giovedì 11 luglio 2013

La nuova notte della repubblica

Il governo Letta è una contraddizione in termini.
Ormai dopo tre mesi, questa sembra la scoperta dell'acqua calda. 
Ciò nonostante, grazie al tam tam dei media, poteva fino all'altro ieri vantare un grosso avvenire dietro le spalle, in forza del mandato eccezionale ricevuto dal Presidente della Repubblica, chiamato a fare gli straordinari dopo che una legge elettorale palesemente incostituzionale ci ha restituito un Parlamento senza alcuna maggioranza politica.
Tecnicamente, è stato il governo del tirare a campare per non tirare le cuoia, come avrebbe suggerito Giulio Andreotti: l'ammucchiata Pd-Pdl si è caratterizzata per la necessità di gestire il potere senza però concretamente esercitarlo, cioè senza incidere nel tessuto sociale del Paese.
La situazione economica è difficilissima, non parliamo di quella finanziaria, conseguenza della rigidità dell'euro che di fatto impedisce qualsiasi seria politica fiscale: senza leva monetaria che accompagni la politica fiscale, non ci sono gradi di libertà per qualsiasi governo varchi la stanza dei bottoni.
L'unica cosa che sarebbe possibile attuare (e non è da poco!) è la legge sul conflitto di interessi, una nuova legge elettorale, il riassetto del sistema radiotelevisivo, la riforma della pubblica amministrazione, una nuova politica industriale, il riassetto del sistema bancario italiano, la riforma della sanità, della scuola, del finanziamento della politica, degli ordini professionali, dell'assetto istituzionale che, senza la necessità di abolire le province, ridefinisca funzioni, capacità di spesa e risorse degli enti locali, in un quadro di riorganizzazione dell'intera macchina pubblica.
Alcune di queste riforme sono a costo zero, altre consentirebbero un notevole risparmio di spesa che potrebbe poi essere destinata a quegli interventi strutturali che richiedono necessariamente nuovi investimenti. 
Ma allora perché il governo Letta non le mette perlomeno in cantiere? 
Semplice. Pd e Pdl esprimono proprio quella classe dirigente che ha plasmato così male il nostro Paese in questi ultimi vent'anni e che, pertanto, non ha la minima intenzione di cambiare, non fosse altro perché entrerebbe in conflitto d'interessi con se stessa. 
D'altra parte, a livello europeo, essa è priva di qualsiasi credibilità, sia per il livello di corruzione raggiunto che per l'estrema inaffidabilità mostrata in più occasioni, a cui fa paradossalmente da contraltare una totale subordinazione ai diktat USA, come la recente vicenda degli F35 e la posizione del Ministero degli Esteri rispetto al caso Morales-Snowden dimostrano inoppugnabilmente.
Vicenda sconcertante quella dei cacciabombardieri americani, affrontata dalla nostra classe di governo con il pragmatismo levantino dei mercanti d'armi, piuttosto che, come sarebbe stato lecito attendersi, con la consapevolezza e la fermezza di uomini dello stato che hanno sinceramente a cuore gli interessi della comunità nazionale.
Impossibile quindi che l'inesperto Enrico Letta possa mai recarsi  a Bruxelles a battere i pugni al tavolo della Merkel, senza fare il bis dell'accoglienza, eufemisticamente goliardica, riservata due anni fa dal duo Merkel-Sarkozy a Silvio Berlusconi.
Ci sono quindi abbastanza motivi per cui il suo esecutivo sia diventato, senza che i media lo abbiano fatto notare al grande pubblico, un governo balneare, il dicastero delle mille proroghe: dall'Imu, all'Iva, agli F35, è tutto un rinvio... aspettando Godot.
L'unico provvedimento preso, il cosiddetto decreto del fare, è un tale guazzabuglio giuridico, un tale sconsiderato affastellamento di norme le più disparate, come il M5S aveva da subito denunciato, che bisognerà al più presto rimetterci mano. 
E' di ieri la notizia che le norme sul cosiddetto wi-fi libero, la liberalizzazione della banda larga attraverso l'estensione dei nodi di accesso pubblici, contrariamente alle intenzioni dello stesso governo, sono un tale pasticcio da frenarne lo sviluppo. A dimostrazione che anche sul piano squisitamente operativo e persino nella scelta dei suoi collaboratori, il governo del grande inciucio non smentisce la propria vocazione maggioritaria all'inettitudine.
Ma adesso ci si è messo pure Berlusconi in persona che, mandando avanti i suoi uomini alla Camera ed al Senato, ha di fatto aperto la crisi di governo, pur non avendola finora voluta formalizzare. 
Il casus belli, ancora una volta, i suoi problemi personali: ovvero la decisione della Corte di Cassazione di calendarizzare per il 30 luglio il processo Mediaset che, al secondo grado di giudizio, ha già condannato Berlusconi per frode fiscale a 4 anni di reclusione con l'interdizione per 5 anni dai pubblici uffici.
Se la corte non dovesse rilevare le eccezioni formali che l'imputato ricorrente ha avanzato (cosa che appare ai più esperti abbastanza scontata), la sentenza contro Berlusconi diverrebbe definitiva.
Platealmente, Berlusconi rovescia così sul piano istituzionale una sua privatissima questione, a suggello del profilo di un personaggio in cui l'aspetto pubblico è indissolubilmente intrecciato con quello personale, tanto da non potere distinguere il politico dall'uomo d'affari da sempre ai ferri corti con la giustizia.  
Andare a dibattere se la scesa in campo di Berlusconi nel '94 sia stata conseguenza delle sue urgenze giudiziarie o viceversa, questione che inopinatamente ancora anima dopo vent'anni gli ascari berlusconiani nei talk show televisivi, è un po' come azzuffarsi se sia nato prima l'uovo o la gallina...
Il fatto è che, con le dichiarazioni dei suoi uomini ( e delle sue donne!) di questi due giorni ma soprattutto con la sospensione dei lavori parlamentari pretesa ieri con il vergognoso voto del Pd, in una sorta di impossibile sciopero del Parlamento contro la Magistratura (scontro di potere di inaudita e pericolosissima portata eversiva), la divisione dei poteri si è andata a fare benedire.
Comunque vada, l'intimidazione che ha subito la Corte di Cassazione da parte di un Parlamento che si è prestato, con la complicità del Pd (è bene sottolinearlo!), a fungere da scudo istituzionale per proteggere gli interessi privati del condannato Silvio Berlusconi, produce inesorabilmente uno strappo tremendo al nostro assetto costituzionale e non può in nessun modo essere ignorato, condizionando pesantemente e per la prima volta in forma così pubblica e solenne, un altro potere dello Stato nell'esercizio delle sue prerogative costituzionali.
Le parole di oggi del capogruppo del Pdl Renato Schifani, già presidente del Senato (quindi seconda carica dello Stato) che minaccia l'uscita dal governo in caso di una decisione della Cassazione contraria agli interessi di Berlusconi (decisione della Suprema Corte che, si badi bene, è solo di legittimità, non potendo esprimere la stessa una pronuncia di merito che è già avvenuta e che, in quanto formatasi nei due precedenti livelli di giudizio, è da considerarsi, nel merito, definitiva) rappresentano un ulteriore attacco alle Istituzioni di portata platealmente deflagrante a cui il Capo dello Stato non può restare in alcun modo indifferente.
Ma prima ancora è il Pd che deve prendere atto di questa gravissima situazione, tirandosi fuori, innanzitutto per sensibilità e decoro istituzionale, da questo gioco al massacro che sta facendo collassare, prima che la sua rappresentanza democratica, lo stato di diritto.
Anche perché qualunque sia il pronunciamento della Cassazione, esso avrà a questo punto una portata dirompente. 
Se verrà confermata la condanna d'appello contro l'imputato Berlusconi, ne discenderà la crisi di governo; se la cancellerà, dimostrerà comunque la propria gravissima ed incostituzionale subalternità ai diktat di un pluriinquisito. 
Comunque la si pensi, l'uomo di Arcore, vero deus ex machina del governo presieduto da Enrico Letta, ha ipso facto messo in crisi la Corte di Cassazione.
La condizione drammatica in cui la Cassazione si trova ad operare è quindi conseguenza di un putsch mediatico orchestrato dai luogotenenti di Berlusconi, che intende, neppure più velatamente, piegare a proprio vantaggio l'opera della magistratura.
E tutto ciò senza la necessità di usare le maniere forti ma con lo stesso intento prevaricatore.
Solo il Pd, giocando d'anticipo ed aprendo formalmente la crisi di governo, poiché il gioco di Berlusconi è ormai scoperto e di palese violazione delle regole costituzionali (mai s'è visto prima d'ora che la vita di un governo dipenda dal destino giudiziario privato di un singolo parlamentare, peraltro non investito di alcun incarico governativo), può mettere fine a questa deriva da incubo.
Che dovrebbe indurre anche la Procura della Repubblica di Roma ad intervenire, avendo la sfida berlusconiana oltrepassato ogni limite.
Infine, una domanda a Guglielmo Epifani, segretario pro tempore del Pd.
Ma come è possibile restare ancora un attimo a reggere il moccolo al Cavaliere in questa tremenda notte delle Istituzioni?

Nessun commento: