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venerdì 23 novembre 2007

Morire di disoccupazione è l'ennesima morte bianca

Forse la vita di Paolo, 45 anni, con moglie e un figlio diciottenne, che è morto ieri a Genova poteva essere risparmiata: la depressione che lo ha ucciso nella vana attesa di un posto di lavoro gli poteva essere evitata.
La sua è, a tutti gli effetti, l’ennesima morte bianca.
Checché ne dicano i tanti pseudoesperti di cose economiche, sempre pronti a teorizzare il taglio dell’occupazione o la sua esasperata flessibilità per una malintesa efficienza del sistema, il lavoro è un diritto inalienabile dell’uomo a cui nessuno deve essere costretto a rinunciare, neanche quando le condizioni del mercato sono avverse e ne impediscano la piena attuazione.
A chiunque deve essere data la possibilità di poter impegnare le proprie capacità in un’attività che lo metta a contatto con gli altri e che gli permetta di vivere in modo dignitoso!
E’ questa la tutela sociale del lavoro che trova nella Costituzione la sua più importante garanzia.
Il lavoro ha un valore etico in sé, è il collante della società, è il motore dell’economia, è la linfa che la fa crescere e progredire.
Mai e poi mai deve essere considerata una merce: le persone non sono cose!
Se le mettiamo da parte soltanto perché possono essere sostituite con macchine o computer oppure perché altri lavoratori costano di meno ci macchiamo di una colpa gravissima e dalle conseguenze incalcolabili poiché miniamo alla radice l’edificio della convivenza sociale.
A nessuno può essere rubato il futuro: se precarizziamo il rapporto di lavoro precarizziamo la famiglia e la società nel suo complesso.
Che il singolo imprenditore cerchi di ottimizzare la combinazione dei fattori produttivi e utilizzi il lavoro alla stregua degli altri non può costituire per lo Stato l’alibi per disinteressarsi di un tema sociale così delicato.
L’intervento pubblico è necessario proprio per risolvere le distorsioni del cosiddetto libero mercato: lo Stato si deve fare carico di trovare un’occupazione ed una remunerazione dignitosa a tutti i cittadini, compresi i più deboli e i meno favoriti.
Essere espulso dal mondo del lavoro e non potervi più rientrare è la condanna peggiore che possa essere comminata ad un individuo.
Non c’è globalizzazione o tigre asiatica che possano consentire di fare scempio della dignità dell’uomo.
Manca il lavoro per tutti? Bene, bisogna inventarlo: cioè creare le condizioni perché un’occupazione dignitosa sia assicurata a tutti.
E’ questo uno dei compiti più importanti e difficili che lo Stato deve compiutamente svolgere. Insieme alla sanità, la giustizia, l’ordine pubblico, l’istruzione, ecc., il lavoro è un bisogno collettivo forse il più importante tra i diritti-doveri del cittadino.
Nessuno nega la possibilità per i più meritevoli di conseguire i risultati migliori e scalare la piramide sociale ma tutti devono essere messi nelle condizioni di poter vivere decorosamente con il proprio impegno personale.
E’ in fondo questo che stabilisce la nostra carta costituzionale quando afferma, non a caso all'art. 1, che la nostra è una repubblica fondata sul lavoro.
Il lavoro è il nostro principale diritto di cittadinanza.
Forse tanti giovani che si rifugiano nella violenza domenicale degli stadi per scaricare il proprio male di vivere o si perdono nei paradisi artificiali dello sballo potrebbero essere recuperati ad una dimensione sociale meno pericolosa e depressa.
Come dice il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, don Gino Rigoldi, molti ultrà assaltano le caserme della polizia per sentirsi protagonisti, essendo esclusi dalla vita sociale e politica.
Se pure l’impegno dello Stato in questo campo potesse salvare soltanto alcuni di essi, sarebbe comunque benemerito e da rinnovare con sempre maggiori risorse.
Perché non c’è ideologia e teoria economica che possa impedire all’individuo la realizzazione anche solo di una parte della propria identità attraverso il lavoro.