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domenica 16 marzo 2008

Trent'anni dopo

Sono passati trent’anni dalla strage di via Fani ma la parola fine su questa tragica storia non è stata ancora messa.
In tutto questo tempo sono circolati soltanto frammenti di cronaca, spezzoni di un film che non si è mai potuto montare perché mancano ancora numerose scene importanti mentre il nome di qualche attore di primo piano addirittura non compare neppure nei titoli di coda.
Sta di fatto che la verità giudiziaria ha lasciato troppe zone d’ombra, troppi tasselli del mosaico non sono tornati al loro posto.
Attribuire la responsabilità di quella strage soltanto alle Brigate Rosse vuol dire fingere di non sapere che quello compiuto quella mattina all’incrocio di due anonime strade nel quartiere Trionfale a Roma non fu il solito terribile atto terroristico ma una vera e propria azione di guerra, condotta da un commando organizzato secondo una ferrea strategia militare.
Mai prima di allora era stato messo in piedi nell'Italia repubblicana nulla di minimamente paragonabile; mai più le Brigate Rosse o qualsiasi altra formazione terroristica (escludendo, naturalmente, la criminalità mafiosa) avrebbe semplicemente ideato nulla di simile.
Se uno dei pubblici ministeri impegnati nei vari processi celebrati, Antonio Marini, ritiene che l’unica verità sostenibile con fondatezza è quella emersa processualmente e cioè che tutto il caso Moro riconduca alle BR, resta ancora inconfutabile l’opinione di chi è convinto che dietro quell’evento criminoso si nasconda ben altro.
Purtroppo il sacrificio della scorta e la successiva uccisione dello statista democristiano dopo un inferno durato 55 giorni, rappresentano l’ennesimo buco nero che fa dell’Italia un paese a sovranità limitata.
Un Paese che non riesce a fare i conti con il suo passato, che non sa andare a fondo dei propri misteri, che ha evidentemente delle istituzioni troppo deboli per fronteggiare, nonostante la distanza siderale che ci separa da quei fatti, la carica dirompente di una verità probabilmente ancora troppo scomoda, troppo difficile da accettare anche se fosse soltanto per consegnarla ai libri di storia.
Chi sa parli, hanno implorato ripetutamente in questi anni i familiari di Aldo Moro; appello adesso rinnovato con nuovo vigore dalla figlia Agnese.
L’opinione pubblica viene tenuta all’oscuro di fatti importanti che si verificarono durante quei drammatici 55 giorni: ancor oggi, soprattutto da parte di ambienti istituzionali vicini al centrodestra, si insiste nel mantenere il segreto di stato nonostante esso sia da considerarsi rimosso, essendo decorso il termine massimo dei trent’anni, come prevede l’ultima riforma dei servizi segreti.
Alcuni ipotizzano, addirittura, che il Governo Prodi possa essere caduto proprio perché stava per rendere pubblici i documenti segreti sul sequestro Moro (in coincidenza appunto di questo anniversario).
Documenti certamente clamorosi, perché riporterebbero alla memoria di questo Paese una serie di fatti scottanti legati a quella vicenda, con tanto di nomi e cognomi.
A riguardo, assai illuminante è stata l'intervista fatta circa un mese fa da Lucia Annunziata nel corso del programma di Raitre In mezz’ora a Corrado Guerzoni, all’epoca portavoce di Aldo Moro: se ne trae un giudizio ben poco lusinghiero su alcuni uomini politici del tempo, alcuni inopinatamente ancor oggi sulla cresta dell’onda.
E' quanto mai auspicabile che i candidati premier, nel pieno di questa noiosa campagna elettorale, prendano adesso di fronte al Paese l'impegno morale di rendere pubbliche quelle carte una volta varcato il portone di Palazzo Chigi.
Sarebbe una grande operazione di trasparenza, davvero un punto di svolta per la nostra democrazia.
Altrimenti, blaterare come si è fatto in questi giorni di democrazia compiuta o, peggio, rivendicare l'eredità politica di Aldo Moro diventa, al di là delle migliori intenzioni, un'operazione di pura propaganda, incredibilmente di pessimo gusto, che non rende giustizia alla memoria di quell'uomo e alla tragedia che ne accomunò il destino a quello degli uomini della sua scorta.