Gli sviluppi della vicenda Alitalia sono per certi versi esemplari per comprendere fino in fondo come la nostra classe imprenditoriale concepisca due variabili fondamentali del liberismo economico: il rischio d'impresa ed il profitto.
Per i nostri veteroimprenditori, quest’ultimo viene prima di ogni altra cosa ed a questo principio generale la società civile deve ciecamente sottostare.
Il primo, cioè la particolare alea a cui ogni attività umana è soggetta ed alla quale, pertanto, neppure l’attività dell’imprenditore può sfuggire, deve essere azzerato. In uno slogan: minimo rischio, massimo profitto.
Il problema è che il profitto imprenditoriale trova la sua giustificazione teorica proprio nel fatto che, una volta remunerati tutti gli altri fattori della produzione, è necessario ricompensare l’imprenditore del particolare rischio sopportato per aver messo in piedi l’attività aziendale.
In altri termini la spiegazione del profitto è fatta risalire dalla scienza economica proprio alla caratteristica rischiosità dell’attività imprenditoriale: no risk, no profit.
La nostra classe imprenditoriale, nella sua componente più nobile è cresciuta invece nella convinzione che, forse per diritto di stirpe, deve massimizzare il profitto senza rischiare quasi nulla. Non è un caso che il capitalismo di casa nostra è un capitalismo familiare, premoderno, fondato sull’idea che l’imprenditorialità si trasmetta di generazione in generazione, senza nessun merito individuale, semplicemente per diritto ereditario.
Purtroppo questo è il desolante ritratto dei nostri capitani d’industria, con poche eccezioni, finchè non scendiamo di livello dimensionale ed andiamo a studiare la piccola e media impresa.
Qui le cose cambiano radicalmente perché, generalmente, la piccola e media impresa è abituata storicamente a fare da sola ed a confrontarsi senza rete sul mercato, rischiando in diretta e non in differita come troppo spesso fa la grande industria familistica.
Pertanto, pur se culturalmente la piccola media impresa mostra spesso di non esserne consapevole, di fatto gli interessi delle sorelle maggiori non hanno nulla a che vedere con quelli del nostro vasto e capillare tessuto imprenditoriale di realtà dimensionalmente più piccole ma molto più vivaci e dinamiche.
Il governo Berlusconi fa propri gli interessi della grande impresa che, a chiacchiere, invoca il libero mercato ma, nei fatti, chiede continuamente l’intervento pubblico per azzerare il proprio rischio d’investimento; lo slogan è semplice: privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Ecco che i cosiddetti capitani coraggiosi, così felicemente battezzati da un nostro famoso politico del PD ai tempi della famigerata scalata Telecom, sono molto più prudenti di quanto la politica (di destra ma anche di sinistra!) non voglia far credere.
Entrare in Alitalia? Certo, ma a patto che ne vengano scorporate tutte le passività e che rimanga per i difficili palati dei nostri finanzieri d'assalto soltanto il succo: naturalmente, per gli enormi debiti ci penserà lo Stato, cioè tutti i contribuenti a cui, continuamente, si ripete invece che, per mille altre necessità, non c’è un euro in cassa.
Eugenio Scalfari definisce la soluzione trovata per Alitalia un imbroglio, ancora più subdolo perché viene camuffato da intervento teso a difenderne l’italianità, cosa che invece è nei fatti già data per persa: “[…] sarà una svendita preceduta da un imbroglio. Le perdite allo Stato (cioè a tutti noi) i profitti ai privati, nazionali e stranieri. Un imbroglio che camuffa una svendita.”
Una lezione per tutti: per risanare la cosa pubblica, nulla di più sbagliato che affidarsi ad un grande imprenditore.
Per i nostri veteroimprenditori, quest’ultimo viene prima di ogni altra cosa ed a questo principio generale la società civile deve ciecamente sottostare.
Il primo, cioè la particolare alea a cui ogni attività umana è soggetta ed alla quale, pertanto, neppure l’attività dell’imprenditore può sfuggire, deve essere azzerato. In uno slogan: minimo rischio, massimo profitto.
Il problema è che il profitto imprenditoriale trova la sua giustificazione teorica proprio nel fatto che, una volta remunerati tutti gli altri fattori della produzione, è necessario ricompensare l’imprenditore del particolare rischio sopportato per aver messo in piedi l’attività aziendale.
In altri termini la spiegazione del profitto è fatta risalire dalla scienza economica proprio alla caratteristica rischiosità dell’attività imprenditoriale: no risk, no profit.
La nostra classe imprenditoriale, nella sua componente più nobile è cresciuta invece nella convinzione che, forse per diritto di stirpe, deve massimizzare il profitto senza rischiare quasi nulla. Non è un caso che il capitalismo di casa nostra è un capitalismo familiare, premoderno, fondato sull’idea che l’imprenditorialità si trasmetta di generazione in generazione, senza nessun merito individuale, semplicemente per diritto ereditario.
Purtroppo questo è il desolante ritratto dei nostri capitani d’industria, con poche eccezioni, finchè non scendiamo di livello dimensionale ed andiamo a studiare la piccola e media impresa.
Qui le cose cambiano radicalmente perché, generalmente, la piccola e media impresa è abituata storicamente a fare da sola ed a confrontarsi senza rete sul mercato, rischiando in diretta e non in differita come troppo spesso fa la grande industria familistica.
Pertanto, pur se culturalmente la piccola media impresa mostra spesso di non esserne consapevole, di fatto gli interessi delle sorelle maggiori non hanno nulla a che vedere con quelli del nostro vasto e capillare tessuto imprenditoriale di realtà dimensionalmente più piccole ma molto più vivaci e dinamiche.
Il governo Berlusconi fa propri gli interessi della grande impresa che, a chiacchiere, invoca il libero mercato ma, nei fatti, chiede continuamente l’intervento pubblico per azzerare il proprio rischio d’investimento; lo slogan è semplice: privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Ecco che i cosiddetti capitani coraggiosi, così felicemente battezzati da un nostro famoso politico del PD ai tempi della famigerata scalata Telecom, sono molto più prudenti di quanto la politica (di destra ma anche di sinistra!) non voglia far credere.
Entrare in Alitalia? Certo, ma a patto che ne vengano scorporate tutte le passività e che rimanga per i difficili palati dei nostri finanzieri d'assalto soltanto il succo: naturalmente, per gli enormi debiti ci penserà lo Stato, cioè tutti i contribuenti a cui, continuamente, si ripete invece che, per mille altre necessità, non c’è un euro in cassa.
Eugenio Scalfari definisce la soluzione trovata per Alitalia un imbroglio, ancora più subdolo perché viene camuffato da intervento teso a difenderne l’italianità, cosa che invece è nei fatti già data per persa: “[…] sarà una svendita preceduta da un imbroglio. Le perdite allo Stato (cioè a tutti noi) i profitti ai privati, nazionali e stranieri. Un imbroglio che camuffa una svendita.”
Una lezione per tutti: per risanare la cosa pubblica, nulla di più sbagliato che affidarsi ad un grande imprenditore.
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