fare con il PDL, terza forza politica alla Camera, e non con il Movimento di Grillo che, almeno in Italia, ha preso pure un numero di voti superiore a quelli dello stesso PD.
Insomma, il Movimento 5 Stelle, lungi dall'Aventino in cui certa stampa lo accusa di essersi relegato, ha costruito in tempi record un'autostrada al Partito Democratico per far uscire il Paese dall'intricatissimo ingorgo istituzionale e magari dargli, dopo quattro mesi, un buon governo finalmente nella pienezza dei suoi poteri.
Per Bersani e c., insistere con i vecchi riti sarebbe politicamente irresponsabile oltre ad essere esiziale per il suo partito, fra l'altro dovendo smetterla di ripetere come un disco rotto: è tutta colpa di Grillo...
Aspettiamo pazientemente il PD al casello con uno dei quattro prestigiosissimi ticket.


martedì 5 febbraio 2013

Gli F35 e la lucida follia del trio Berlusconi, Bersani & Monti

Nella puntata di Presa Diretta, la bellissima trasmissione su RaiTre di Riccardo Iacona (a quando un nuovo riconoscimento per il suo prezioso contributo al giornalismo d'inchiesta?), domenica sera 3 febbraio, il tema trattato è stato quello delle spese militari, in particolare dell'acquisto dei chiacchieratissimi F35, i cacciabombardieri prodotti negli Stati Uniti.
Vediamo come è andata.

L'F35, il caccia di attacco prodotto dall'americana Lockheed Martin, si profila come un vero e proprio pozzo di San Patrizio per le dissestate casse dello Stato italiano.
Con clamorosi errori di progettazione, tanto che le ripetute correzioni in corso d'opera non bastano a salvare la validità di un progetto malconcepito (il pretendere insieme un cacciabombardiere d'attacco ed un intercettore da difesa), doveva costare 45 milioni di dollari ad esemplare e già ne costa oltre 200 milioni, tra l'altro nella versione più semplice: già adesso il più costoso sistema d'arma mai prodotto negli USA.
E nel complesso, tra costi di manutenzione e d'esercizio, l'F35 costerà 700 milioni di dollari a pezzo, un'emorragia inarrestabile da qui al 2050 per l'Italia: 40 miliardi di euro!
Ma analizziamo gli errori di progettazione più clamorosi.
Il gancio per permetterne l'atterraggio sulle portaerei è stato realizzato troppo vicino alle ruote tanto che l'aereo manca sistematicamente l'ancoraggio al cavo d'acciaio; difettoso è pure l'attacco per la catapulta per il decollo rapido.
Nonostante debba essere un aereo supersonico, dovendo essere il più rapido possibile come intercettore, c'è addirittura la necessità di non superare mai la velocità di 1,6 mach per non correre il rischio di mandare in fiamme la coda.
Di pessima manovrabilità (che per un velivolo militare d'attacco suona come una bestemmia) ed un'aerodinamica pessima (vibra esageratamente), è pure a rischio di esplosioni, sia perché il carburante è posizionato tutto attorno al motore, sia perché il suo sistema elettrico va a 270 volt contro i 48 volt di un caccia normale per cui, se colpito da un proiettile persino sparato da terra con un kalashnikov, si può innescare un corto circuito devastante.
Ancora: se costretto a rientrare all'improvviso ed a scaricare il carburante prima dell'atterraggio, data la sua eccessiva pesantezza, rischia l'esplosione.
Non parliamo poi del software gigantesco, oltre 9 milioni di righe di codice contro i già abbondanti 1,7 milioni dell'F22 (che pure aveva presentato gravissimi problemi di funzionamento), che si presta ad errori di programmazione praticamente certi e impossibili da risolvere.
Non solo:  la strumentazione dell'apparecchio è assai limitata in quanto ci si affida ad un apposito casco per il pilota con un visore interno complicatissimo che riporta le segnalazioni con un ritardo di 1/8 di secondo:  nel corso di un duello aereo, è un'eternità!
Senza neanche prendere in considerazione che se si rompe il casco (che da solo costa 2 milioni di euro!), l'aereo non può neppure decollare.
Dulcis in fundo, consuma in modo esagerato e richiede una continua manutenzione. Tanto da far ritenere che, utlizzato per semplici esercitazioni, non potrebbe restare in volo più di 15 ore la settimana; ma un buon pilota ha bisogno almeno di 35-40 ore di addestramento settimanale... 
A detta di autorevoli esperti, un vero bidone che vedrà la luce pure con due anni di ritardo, non prima del 2015, su cui si sono incaponiti, inspiegabilmente, i vertici dell'aeronautica e i governi italiani degli ultimi 15 anni: a cominciare da quello di D'Alema del 1999 per finire, ci mancherebbe altro!, con il governo Monti.
Per giunta, sacrificando la contemporanea partecipazione italiana al consorzio Eurofighter per la costruzione del cacciabombardiere europeo  Typhoon che vede l'Italia protagonista, con Alenia, anche sotto il profilo tecnologico in partnership con Germania, Inghilterra, Spagna: qui l'Alenia, controllata da Finmeccanica, assume il ruolo non di oscuro subfornitore degli americani ma di progettatore, produttore, esportatore. Inoltre tutti soldi investiti nel progetto europeo dal governo italiano restano in Italia a finanziare manutenzione, produzione e sviluppo del caccia. 
A confronto, l'F35 è una scelta fallimentare a livello industriale, tecnologico e occupazionale.
Perché la ricaduta tecnologica per l'industria italiana di questo investimento di guerra è praticamente zero.
In cambio di un ordine così esagerato (90 esemplari), l'Italia ha ricevuto dagli USA il contratto per l'assemblaggio finale degli F35 destinati anche all'Olanda, in tutto 165, e per la costruzione del 70% delle ali.
Ciò avverrà nello stabilimento di Cameri, vicino Malpensa, in una fabbrica nuova costruita a tempo di record e costata allo Stato italiano 800 milioni di euro, dove già lavorano 130 operai; a regime ne dovrebbe impiegare 3'000.
Ovvero, ogni posto di lavoro viene a costare 10 milioni di euro: un'enormità se si tiene conto che nell'industria civile, anche avanzata, tale costo scende a 200.000 euro, 50 volte di meno!
Dettaglio non trascurabile: posti di lavoro a basso contenuto tecnologico, per un'attività di mero assemblaggio.
Non  a caso il Canada, l'Australia, la Turchia e l'Olanda (a Cameri l'assemblaggio riguarderebbe, a questo punto, solo i 90 pezzi italiani) hanno deciso di sospenderne l'acquisto perché i caccia costano troppo e perché, come abbiamo visto, hanno enormi problemi tecnici, praticamente irrisolvibili.
Ma qui in Italia, il ministro della Difesa, l'ammiraglio Gabriele Di Paola, e il Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica Giuseppe Bernardis, pur decidendo di ridurne il numero da ordinare da 131 a 90, con il consenso di tutto il Parlamento (salvo IDV e radicali), ne confermano l'acquisto.
L'11 dicembre scorso, mentre fuori del Parlamento si manifestava contro l'acquisto degli F35, i nostri deputati approvavano la legge delega di revisione dello strumento militare, stanziando per la difesa 230 miliardi di euro per i prossimi 12 anni e stabilendo libertà di spesa per i militari all'interno di questo budget. Tutti i partiti si sono espressi a favore tranne Italia dei Valori, radicali e i leghisti (che si sono astenuti), lasciando quindi al ministero della Difesa carta bianca nello spendere circa 20 miliardi all'anno in barba ai tagli inflitti agli altri ministeri (scuola, sanità, previdenza, ecc.) in cupissimi tempi di spending review.
Particolare curioso ma significativo: coloro che tra i partiti di maggioranza hanno votato contro, Savino Pezzotta (Udc), Andrea Sarubbi (Pd), non sono stati ricandidati per le prossime elezioni.
Conclusione: la lobby dei militari è sicuramente più forte della politica.
Interpellati sulla questione, i politici e aspiranti premier della strana maggioranza uscente non si sono smentiti nella loro doppiezza e mediocrità.
Silvio Berlusconi rinnega il progetto, pur portato avanti dai suoi governi, ma è d'accordo sul continuarlo perché, udite udite, gli impegni presi vanno rispettati.
Finalmente un po' di coerenza!
Mario Monti, che ha premuto sull'acceleratore della riforma militare, accusa i detrattori del progetto di  populismo  (e ti pareva!...) e ritiene che, sia pure ridimensionato a 90 unità, l'acquisto vada comunque fatto.
Onestamente, da loro due non ci si poteva attendere altro!
Beppe Grillo e Antonio Ingroia sono, invece, nettamente contrari.
E Pierluigi Bersani? Cosa ne pensa?
Ecco il resoconto dattiloscritto dell'intervista concessa a Presa Diretta:
Bersani: Le priorità adesso sono altre e quindi vedremo come assieme naturalmente alle nostre forze armate, come questo programma possa essere rivisto a riduzione. E credo anche una riduzione significativa. Certamente bisogna, pur in un programma ridotto, alcune nostre presenze industriali bisogna garantirle.
Giornalista: Voi al governo non fareste come il Canada?
Bersani: No, credo adesso io diciamo non conosco nei dettagli la situazione dei canadesi… Sì, c’è stato… grossi problemi su copertura, investimenti, ecc
No, se la domanda significa noi proponiamo di cancellare la cosa. Non si può dirlo perché ci esporremo alla domanda: da qui a 5 anni che cosa fate?
Ecco..il vero risparmio nella prospettiva è creare un modello europeo di difesa…
Quello è il vero grande risparmio che potremo fare, via via… e bisogna lavorare su questo.
Io credo che già un gesto di questo genere possa indurre ad una riflessione anche dal punto di vista di impostazione del modello di difesa.
Giornalista: Cifre di riduzione non ne possiamo dare, cioè siamo a 90. E’ sensato dire…
Bersani: E’ sensato dire che li ridurremo… naturalmente quando avremo la possibilità, anche perché adesso si ragiona fuori dalla stanza dei bottoni, come si dice.
Giornalista: E chi continua a darvi dei guerrafondai per una scelta troppo filo…
Bersani: E ho capito sui guerrafondai, e purtroppo il mondo… O ci arrendiamo al fatto che poi chi avrà in mano un fucile potrà fare quel che vuole, possiamo anche arrenderci a questa logica, possiamo anche dire che noi, per l’amor di Dio, faccia la Francia se vuole, il Mali non ci interessa… Dopodiché siamo lì noi, no?
E quindi un meccanismo di difesa che svolga, naturalmente ripeto sempre sotto l’egida dell’organizzazione internazionale, sempre ai fini di pacificazione e quindi anche come deterrenza, io credo che nel mondo di oggi sia ancora necessario. Purtroppo. Ma è ancora necessario.

Un inutile giro di parole, ammiccando a coloro che criticano l'acquisto dei caccia, per ammettere di essere comunque d'accordo con l'operazione.
Ecco l'identità del Pd: rispetto alla politica di Berlusconi e della destra italiana, posizionarsi solo un millimetro prima...
Il massimo dell'inadeguatezza e della doppiezza: non una sola idea, un solo valore non negoziabile, su cui i piddini sentano il dovere morale di spendersi con tutte le proprie energie!
E' forse un caso che Bersani, da Berlino, ha lanciato oggi  la proposta di collaborazione a Mario Monti?


 

martedì 29 gennaio 2013

Crack MPS: la Casta saccheggia lo Stato. Però è antifascista...

Ormai è chiaro (e i loro lettori se ne devono fare una ragione...).
RepubblicaCorriere della Sera in tandem stanno tirando la volata a PD e a Mario Monti e, giorno dopo giorno, spargono a mani basse disinformazione contro l'unica vera novità di questa campagna elettorale: il Movimento 5 Stelle  di Beppe Grillo.
Lo seguono come un'ombra in quello che sempre più si sta profilando come un autentico bagno di folla nelle mille piazze italiane, lo TsunamiTour, restando  in imbarazzato silenzio per settimane data l'accoglienza  trionfale che la gente dovunque gli tributa.
Sperando vivamente in un incidente di percorso ovvero che, preso dalla foga di uno dei tanti discorsi che tiene ogni giorno completamente a braccio, incespichi in qualche iperbole, su cui plotoni di pennivendoli sono lì pronti ad impiccarlo.
Ma nell'attesa dello sfondone che non arriva (quel Grillo si sta rivelando sempre più accorto!), si allestisce una qualche carnevalata.
Così, al soldo della Casta, di fronte al palco, entrano in scena sedicenti antifascisti, uno sparuto gruppo di ragazzotti che, senza sapere di maneggiare parole molto più grosse di loro, in deficit spesso dei più elementari strumenti culturali e di un'accettabile capacità dialettica, inscenano  all'improvviso, ad un preciso ordine di scuderia, una vera e propria gazzarra alzando striscioni vaneggianti accuse di fascismo contro il leader del M5S. Il quale li invita subito dopo a salire sul palco per argomentare il loro dissenso: ma il tentativo va a vuoto, finché la piazza, intuendo che si tratta dell'ennesima provocazione, non li sommerge di fischi.
Ma ciò basta a Corriere e Repubblica, dopo giorni di estenuanti appostamenti a vuoto, di titolare, nuntio vobis gaudium magnum:  "Contestazioni contro Beppe Grillo", facendo assurgere il gesto telecomandato del minuscolo drappello di scalmanati a  notizia del giorno.
E così proprio colui che, unico nel terremotato panorama politico italiano, in questo gelido inverno riempie le piazze, sommerso dal calore e l'entusiasmo di una moltitudine di studenti, lavoratori, pensionati, casalinghe, cassintegrati, ovvero semplici cittadini, (quando non è lui stesso che vi nuota sopra!), ed al quale vengono riservate ovazioni da rockstar, proprio il Beppe nazionale, che va in giro goliardicamente in mezzo ai ragazzi senza scorta alcuna né bisogno di un agguerrito servizio d'ordine, viene additato dai media di regime a parafulmine della Casta.
Tentativo talmente scoperto e maldestro da naufragare miseramente, anzi da rivelarsi un boomerang.
Ma perché tanta animosità contro di lui?
Semplice: con il suo movimento di cittadini, nato per superare vecchi steccati, planando sopra le ideologie con nuove idee processate dalla rete,  il leader del M5S costringe i leader politici come Bersani, Casini, lo stesso Berlusconi, a fare una campagna elettorale su un terreno impervio, per niente congeniale, basato com'è sui contenuti piuttosto che sulle logiche di schieramento.
Ma questi qui contenuti non ne hanno, preoccupati soltanto di mantenere la poltrona  e di continuare a gestire il potere come sempre hanno fatto in passato, attraverso accordi sottobanco, reciproci ricatti, scambio di piaceri, cooptazioni, patetici teatrini televisivi.

Ecco che col suo modo scanzonato di interpretare la politica, sconvolgendo la vecchia liturgia della campagna elettorale, Grillo ha messo in crisi la spartizione del consenso elettorale siglato da sempre dagli uomini della Casta, al riparo delle ideologie.
Perché proprio agitando a comando la bandiera di un'appartenenza ormai fine a se stessa, una generazione di politici è vissuta di rendita alle spalle dei cittadini, che ingenuamente li hanno sostenuti abboccando alle loro vuote parole d'ordine, a cui proprio chi le pronunciava era il primo a non credere.
Vi ricordate l'ex segretario del PD Walter Veltroni, già capolista del vecchio PCI, dichiarare apertamente di non essere mai stato comunista? O Gianfranco Fini, una vita nel MSI, dichiarare che il fascismo è stato il male assoluto.
Per due leader che hanno dovuto fare outing, ce ne sono stati molti altri che hanno fatto finta di niente, usando l'ideologia come un tram su cui salire e scendere alla fermata più vicina, magari col bavero alzato e gli occhiali scuri per non essere riconoscibili.
E' così che si possono mandare in fumo 14 miliardi di euro, secondo una strategia degna non di un management ma di una banda terroristica, mettendo in ginocchio buona parte dell'economia italiana, continuando a fare finta di nulla.
In fondo si tratta solo di compagni che sbagliano, ma che tutti restino tranquilli: sono antifascisti certificati al 100%.
La gente però piano piano si sta svegliando e non gradisce più di essere presa per il naso in questo modo.
Il gioco è ormai così scoperto che i galoppini dei due principali quotidiani sono costretti a confondersi tra la folla mischiandosi proprio con i contestatori.
Le immagini del video girato a Livorno che i due quotidiani esibiscono come un trofeo dimostrano infatti come il punto di osservazione delle riprese fosse proprio a fianco di chi alzava lo striscione: una contiguità più che sospetta!
Nel frattempo Bersani e Monti negano qualsiasi coinvolgimento nello scandalo MPS e Berlusconi preferisce tacere.
Va a finire che la colpa se il Monte dei Paschi sta per saltare per aria è dei correntisti o di coloro che hanno in questi anni preso il mutuo per la prima casa? O dell'artigiano che chiede l'anticipo su fatture?
Nell'attesa che la buriana si plachi, il salvataggio è stato affidato, guarda caso, ancora una volta alle casse dello Stato: e visto che parliamo di qualcosa come 4 miliardi di euro, praticamente all'IMU sulla prima casa, finita di versare dai cittadini appena un mese fa. 
E proprio chi inveisce contro lo Stato sprecone, improduttivo, pieno di debiti, da ridimensionare, (l'opposto del privato che brillerebbe per efficienza e competitività, serietà...) gli assesta il colpo di grazia.
Il ritornello è sempre lo stesso, anche se ci vuole un gran fegato per ripeterlo: socializzare le perdite, privatizzare i profitti ma scagliarsi contro la spesa pubblica improduttiva...
Prima o poi questi cialtroni qualcuno li dovrà pur mandare a casa! 

venerdì 18 gennaio 2013

L'inverno televisivo: ghiacci eterni, cabaret o aria fritta, a voi la scelta!

La campagna elettorale su radio e tv va avanti con il solito tormentone di Monti, Berlusconi e Bersani che fanno la staffetta da un talk show all'altro senza praticamente soluzione di continuità.
L'uno rinfaccia le responsabilità dell'abisso in cui siamo precipitati, l'altro gli risponde per le rime sbattendogli in faccia i numeri del disastro economico degli ultimi dodici mesi, l'altro ancora riempie il suo straripante accento emiliano di frasi spezzate, con cui attacca il secondo e sembra prendere  le distanze dal primo, benché finora lo abbia sempre sostenuto ed ancora insista nel proporgli un percorso comune per il dopo elezioni.
Insomma, tutti insieme appassionatamente,  a chiacchiere rinfacciandosene di tutti i colori, nei fatti senza dire un bel niente.
L'effetto complessivo di questo continuo teatrino è di disagio, avvilimento,  irritazione: per lo spettatore, finita la disillusione, resta solo il rifiuto.
Sequestrano da settimane radio e televisione, che nel frattempo attrezza uno spot tra il serio e il faceto per intimarci  di  pagare il canone, sgomitano per essere sempre lì, in favore di telecamera, per poi non dire una sola parola sul deserto economico che ci circonda, men che meno su come uscire dal baratro in cui ci dimeniamo quotidianamente, atteggiandosi ancora a medici di una patologia che proprio loro hanno causato.
Uno spettacolo deplorevole.
Mario Monti, parla come un libro (mal)stampato, rivolgendosi non si sa bene a chi né perché. Il suo discorso è spento, distaccato, inquietante. Preannuncia ghiacci eterni, ovvero sacrifici solo per i poveracci, il suo strabico rigore lacrime e sangue, senza battere ciglio; mentre ne parla, i suoi lineamenti sembrano paralizzati. Non si sa più quando sia dottor Jekyll o mister Hyde... ma è mai stato dottor Jekyll?
Berlusconi è ormai la maschera di se stesso. Con l'asfalto sulla testa e doppio strato di cerone che letteralmente si scioglie sotto i riflettori, è diventato personaggio da commedia dell'arte: neppure lui si prende più sul serio, è tornato alla sua prima identità di simpatica canaglia. Insomma è Berluscone, ennesima maschera italiana.
Pierluigi Bersani da Bettola è invece vittima del suo modo sconclusionato di parlare: non sa mai bene quello che dice, la sua specialità è l'aria fritta. Riesce a parlare per ore, persino litigando con la poltrona su cui siede, con espressione infastidita tendente al disgusto, su cui ogni tanto tracima un sorriso istrionico: il suo pezzo forte è recitare la parte dell'eterno incompreso. Impossibile resistergli... senza fare zapping.
Che qualcosa nella sua campagna di comunicazione non funzioni se ne è accorto  pure Massimo Giannini,  vicedirettore del quotidiano la Repubblica, da sempre schierato con il PD, che di fronte al vuoto pneumatico della proposta politica bersaniana, invoca il cosiddetto colpo d'ala:  non più dire qualcosa di sinistra, semplicemente dire qualcosa.
Le parole, nella sostanza durissime, sono scelte con grande cautela, come si fa con le persone amiche, eppure non lasciano adito a dubbi:

"[...]in tutte queste settimane se c'è stato un limite nella comunicazione politica di Bersani è stato proprio questo: sull'onda del vantaggio elettorale che i sondaggi gli attribuiscono, il segretario del PD è stato un passo indietro rispetto agli scontri molto aspri e alle polemiche in prima linea che nel frattempo si moltiplicavano tra Berlusconi e Monti [...] E' chiaro che man man che andiamo  avanti con i giorni e si avvicina la scadenza del 24-25 febbraio anche Bersani deve riempire di contenuti questa campagna elettorale. E' vero che lui non fa cabaret, ma chi si presenta e si candida alla guida del Paese deve mettere elementi concreti, deve richiamare soprattutto i suoi elettori ma anche gli elettori indecisi su contenuti molto concreti. Ecco, su questo forse Bersani deve fare uno sforzo in più, di qui alle prossime tre settimane, perché finora il Partito Democratico proprio sotto il profilo dei programmi, per esempio sulle materie che riguardano il lavoro, il fisco, la scuola, è stato un pochino ambiguo per non dire a tratti evanescente... Quindi spetta al segretario mettere carne al fuoco e dare finalmente l'impressione non soltanto all'establishment, alle cancellerie, ai mercati internazionali, ma prima di tutto all'opinione pubblica italiana che il centrosinistra si candida a governare questo paese e che ha idee molto chiare su come può e deve farlo [...] Insomma il colpo d'ala ci vuole e ancora il colpo d'ala da Bersani non lo abbiamo avuto".
 
E' un de profundis...
Proprio oggi, La Stampa di Torino misura il tempo di apparizione in tv dei tre principali competitor per la poltrona di premier. Secondo la ricerca del quotidiano, nel periodo 24 dicembre-14 gennaio, un periodo costellato di festività, Berlusconi ha totalizzato oltre 63 ore di presenza sul piccolo schermo. Il presidente del Consiglio uscente, Mario Monti, si è fermato poco sotto, a 62 ore. Mentre l'esposizione di Pier Luigi Bersani è stata quantificata in sole 28 ore, pur sempre un'enormità rispetto alle altre forze politiche, praticamente assenti dai palinsesti, in barba alla par condicio.
Ebbene, accanto all'inesauribile vecchietto, come il giornale torinese battezza scherzosamente il Berlusconi che imperversa per l'etere insieme al Professore, a presidiare lo spazio radiotelevisivo c'è Bersani, che in quasi trenta ore di permanenza davanti alle telecamere, a detta del giornale amico, è stato un pochino ambiguo, a tratti evanescente...
Com'è possibile che si riesca a stare sulla scena mediatica per tanto tempo in questo modo?
La domanda è volutamente retorica, visto lo stato di degrado del sistema dell'informazione radiotelevisiva in Italia, dove  i giornalisti, più che il loro mestiere, fanno da spalla al politico di turno, permettendogli di parlare a ruota libera.
Se Bersani critica giustamente Berlusconi, il cabarettista, come fa a non accorgersi che lui stesso mena sistematicamente il can per l'aia?
Dovrà pur convincersi che chi di cabaret ferisce, di aria fritta perisce...

domenica 11 marzo 2012

I 100 giorni del governo Monti: un grande avvenire dietro le spalle

Il governo degli pseudotecnici, quello che toglie ai poveri pur di non disturbare i ricchi, è arrivato al traguardo dei primi 100 giorni e già molti si interrogano su che cosa ne sarà in futuro, magari dopo le elezioni del 2013. 
Prima di guardare in avanti varrà forse la pena di girarsi indietro per capire che cosa ha combinato finora.
Sicuramente è riuscito a togliere parecchie castagne dal fuoco a Silvio Berlusconi che, tra una manovra di mezza estate, la lettera della BCE, gli scandali privati, le varie inchieste giudiziarie sulle mille e una cricca, gli attacchi finanziari ai suoi gioielli di famiglia, era giunto alla fine di ottobre in completo stallo e in grosso debito di credibilità internazionale, nel pieno di una tempesta finanziaria che aveva portato il rendimento dei titoli di stato italiani oltre la soglia psicologica del 7%, ad un passo del default con il famigerato spread sui bund tedeschi decennali stabilmente sopra i 500 punti.
Soprattutto è stato capace di varare una manovra lacrime e sangue che rappresenta il fiore all'occhiello per una destra tecnocratica e filoeuropea: in Europa nessun altro governo è riuscito a fare di più, tanto che l'Italia può oggi vantare (si fa per dire!) le regole previdenziali più severe del vecchio continente e gli stipendi tra i più bassi (al 23°posto tra 30 paesi OCSE).
Dopo questa partenza bruciante, trascorse le vacanze di fine anno, la guida del governo è stata assai più incerta e contraddittoria: sia la manovra delle liberalizzazioni che il decreto sulle semplificazioni, strombazzati come passaggi epocali, si sono rivelati ben poca cosa, confermando l'assoluta inadeguatezza dell'esecutivo guidato da Mario Monti non solo di proporre una necessaria redistribuzione del reddito, condizione necessaria per riavviare il motore dello sviluppo, ma semplicemente di modulare gli ulteriori sacrifici imposti ai cittadini in proporzione alla loro condizione economica.
Niente da fare, pagano sempre i soliti noti, lavoratori e pensionati, mentre pure le categorie che a chiacchiere erano state prese di mira come tassisti, notai, liberi professionisti, farmacisti, hanno potuto tirare il proverbiale respiro di sollievo.
Di imposta patrimoniale non è rimasta quasi traccia: la nuova Ici, cioè l'Imu, colpisce tutti, con un vero e proprio shock per i piccoli proprietari e le imprese agricole.
La cosiddetta minipatrimoniale sulle attività finanziarie è poi una autentica beffa: non il quotidiano dei bolscevichi, ma Il Sole 24 ore qualche giorno fa ha titolato che la stangata non è per tutti ma nel 2012 risparmia proprio i grandi patrimoni, dato che il bollo dell'1 per mille prevede un tetto di 1.200 euro. Con una imbarazzante curiosità:  a beneficiarne saranno pure i coniugi Monti...
Delle tre parole d'ordine rigore-equità-crescita, resta solo soletto il rigore, ma a questo punto trattasi di pura vessazione sociale.
E se lo spread è sceso fino a quota 300 lo si deve in massima parte alla gigantesca immissione di liquidità effettuata dalla BCE di Mario Draghi che in due tranches, il 22 dicembre e il 28 febbraio scorsi, ha immesso qualcosa come 1000 miliardi di euro nel sistema bancario europeo: per intenderci metà del debito pubblico italiano.
Con questi soldi presi in prestito al tasso simbolico dell'1% per tre anni, le banche hanno potuto acquistare i titoli di stato che ancora garantiscono un rendimento medio attorno al 4%: ecco spiegato il miracolo della discesa dello spread!
Nel frattempo, contrariamente ad ogni previsione  azzardata al momento delle sue dimissioni, adesso Berlusconi non solo non è fuori gioco ma è politicamente più forte, avendo recuperato in questi mesi  molte frecce al suo arco.
Come avrebbe potuto sperare di meglio quel freddo sabato di novembre quando salì al Quirinale per dimettersi tra i fischi e le scene di giubilo della folla, di ritrovarsi tre mesi dopo senza aver dovuto caricarsi personalmente della responsabilità di misure impopolari, lasciando che a farlo fossero i tecnici?
E adesso  pure con l'inopinata prescrizione sul processo Mills e, ciliegina sulla torta, con l'annullamento della condanna di 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa al suo fido scudiero Marcello Dell'Utri!
E' proprio tutto un altro clima ora, tant'è che lui e il suo delfino, quello con o senza quid (a voi la scelta!), possono sparare ancora una volta ad alzo zero contro i magistrati: eppur non chiamandoli pecorelle, nessuno si scompone più di tanto, meno ancora dentro il partito di Bersani.
Infatti, senza il Partito Democratico e il suo emerito segretario, tutto questo sarebbe stato materialmente impossibile.
Se non è restato un sogno del Cavaliere, è anche grazie al partito in cui militava il tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, quello che ha fatto fuori 13 ma forse 25 milioni di euro: sì quello che al ristorante dietro il Pantheon spendeva 100 euro a testa per l'antipasto e 180 euro per un piatto di spaghettini al caviale, tutto in conto al partito, senza che nessuno si sia mai accorto di nulla. E che intervistato da Servizio Pubblico di Michele Santoro si domanda incredulo: "Dove sono finiti i 181 dei 214 milioni di euro che ho amministrato. 181 li abbiamo usati tutti per pagare il personale e per pagare i telefonini??".
Ma è anche grazie al segretario Pierluigi Bersani che, intervistato da Repubblica venerdì scorso, rivendica la riforma delle pensioni con queste parole"Quando mi fermano al supermercato- perché io vado al supermercato - le persone si lamentano per la riforma della previdenza. Dicono 'Segretario, noi andremo in pensione quattro anni dopo'. Io, nel rispondere ci metto la mia di faccia, e credo di dare così un contributo alla discesa dello spread".
E sulla TAV  è ancora una volta ultimativo: "Il se non è più in discussione. Non c'è più spazio per posizioni ambigue che con la scusa del dialogo possano mettere in forse l'opera. Si può invece discutere il come".
Per il democratico Bersani l'opera va fatta, il dialogo su questo punto è inutile.
Che poi la sollecitazione non solo provenga dalle popolazioni della Val di Susa (e oltre!) ma da più di trecento docenti universitari, ricercatori e professionisti è cosa che proprio non lo riguarda.
In fondo un'opera pubblica da oltre 20 miliardi di euro, pronta forse nel 2030, mentre il Paese è alla canna del gas, che vuoi che sia?
Fra l'altro come non essere ottimisti vista e considerata l'attenzione certosina che i suoi colleghi di partito, vedi i casi Lusi, Penati e compagnia gaudente, hanno per il denaro pubblico?
Lasciateci però ancora credere che di fronte ai cittadini non ci si possa intestardire su un megaprogetto senza prima essersi rimboccati le maniche (vi ricordate la mitica camicia di Bersani nel manifesto elettorale?) e essersi confrontati a viso aperto con loro.
Il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, nel suo odierno editoriale freme alla sola idea che si possa aprire un confronto pubblico sul tema e si domanda ironicamente se ci sia forse una "Repubblica referendaria" da creare o un "Palazzo d'Inverno da invadere".
Ma la risposta è molto più semplice: c'è una intera classe dirigente, di destra e di sinistra, incompetente, corrotta e infingarda, da mandare a casa.
A stretto giro di urne. 

sabato 24 dicembre 2011

Lo spread che non scende: il bluff del governo Monti

La manovra del governo Monti, un confuso accrocchio di tasse destinate a colpire esclusivamente pensioni, lavoro e redditi bassi, ha avuto nella settimana di Natale il via libero definitivo dal Senato. 
La Casta l'ha votata compatta, anche se con qualche ulteriore defezione, facendo finta di guardare da un'altra parte; anzi, senza ritegno, di lamentarsene con i propri elettori.
E' dovuto intervenire lo stesso Mario Monti a svelare il doppio gioco: «Vorrei dire ai cittadini che l`appoggio che questo Governo sta ricevendo è molto più grande di quello che i partiti lasciano credere o dichiarano».
Insomma il capo del governo non ci sta a fare il capro espiatorio di una situazione che si sta avvitando su se stessa e che, anche grazie ai suoi uffici, sta diventando di giorno in giorno più difficile.
Lo scenario in queste due ultime settimane si è fatto infatti ancora più scuro e inquietante.
La manovra del preside Monti e di quei professoroni è appositamente studiata per far versare lacrime e sangue ai soliti noti: lavoratori, pensionati, famiglie a basso reddito.
Non c'è un solo provvedimento che riesca semplicemente a fare il solletico ai ricchi: viene il sospetto che tutte le misure siano state studiate proprio per non disturbare più di tanto il manovratore, cioé la nostra avida classe dirigente.
Un esempio? La tassa sulle attività finanziarie.
E' stata congegnata dai tecnici ministeriali come un'imposta di bollo con aliquota pari all'1 per mille nel 2012 e all'1,5 per mille nel 2013. Ma attenzione: nel 2012, oltre al limite minimo di 34,2 euro, è previsto un tetto massimo di 1.200 euro.
Traduzione: se, da morto di fame, hai titoli per 1'000 euro paghi di bollo il 3,42%; ma se hai in banca 10 milioni ne paghi solo 1'200 euro, cioè lo 0,01%. Alla faccia dell'equità.
E del conflitto d'interessi: raccontano le cronache che il superministro Corrado Passera possiede, titolo più titolo meno, solo in stock options per essere stato amministratore delegato di Intesa San Paolo, 7 milioni di azioni; al prezzo di ieri, antivigilia di Natale, fanno  la bella cifra di 9.170.000 euro.
E di bollo paga solo il massimo stabilito: i famosi 1'200 euro ovvero lo 0,013% del gruzzolo accumulato. Decisamente conveniente: un risparmio di circa 8'000 euro!
Quanto all'asta sulle frequenze televisive, tutti hanno potuto vedere con quanto imbarazzo e quale circospezione ha promesso di intervenire, incalzato da Fabio Fazio domenica scorsa nella puntata di Che tempo che fa.

E sull'impegno assunto che dopo la fase 1, questa del rigore, si passerà alla fase 2 della crescita, si tratta della classica leggenda metropolitana, di cui è lastricata la storia d'Italia, almeno  da vent'anni a questa parte.
Anche perché una manovra che sia severa e oculatamente iniqua, come quella varata da Mario Monti, non solo è moralmente e politicamente inaccettabile ma, a dispetto della nutrita pattuglia dei benpensanti che ne colgono le magnifiche sorti e progressive, economicamente insostenibile in quanto gravemente recessiva.
Non è un caso che l'Istat, dopo aver esitato a lungo, abbia comunicato che il terzo trimestre del 2011 si è chiuso con un Pil a -0,2%: ovvero, grazie alle due-tre manovrine di Tremonti, già dall'estate scorsa siamo entrati in recessione.
Immaginate adesso come si possa chiudere il 2011, dopo che il collegio dei docenti ha deliberato di accanirsi sul fu ceto medio.
Ecco perché il famigerato spread non scende: se all'insediamento di Monti stava a 518 punti, ieri a manovra approvata, è rimasto a lungo a quota 515 per poi ritracciare comunque sopra i 500.
Ma non ci avevano detto che andando in pensione a 70 anni e con quattro centesimi di vitalizio, o non andandoci per niente immolati sul posto di lavoro, lo spread sarebbe velocemente sceso e gli Italiani (non la Casta!) avrebbero vissuto finalmente felici e contenti?
Panzane o meglio la solita bugia pietosa per far inghiottire la pillola amara a milioni di Italiani.
Che poi questa non sia una medicina ma si riveli un veleno letale e rischi addirittura di far stramazzare il nostro paese è un dettaglio che i media si guardano bene dal far trapelare.
Stamattina Massimo Giannini parla di circolo vizioso tra il debito pubblico che non si scalfisce e un Pil che tracolla; purtroppo tutto ciò era ampiamente prevedibile, non bisognava essere un pozzo di scienza per pronosticarlo da mesi.
Così fa bene Scalfari, freschissimo di figuraccia con le sue fasulle previsioni da 'tecnico', a tentare di farcele dimenticare girando per un po' alla larga dall'attualità economico finanziaria per interrogarsi, molto più innocuamente e soavemente, sul senso della vita con il cardinale Martini.
Fa male, invece, il suo vicedirettore Massimo Giannini  quando attribuisce la disfatta di Monti alle incertezze di Eurolandia (ripetendo il leitmotiv di Berlusconi di tutta l'estate) ma soprattutto al quadro politico instabile e alla fragilità di un governo sostenuto, come dice lui, da "azionisti riluttanti".
Si tratta di un grossolano abbaglio.
Mai nella storia repubblicana un governo ha potuto contare su numeri in Parlamento così larghi, nonostante diffusi mal di pancia.
Il fatto è che, grazie ad un Pd del tutto irrilevante, le misure adottate da Monti sono le stesse che avrebbe adottato Berlusconi se fosse restato in sella: antipopolari e recessive.
Perciò i mercati non si fidano: come scommettere su un Paese, acquistandogli i titoli del debito pubblico, quando il suo Pil è in caduta libera proprio grazie al governo Monti?
Se Bersani nel frattempo non si fosse ritagliato il ruolo di comparsa, restando assente dal dibattito politico e intervenendo a giochi fatti, sospinto sulla scena solo dai mugugni del partito persino su una questione cruciale come  l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, probabilmente si sarebbe potuto fare una manovra che, a parità di saldi, avrebbe potuto essere non solo equa ma di stimolo per l'economia.
Costringendo finalmente a pagare evasori fiscali e quanti vivono ben al di sopra dei propri meriti.
Pure l'intervento correttivo sulle pensioni d'oro (quelle dai 200'000 euro annui in su)  promesso dal ministro del Welfare Elsa Fornero è stato alla fine ridimensionato: dal 25% di contributo annunciato al 15% deliberato.
Insomma, mentre i problemi finanziari restano intatti e quelli economici, abbandonati a se stessi, si complicano con conseguenze forse irrimediabili, si insiste a parlare di flessibilità del mercato del lavoro.
Un paese allo stremo, senza una politica industriale, con un equilibrio sociale sempre più precario, con servizi pubblici allo sfascio, collegamenti ferroviari che spaccano in due il paese, si permette però il lusso di acquistare dagli USA tra i 15-20 miliardi di cacciabombardieri d'attacco, rifinanziare le missioni militari all'estero, firmare il contratto con la Francia per l'avvio dei lavori per la TAV impegnandosi come prima tranche per 2,7 miliardi.
Roba da matti, come non dice in questo caso l'ineffabile Pierluigi Bersani.
Buon Natale.