A margine della sentenza della Consulta che dà piena ragione a Giorgio Napolitano nello scontro da lui ingaggiato con la Procura di Palermo, Eugenio Scalfari se la prende di nuovo con quella fetta di società civile, costituita da uomini politici, organi d'informazione e soprattutto insigni giuristi che nei mesi scorsi si sono maggiormente spesi affinché da parte del Presidente della Repubblica finalmente derivasse un atto di ravvedimento e di ragionevolezza costituzionale rinunciando alla clamorosa iniziativa intrapresa nel luglio scorso, ovvero sollevare un inaudito conflitto di attribuzione contro i pm palermitani per la nota vicenda delle intercettazioni di sue telefonate con l'indagato Nicola Mancino, nel pieno di una scottante indagine giudiziaria tesa a mettere in luce le contiguità esistenti tra apparati deviati dello Stato e Cosa nostra, all'origine del biennio stragista 1992-1993.
Notte fonda della nostra storia repubblicana (è sempre il caso di ricordare a chi finge di ignorarlo per intrupparsi in una anacronistica e veramente poco appassionante battaglia ideologica volta a proclamare il potere assoluto del capo dello Stato!), sfociata negli assassini a due mesi di distanza di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e delle loro scorte e dei successivi massacri di Roma, Firenze, Milano della primavera-estate del '93.
Una stagione eversiva alla cui definizione storica e giudiziaria a vent'anni di distanza, in un Paese normale, tutte le forze sane dovrebbero contribuire con sincerità, all'unisono e senza risparmio di energie, innanzitutto per dare giustizia alle vittime e costruire finalmente un futuro di trasparenza e legalità per l'intera comunità nazionale.
Men che meno, frapporre, anzi, millantare presunte prerogative costituzionali del primo cittadino la cui asserita tutela viene inevitabilmente ad intralciare il regolare svolgimento dell'attività giudiziaria in uno scenario così fosco.
Il verdetto della Corte Costituzionale dopo cinque mesi, facendo prevalere l'interesse del Presidente della Repubblica a vedere distrutte le sue intercettazioni indirette con Mancino, finisce per mettere il Quirinale al di sopra della legge, attribuendogli una supremazia giuridica che lo Stato di diritto non può evidentemente contemplare.
Bisognerà aspettare le motivazioni di questa sentenza ma già da adesso si può affermare che, per effetto di essa, la stessa Costituzione e l'equilibrio dei poteri ne risultano gravemente deformati, destrutturati, forse irrimediabilmente compromessi.
Quella pronunciata dalla Consulta è una sentenza che contraddice se stessa, la sua natura e la sua funzione di organo costituzionale, e che ha molto a che fare con una scelta contingente di convenienza politica, come paventava l'estate scorsa il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky proprio dalle colonne di Repubblica.
Eppure il fondatore di questo giornale, rimasto sordo a tutte le numerosissime argomentazioni che da settori importanti e autorevoli dell'opinione pubblica sono state avanzate per consigliare prudenza a Napolitano e tirando dritto su una impervia e pericolosa china, così ha avuto l'ardire di commentare:
"Quello compiuto da alcune forze politiche e mediatiche non è dunque un errore commesso in buona fede ma una consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni. Sembra quasi un fascismo di sinistra."
Ecco, le sue sono esattamente le parole che un vecchio fascistone userebbe, preferibilmente dopo una mimetizzazione di lungo corso nel nebulosissimo e non identificato liberalismo di sinistra, per celebrare l'incoronazione, per volontà di Dio, del monarca assoluto Re Giorgio I da parte di una Corte Costituzionale ormai autodegradatasi a tappezzeria quirinalizia.
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