Purtroppo sono cronaca di questi giorni le rinnovate gravissime minacce rivolte dal boss mafioso Totò Riina contro il pm Nino Di Matteo, magistrato che indaga sulla trattativa Stato-mafia.
Minacce sempre più gravi e circostanziate tali da premurare i responsabili dell'ordine pubblico ad elevare al massimo livello operativo la protezione di questo magistrato a cui viene caldamente suggerito di usare per gli spostamenti quotidiani non più la macchina blindata ma un Lince, un carro armato come quelli usati dai nostri soldati in Afganistan.
Palermo come Kabul, si direbbe.
Soltanto questa semplice ma paradossale analogia dovrebbe far riflettere tutti sulla drammaticità del momento mentre la magistratura, abbandonata dalla politica ad inseguire la legalità su un crinale sempre più insidioso, manda a processo pezzi dello Stato per venire a capo di quel patto scellerato che venne sancito vent'anni fa tra suoi apparati, più o meno deviati, e i boss mafiosi per fermarne l'azione stragista. Come non ricordare infatti gli assassini politici, la mattanza di Capaci e di via D'Amelio, le bombe di Roma, Firenze, Milano?
A parte la necessità di interrogarsi sul perché proprio adesso ci sia questa escalation di minacce da parte del boss mafioso di Corleone, che, al limite, dovrebbe essere contento che finalmente la giustizia italiana faccia piena luce su chi sia stata la sua controparte istituzionale di quella convergenza eversiva visto che, finora, a pagarne le conseguenze giudiziarie sono stati soltanto i boss di Cosa nostra, la domanda che scuote le coscienze e che inquieta i cittadini onesti, insieme al timore che Di Matteo non venga protetto abbastanza dallo Stato (anche semplicemente per carenza di risorse o per le possibili inefficienze dell'apparato di sicurezza), è un'altra ed è, se possibile, più allarmante.
Come mai il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di fronte all'inasprimento della sfida mafiosa contro uno dei magistrati di punta sul fronte della criminalità organizzata, non si è sentito in animo di pronunciare una parola, che sia una, di solidarietà e di conforto nei suo confronti?
Perché, nonostante siano arrivate, da più parti, pubbliche sollecitazioni in questo senso, particolarmente accorate e vibranti, colui che dovrebbe incarnare l'unità nazionale ed essere il primo tra i cittadini, ancor oggi non si sente in dovere di esprimere a nome del popolo italiano un gesto simbolico di apprezzamento, di stima e di vicinanza verso un magistrato così impegnato nella lotta alla mafia, fatto oggetto reiteratamente dell'intimidazione criminale?
Non vogliamo credere che, tra un monito e l'altro, nel suo irrituale protagonismo sulla scena politica, che molti autorevoli osservatori valutano da tempo oltre il tracciato costituzionale, il presidente della Repubblica non abbia trovato il tempo e la determinazione per fermarsi a riflettere in merito.
Disponibilità che pure ha mostrato nel sottoscrivere, nell'ambito del processo sulla Trattativa, una lettera indirizzata al Presidente della Corte d'Assise di Palermo tre settimane fa, nella quale, in qualità di teste ammesso a deporre sui contenuti di una missiva inviatagli dallo scomparso consulente giuridico Loris D'Ambrosio, sostiene di non avere nulla da riferire e quindi di voler evitare la testimonianza (benchè una successiva nota del Quirinale abbia smentito questa intenzione).
In una stagione politica così travagliata, non vorremmo che questa grave inadempienza di Napolitano, che vorremmo attribuire a sciatteria dei suoi uffici, si riverberi negativamente sulla Presidenza della Repubblica, proprio mentre a Milano un sit-in di cittadini davanti all'aula bunker dove è in corso un'udienza di quel processo (che deve registrare l'assenza forzata di Di Matteo proprio per motivi di sicurezza), esprime a questo valoroso magistrato quella solidarietà che dal Colle finora è clamorosamente mancata.
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