L'operazione dell'abrogazione di fatto dell'articolo 18 è l'obiettivo non dichiarato del governo di Mr. Monti sin dal suo insediamento, naturalmente insieme alla riforma delle pensioni che ha imposto ai lavoratori italiani le condizioni più severe d'Europa.
Dopo il flop di liberalizzazioni e semplificazioni ampiamente prevedibile poiché serviva soltanto ad alzare una cortina fumogena sulla vera strategia dei tecnici di far pagare la crisi ai soliti noti, lavoratori e pensionati, ecco che il governo Monti sta tentando il colpaccio con una operazione tutta politica e di chiara intimidazione sociale.
La portata di una riforma del mercato del lavoro che sostituisce per il dipendente il reintegro nel posto di lavoro con un modesto indennizzo economico (che ammonterà soltanto dalle 15 alle 27 mensilità) infatti avrà, come si è più volte detto, uno scarso impatto quanto a cifre in gioco (con oltre 7 milioni di occupati in aziende private con personale sopra le15 unità, soltanto 300-500 vertenze si aprono all'anno invocando l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori).
La posta in gioco è squisitamente politica e dagli effetti socialmente pesanti: in questo modo nessun lavoratore, pur con un contratto a tempo indeterminato, è più garantito di poter restare anche un solo giorno in più sul proprio posto di lavoro.
Basterà che egli faccia uno sciopero di troppo o che, come rappresentante sindacale o responsabile della sicurezza, pretenda il rispetto delle norme previste dai contratti o dal Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, e il suo destino sarà segnato: con un semplice inesistente addebito disciplinare sarà possibile cacciarlo via senza tanti complimenti.
Perché secondo quei geni del governo tecnico, l'imprenditore che voglia licenziare qualcuno lo potrà fare senza nessuna difficoltà, basta che abbia la semplice accortezza di non esplicitare il suo retropensiero, cioè i motivi discriminatori alla base del suo provvedimento.
Ad esempio, come titolare di un'impresa di 20 dipendenti potrei puntare a candidarmi alle prossime elezioni amministrative, chiedendo paternalisticamente il voto ai miei dipendenti e alle loro famiglie.
Se qualcuno si rifiutasse di farlo o, peggio, a spoglio avvenuto, mi rendessi conto che molti di loro non mi hanno dato retta, potrei, diciamo così, vendicarmi, procedere al licenziamento individuale delle sospette teste calde, contestando inesistenti addebiti disciplinari.
E anche se il giudice dovesse dar loro ragione me la caverei con un risarcimento minimo ma la soddisfazione, in tempi duri come questi, di averli trascinati, con tutta la famiglia, in mezzo ad una strada.
Una mostruosità giuridica che in un colpo solo fa strame di buona parte del diritto del lavoro e della nostra stessa Costituzione.
E il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, anche in questa occasione interpretando in modo completamente improprio il suo ruolo di arbitro, è intervenuto a gamba tesa mentre era ancora in corso il confronto del governo con le parti sociali dichiarando che le misure finora prese "sono dure ma ineludibili" imponendo di fatto a CGIL e Partito Democratico di inghiottire il rospo dei licenziamenti facili.
Ci si chiede se sia costituzionalmente corretto, dopo aver messo già in piedi un esecutivo che risponde soltanto a lui, che il primo cittadino della repubblica possa scendere nella battaglia politica in modo tanto pervasivo: errare è umano ma perseverare...
Infine la Fornero, pardon il ministro Fornero, quello delle lacrime di coccodrillo versate appena dopo aver annunciato a milioni di pensionati indigenti il mancato adeguamento all'inflazione dei loro miseri vitalizi, ha mostrato in queste settimane tutto il suo disprezzo per i lavoratori italiani con una serie di uscite astiose che ne denunciano i limiti culturali e l'inadeguatezza caratteriale.
Oggettivamente un ministro del lavoro, in tempi così tragici per tanti italiani, non si può permettere di dire a un gruppo di giovani precarie, in occasione dell'8 marzo, che "l'Italia è un Paese ricco di contraddizioni, che ha il sole per 9 mesi l'anno e che con un reddito base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro».
Né, a margine di uno degli incontri con i sindacati, affermare che "È chiaro che se uno comincia a dire no, perché noi dovremmo mettere lì una paccata di miliardi e poi dire voi diteci di sì. No, non si fa così".
Adesso ci aspettiamo da quello che resta del Partito Democratico una netta dissociazione dall'accelerazione impressa dalla premiata ditta Monti&Fornero&Passera all'abrogazione dell'articolo 18: il Paese (non solo la sinistra) si attende, a questo punto, un colpo di reni.
Ma già il nipotino di Gianni Letta, vicesegretario del PD, recentemente sorto agli onori della cronaca parlamentare per il pizzino fatto recapitare al banco del governo, si affretta a dire che il suo partito comunque voterà la riforma.
E' chiaro che, ostaggio di Napolitano e dei centristi, il Partito Democratico si sta giocando in queste ore la sua residua credibilità, proprio mentre sta scoprendo di essere caduto in una trappola mortale, se non nel farlo nascere, nel continuare ad appoggiare il governo Monti, quello che sta togliendo ai poveri per dare ancora di più ai ricchi.
Ma se crolla il Pd insieme alle sue contraddizioni, anche la strada del governo dei bocconiani paradossalmente è segnata.
E c'è qualcuno ad Arcore che già si sta sfregando le mani.