Si fa sempre più fatica a parlare di politica.
Perché quello che ci propinano da settimane i media, è tutt’altro.
Perché quello che ci propinano da settimane i media, è tutt’altro.
E' un teatrino da basso impero dove il concetto stesso di democrazia viene stravolto sotto una cappa di segreti inconfessabili, avvertimenti, ricatti incrociati, e tutto imputridisce.
All’indomani del vertice con l’esterrefatto premier spagnolo Zapatero e di quell’incredibile conferenza stampa conclusiva, si è detto che Silvio Berlusconi appare più debole anche sulla scena internazionale proprio perché ricattabile.
All’indomani del vertice con l’esterrefatto premier spagnolo Zapatero e di quell’incredibile conferenza stampa conclusiva, si è detto che Silvio Berlusconi appare più debole anche sulla scena internazionale proprio perché ricattabile.
Ma si tende a sottovalutare quale formidabile potere di ricatto lui stesso possieda e che lo rende di fatto inamovibile, anche qualora la Corte Costituzionale dovesse bocciare il lodo Alfano.
La nomina di Vittorio Feltri alla direzione del giornale di famiglia, Il Giornale, nel luglio scorso ha segnato per il Cavaliere l’inizio della campagna di autunno, con i risultati che tutti possono vedere: dopo il fango gettato addosso a Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, giornale della Conferenza episcopale, è stata la volta di Gianfranco Fini, destinatario di un chiaro avvertimento rivoltogli direttamente dalla prima firma del quotidiano a cui l’ex leader di AN non ha potuto che reagire con la querela.
Ma se il Pdl brucia, il Pd agonizza.
La campagna congressuale volge alla stretta finale con la già scontata affermazione di Pierluigi Bersani, candidato di Massimo D’Alema.
Dario Franceschini, segretario uscente, non ha i numeri per mettere in discussione questo risultato, con buona pace dell’ipersconfitto Walter Veltroni. E Ignazio Marino, l’unico dei tre che vanta una vera piattaforma politica, è troppo in ritardo per poter impensierire i duellanti.
La cosa paradossale è, comunque, che la lotta tra i due vada avanti senza nessuna reale divergenza politica: non li contrappongono differenze di programma; il loro antagonismo è alimentato solo dall’appartenenza a cordate diverse.
Ci si prepara dunque a celebrare un congresso senza affrontare nessuno dei nodi politici che hanno provocato il declino elettorale in questi anni dei Ds prima e del Pd poi.
La nomina di Vittorio Feltri alla direzione del giornale di famiglia, Il Giornale, nel luglio scorso ha segnato per il Cavaliere l’inizio della campagna di autunno, con i risultati che tutti possono vedere: dopo il fango gettato addosso a Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, giornale della Conferenza episcopale, è stata la volta di Gianfranco Fini, destinatario di un chiaro avvertimento rivoltogli direttamente dalla prima firma del quotidiano a cui l’ex leader di AN non ha potuto che reagire con la querela.
Ma se il Pdl brucia, il Pd agonizza.
La campagna congressuale volge alla stretta finale con la già scontata affermazione di Pierluigi Bersani, candidato di Massimo D’Alema.
Dario Franceschini, segretario uscente, non ha i numeri per mettere in discussione questo risultato, con buona pace dell’ipersconfitto Walter Veltroni. E Ignazio Marino, l’unico dei tre che vanta una vera piattaforma politica, è troppo in ritardo per poter impensierire i duellanti.
La cosa paradossale è, comunque, che la lotta tra i due vada avanti senza nessuna reale divergenza politica: non li contrappongono differenze di programma; il loro antagonismo è alimentato solo dall’appartenenza a cordate diverse.
Ci si prepara dunque a celebrare un congresso senza affrontare nessuno dei nodi politici che hanno provocato il declino elettorale in questi anni dei Ds prima e del Pd poi.
Abbandonata in partenza l’ipotesi di proporre un modello di sviluppo per la società italiana alternativo a quello del centrodestra, ci si scontra solo su uomini e organigrammi.
Uno scempio del genere non era mai accaduto a sinistra: è il segno più evidente che tra il Partito democratico e il partito-azienda del Cavaliere, anche in questo caso, ci sono affinità sorprendenti.
Purtroppo, la vita istituzionale del nostro paese ormai va avanti non per la spinta delle grandi tradizioni culturali e politiche sorte con la Resistenza ma sulla base di un gioco al massacro costruito su personalismi e torbide trame.
Il comune cittadino viene abbandonato a se stesso, stritolato nelle sue aspettative e nei suoi problemi quotidiani da una lotta di potere che di democratico mantiene solo le forme.
Uno scempio del genere non era mai accaduto a sinistra: è il segno più evidente che tra il Partito democratico e il partito-azienda del Cavaliere, anche in questo caso, ci sono affinità sorprendenti.
Purtroppo, la vita istituzionale del nostro paese ormai va avanti non per la spinta delle grandi tradizioni culturali e politiche sorte con la Resistenza ma sulla base di un gioco al massacro costruito su personalismi e torbide trame.
Il comune cittadino viene abbandonato a se stesso, stritolato nelle sue aspettative e nei suoi problemi quotidiani da una lotta di potere che di democratico mantiene solo le forme.
Che una democrazia sospesa come la nostra possa poi essere di modello per altri paesi è una pietosa bugia.
Dispiace molto che altri sei soldati italiani abbiano dovuto sacrificare la propria vita soltanto per consentire all’Italia di accomodarsi su uno strapuntino al tavolo dei Grandi.
Alle loro famiglie va tutto il nostro cordoglio e la solidarietà.
E’ giunto, però, il momento che la Casta, al gran completo, si assuma tutta la responsabilità della spedizione militare in Afghanistan e, quindi, delle conseguenze nefaste di quella decisione.
Il partito di Repubblica, quello che detta di giorno in giorno la linea politica del Pd, si schiera apertamente per il proseguimento militare della missione italiana; il suo ideologo, Eugenio Scalfari, nel suo ultimo editoriale, la giustifica con una serie di argomentazioni che definire bislacche è eufemistico. Ripetute, però, ossessivamente dai media grazie al sostegno politico che ne danno all'unisono centrodestra e centrosinistra, appaiono ad un’opinione pubblica rassegnata come inscalfibili certezze.
Ne passiamo in rassegna qualcuna.
Per Scalfari discutere se quella afgana sia per l’Italia ancora una missione di pace o di guerra è solo un "rebus lessicale" (sic!), perché "le truppe Usa e Nato hanno lo stesso compito di combattere i terroristi e aiutare i civili a rientrare nella normalità della vita quotidiana. Una duplice missione di guerra e di pace. Che cosa c’è da chiarire?".
C’è solo da chiarire che quando le truppe Usa e quelle Nato agiscono sullo stesso terreno, non è facile distinguere chi opera in missione di pace e chi fa la guerra guerreggiata.
I bombardamenti dall’alto che colpiscono la popolazione civile sono un intervento di guerra o di pace?
Enduring Freedom degli Usa e Peace Keeping della Nato sono, si o no, due facce della stessa medaglia?
Già basterebbe questo a demolire l’utilità di un intervento che, nella confusione di sigle tra Nato e Usa, ci mette contro proprio la popolazione civile, che in linea di principio dovremmo soccorrere: una missione di pace che si appoggia sulle truppe Usa diventa giocoforza una missione di guerra.
Ma per la nostra Costituzione, questo non è possibile: o la costituzione materiale di Scalfari è un’altra?
Seconda leggenda metropolitana: discutere del ritiro delle truppe espone i nostri soldati ad un rischio maggiore perché i terroristi concentrerebbero gli attacchi su di loro.
Forse che i nostri 21 ragazzi caduti negli ultimi 5 anni su quelle montagne sono stati protetti dal fatto che l’Italia sarebbe rimasta a tempo indeterminato in quell’inferno?
Ci ammaestra poi Scalfari: "Il ritiro d’una forza militare da un teatro di operazioni non si annuncia mai; se si deve fare si fa e lo si dice dopo che il ritiro è avvenuto".
A parte il fatto che ciò non è vero (basti pensare il ritiro preannunciato da mesi dal presidente Barack Obama dei marines dall’Iraq), non bisognerebbe discuterne in qualche forma e sede ufficiale (non alla buvette di Montecitorio!)?
Ma Scalfari si avventura sconsideratamente in un terreno minato quando accosta la strage di Kabul con l’attentato di Via Rasella del 1944 ed il successivo eccidio delle Fosse Ardeatine.
Ma Scalfari si avventura sconsideratamente in un terreno minato quando accosta la strage di Kabul con l’attentato di Via Rasella del 1944 ed il successivo eccidio delle Fosse Ardeatine.
E’ chiaro che non deve essersi reso conto che per difendere i bombardamenti Usa "mirati a colpire covi di terroristi" ma che causano molte vittime nella popolazione civile, negando che siano una forma di rappresaglia come lo fu, orrenda, quella nazifascista, egli avvicina incautamente i talebani ai nostri partigiani.
Se il decano dei nostri giornalisti prende un simile abbaglio, assiso comodamente alla scrivania del suo studio, è comprensibile che la martoriata popolazione civile afgana, sotto i martellanti bombardamenti Usa e Nato e le continue incursioni dei Talebani, possa essere un po' più confusa e vedere negli occupanti occidentali i principali nemici da cui difendersi.
E così i nostri ragazzi si ritrovano ad essere vittime inconsapevoli di un gioco pericolosissimo e molto più grande di loro.
Sarebbe il caso di andar via al più presto da quell’inferno difendendo, nei fatti e non con ipocrita retorica, i nostri militari e le loro famiglie.
A meno che non si convenga con Benito Mussolini quando, entrando in guerra nel giugno del 1940 a fianco di Hitler, dichiarò: "Mi servono alcune migliaia di morti per sedermi con pari dignità al tavolo della pace".
Se il decano dei nostri giornalisti prende un simile abbaglio, assiso comodamente alla scrivania del suo studio, è comprensibile che la martoriata popolazione civile afgana, sotto i martellanti bombardamenti Usa e Nato e le continue incursioni dei Talebani, possa essere un po' più confusa e vedere negli occupanti occidentali i principali nemici da cui difendersi.
E così i nostri ragazzi si ritrovano ad essere vittime inconsapevoli di un gioco pericolosissimo e molto più grande di loro.
Sarebbe il caso di andar via al più presto da quell’inferno difendendo, nei fatti e non con ipocrita retorica, i nostri militari e le loro famiglie.
A meno che non si convenga con Benito Mussolini quando, entrando in guerra nel giugno del 1940 a fianco di Hitler, dichiarò: "Mi servono alcune migliaia di morti per sedermi con pari dignità al tavolo della pace".
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