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martedì 23 settembre 2008

Libero mercato e democrazia: cosa ci insegna la crisi americana

La scorsa settimana è stata segnata inequivocabilmente dalla tempesta dei mercati finanziari che, tuttavia, si è risolta nella giornata di venerdì con un rimbalzo di proporzioni sorprendenti. Dalle stalle alle stelle, si sarebbe tentati di dire.
Se non fosse che la nottata ancora non è passata, nonostante la Casa Bianca abbia gettato sul fuoco di una crisi finanziaria senza precedenti tantissima liquidità.
Adesso c’è da chiedersi se l’iniziativa a sorpresa di un’amministrazione liberista alla scadenza del suo mandato possa ridare ossigeno all’economia americana o sia il classico pannicello caldo che evita il dramma ma non restituisce serenità ai mercati.
Lo vedremo nei prossimi giorni ma già l’incertezza mostrata dai mercati finanziari nella giornata di ieri ci fa capire che lo spettro di una gigantesca recessione mondiale non è stato affatto ricacciato indietro.
Inondare i mercati di liquidità per rilevare gli attivi spazzatura delle banche americane può essere una buona idea nel brevissimo termine per scongiurare la reazione a catena indotta dal panico ma non è detto che si riveli una mossa veramente azzeccata.
Innanzitutto, il fatto che lo Stato debba intervenire laddove le banche private hanno fallito, addossando sulla platea dei contribuenti americani l’enorme costo di questa crisi, significa sconfessare l’ideologia del libero mercato proprio nella patria del capitalismo, dove questo principio è sempre stato considerato un vero e proprio tabù.
Il risultato finale di questa operazione è che si privatizzano i profitti (gli stipendi da favola incassati per anni dai manager delle banche d’affari americane restano incamerati proprio da chi, nelle stanze dei bottoni dei colossi del credito, ha trascinato l’economia mondiale in questo precipizio) mentre si socializzano le perdite: già adesso si stima che per il contribuente americano la crisi bancaria costerà una cifra enorme, paragonabile al costo della guerra in Iraq (naturalmente prescindendo per quest’ultima da qualsiasi pur necessaria considerazione di natura etica).
Non è la prima volta che questo accade nelle economie occidentali (in Italia, basti pensare all'odierna vicenda Alitalia con l’invenzione berlusconiana della bad company a carico dello Stato) ma è l’ennesima solenne conferma di un vecchio ritornello che resta paradossalmente ancora valido: il Privato è più efficiente del Pubblico.
Sicuro! Perché il privato quando le cose vanno bene si autoincensa ed incamera i profitti ma quando le cose prendono una brutta piega scarica sul pubblico (come nel caso americano) il costo dei propri errori e delle proprie inefficienze.
Con il risultato paradossale che, alla fine della fiera, è il pubblico che resta il regno dell’inefficienza, dello spreco e dello sperpero, votato com’è a farsi comunque carico delle colpe altrui.
Ma questo è come dire che le colpe di pochi ricadono comunque su tutti, mentre i vantaggi restano esclusivo appannaggio di quei pochi privilegiati.
Che razza di democrazia si possa delineare con simili presupposti è presto detto: anche in tempi difficili, le classi dirigenti restano comunque a galla, lasciando alla collettività l’onere di saldare il conto dei loro errori.
Il risultato è che, sulla carta, in giro per l’Occidente ci sono tante belle democrazie dietro cui, però, si nascondono oligarchie tanto agguerrite quanto incredibilmente incompetenti.
Ecco che può succedere che negli Stati Uniti, centro strategico del liberismo economico, per giunta attualmente a guida iperliberista, quella del presidente repubblicano George Bush, si propongano d’improvviso politiche keynesiane, dopo averle per anni dileggiate prima ancora che aspramente combattute.
Come molti osservatori hanno fatto notare, è una vera e propria rivoluzione culturale quella a cui stiamo assistendo in queste ore, al di là delle misure concrete che l’amministrazione Bush, di concerto con la Federal Reserve, ha messo in cantiere e che meriteranno comunque di essere attentamente valutate dall’opinione pubblica internazionale.
Ad esempio, che senso ha creare una gigantesca IRI americana senza defenestrare immediatamente i responsabili di questo disastro? Oppure, perché trasformare le banche d’affari come Morgan Stanley e Goldman Sachs in banche commerciali quando è stata proprio la mancata separazione tra credito commerciale e credito speciale (nella sua sterminata gamma di indecifrabili prodotti d’ingegneria finanziaria) forse la principale causa, secondo un parere già prevalente tra gli esperti, di questa Pearl Harbour borsistica? Tutto ciò, con quali pesanti ripercussioni sul già enorme deficit federale?

E poi, per quanto riguarda le molto più modeste vicende di casa nostra, cosa può insegnare la lezione americana alla politica italiana?
Possibile che i nostri intellettuali restino ancora zitti di fronte alle drammatiche notizie provenienti da oltreoceano? Che nessuno abbia il coraggio di mettere in discussione le magnifiche sorti e progressive del libero mercato? Che nessun politico di centrosinistra ne tragga spunti di riflessione per contrastare la visione veterocapitalista della nostra destra pseudo aziendalista?
Speriamo che, una volta messe su le tendine del loft di Manhattan, il leader del Partito Democratico si ricordi che i suoi elettori si attendono da lui non tanto lo sterile chiacchiericcio o il battibecco ricorrente con il Cavaliere, inseguendolo goffamente sul suo stesso terreno ideologico, quanto di formulare per il nostro Paese un’alternativa credibile di sviluppo socio-economico, magari traendo utili indicazioni proprio dalla crisi di Wall Street. Sempre che sia all’altezza di farlo.