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domenica 19 febbraio 2012

E Walter Veltroni getta a mare pure l'articolo 18!

Che Walter Veltroni sia una spina nel fianco del PD è noto da tempo.
Che le sue posizioni ormai non abbiano più niente a che fare non solo con la sinistra ma, in generale, con il pensiero socialdemocratico è dimostrato da mille episodi, a partire dalla sua gravissima e inoppugnabile responsabilità nella caduta del governo Prodi nel 2008 e dalla vittoria sul piatto d'argento che offrì a Silvio Berlusconi con la 'vocazione maggioritaria del Pd' che fece implodere in pochi giorni la coalizione di centrosinistra.
Ma si ricordano pure il suo sogno nel cassetto  dell'incarico da conferire in una futuribile sua squadra di governo alla moglie di Berlusconi, Veronica Lario; la strenua tenacia con cui strinse un patto elettorale con i radicali; l'addirittura folgorante ammirazione per Massimo Calearo, presidente di Federmeccanica, che volle in lista a tutti  i costi con il risultato che questi nel 2009, appena un anno dopo la sua nomina a deputato nel Pd, lasciò il partito dichiarando di non essere mai stato di sinistra. E nel famoso voto di sfiducia al governo Berlusconi il 14 dicembre 2010, fece addirittura compagnia a Scilipoti nella pattuglia dei pseudo Responsabili per sostenere il Cavaliere.
E' un fatto che quando Veltroni decise di dimettersi da segretario il 17 febbraio 2009, a seguito dell'ennesimo rovescio elettorale, nessuno lo rimpianse neppure per un istante.
Anzi, non furono pochi quelli che gli rimproverarono di non aver fatto seguire alle parole i fatti, mantenendo la promessa di recarsi in Africa a dare sollievo alle popolazioni flagellate dalla povertà e dall'Aids.
Così, ormai sono anni, ce lo ritroviamo a Roma, dentro il Partito democratico a seminar zizzania con posizioni di destra, spesso ultraconservatrici.
Che quindi anche sul tentativo del governo Monti di abolire l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, abbia deciso di lasciargli carta bianca, nessuno se ne può meravigliare.
Sentite cosa risponde a Curzio Maltese nell'intervista su Repubblica di oggi che gli chiede se non sia eccessivo definire riformismo la politica del preside della Bocconi:
"No. Sono bastati tre mesi per capire che non si tornerà indietro. Circola nel Pd, ancor più nel Pdl, l'idea che questo sia solo un governo d'emergenza, una parentesi dopo la quale si tornerà ai riti e ai giochi della seconda repubblica o peggio della prima. Qualcuno dà giudizi tali da rischiare il paradosso di consegnare al centro o al nuovo centro destra il lavoro del governo. È un errore grave. Questo governo tecnico ha fatto in tre mesi più di quanto governi politici abbiano fatto in anni. Ha dimostrato non solo di voler risanare i conti, ma di voler cambiare molto del paese e vi sta riuscendo, con il consenso dei cittadini e dell'opinione pubblica internazionale. La copertina di Time o l'ovazione al Parlamento europeo sono un tributo ad un paese che solo qualche mese fa era guidato da Berlusconi e deriso".
Poi Curzio Maltese gli chiede di esplicitare il suo pensiero circa la posizione del governo sull'articolo 18 e così replica:
"Sono d'accordo col non fermarsi di fronte ai santuari del no che hanno paralizzato l'Italia per decenni. Il nostro è un paese rissoso e immobile e perciò a rischio. Credo che finora il governo Monti stia realizzando una sintesi fra il rigore dei governi Ciampi e Amato e il riformismo del primo governo Prodi".
E al giornalista che lo invita a non essere reticente, se ne esce fuori con una delle sue mitiche suggestioni:
"Totem e tabù si intitolava un libro di Freud. Ed è perfetto per definire gran parte del discorso pubblico in Italia. Bisogna cambiare un mercato del lavoro che continua a emarginare drammaticamente i giovani, i precari, le donne e il Sud. Ci vogliono più diritti per chi non ne ha nessuno. Questa è oggi una vera battaglia di sinistra".
Se l'ex segretario del Partito democratico dice cose del genere, senza una pubblica abiura o perlomeno la reprimenda dei vertici del partito, è la prova provata che il mondo del lavoro è ormai abbandonato a se stesso, con i politici del finto bipolarismo all'italiana pronti a girare le spalle e ad abbandonare la nave in piena tempesta.
E' utile tenerlo a mente per quando, prima o poi, la Casta chiederà a lavoratori e pensionati il voto in nome del Pd. 


domenica 2 novembre 2008

Una nuova opposizione in difesa della democrazia

Le manifestazioni di questi giorni contro la legge 133, la controriforma Gelmini che dissimula il taglio di ben 8 miliardi di euro dietro grembiulini e voti in condotta, confermano che il nostro Paese sta tracimando dall’alveo della democrazia verso una terra ignota, sconosciuta ai più, se non altro per motivi anagrafici.
Come battezzarla è questione che non ci appassiona più di tanto perché, a furia di domandarci se sia stato superato o meno il punto di non ritorno, ci stiamo dimenticando che cos’è veramente una democrazia.
Sicuramente non è democratico svuotare il Parlamento dei suoi poteri riducendolo a semplice organismo che trasforma in legge la volontà del premier e del suo direttorio.
L’abuso della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia costringe senatori e deputati, non dimentichiamoci eletti sulla base di liste bloccate in disprezzo della sovranità popolare, a votare senza neanche poter alzare lo sguardo sul capo del governo che assume le sue decisioni lontano da occhi indiscreti, forse da una delle sue infinite dimore.
Così un tema così cruciale per la società italiana come quello della scuola e dell’università, per definizione trasversale ai gruppi ed alle categorie di appartenenza, viene lasciato esclusivamente alle forbici del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, senza che semplicemente se ne possa discutere, imponendo la tirannia del voto di maggioranza e dando in pasto ai mass media l’immagine edulcorata di una finta maestrina che, con l’inflessibilità della principiante proiettata di punto in bianco sulla poltrona più alta del ministero della pubblica istruzione, di fronte alla protesta montante in ogni angolo della penisola riesce solamente a dire: Io non li capisco.
Nello stesso modo, da problema squisitamente politico l’indignazione sociale contro i tagli di spesa, che oggi colpiscono l’istruzione ma che domani colpiranno altri settori della vita sociale, viene convenientemente trasformata dal governo in questione di ordine pubblico, usando toni minacciosi ed ultimativi che nessuna tardiva smentita può servire a cancellare.
Tanto più che vengono pronunciati dal premier in persona, cioè da colui che si è fatto confezionare su misura l’immunità delle alte cariche e che nel contempo prosegue una sua personalissima tenzone contro quella parte di magistratura così orgogliosa della propria indipendenza ed autonomia.
Lacunoso e parziale è stata poi il resoconto fatto dal sottosegretario all’Interno venerdì alla Camera sugli scontri di Piazza Navona, nel cuore politico dello Stato, a due passi dal Senato, in una zona perennemente presidiata dalle forze dell’ordine.
Scontri che hanno visto tra i protagonisti elementi di destra che, dopo essersi schierati in falangi con spranghe, cinghie e tirapugni, spuntati fuori chissà come e perché da un camion giunto lì indisturbato, hanno seminato il terrore prendendo di mira manifestanti in erba, sotto gli occhi increduli di docenti e genitori che invano invocavano il pronto intervento delle forze dell’ordine.
Invece di dare dettagliate e puntuali spiegazioni sul perché di taluni comportamenti omissivi della polizia nel corso della mattinata che, nei fatti, hanno permesso agli aggressori di agire a lungo indisturbati, nonché della insolita e strana familiarità che alcuni elementi del cosiddetto Blocco studentesco, formazione della destra neofascista, mostravano con alcuni celerini, fino al punto da essere chiamati per nome, la relazione presentata alla Camera si preoccupa solo di precisare che gli scontri sarebbero stati provocati dai collettivi di sinistra e che la polizia avrebbe agito con prudenza ed equilibrio.
A parte il fatto che nessuna spiegazione convincente viene data su come tanto armamentario sia potuto penetrare fino al cuore della manifestazione mentre gli "studenti di sinistra" reagivano tirando contro le falangi tutto ciò che potevano, sedie, bottiglie e tavolini, sconcerta che il ministero dell’Interno, sulla base di una ricostruzione palesemente frammentaria ed incompleta, anticipi una lettura politica dei fatti, addossando arbitrariamente ai gruppi studenteschi di opposizione la responsabilità di quanto accaduto.
Così lasciando intendere che i ragazzi di destra sarebbero state le vittime di quegli episodi, nonostante l’evidenza di foto e filmati in rete dimostri che questi erano arrivati in piazza con pessime intenzioni, visto l’arsenale di armi improprie tirate giù dal camion.
Inquieta, cioè, che invece di fare effettiva chiarezza e diradare eventuali dubbi sull’operato delle forze dell’ordine, il governo si preoccupi prioritariamente di scagionare gli estremisti armati accreditando integralmente la loro versione di comodo che contrasta radicalmente anche soltanto con la cronologia degli accadimenti, poiché numerose testimonianze fanno risalire le prime aggressioni di tali gruppi di facinorosi ai danni degli studenti medi alle ore 11 circa, cioè almeno un’ora prima dell’impatto diretto tra le opposte fazioni, che la polizia comunque non ha impedito.
L'inviato Curzio Maltese, testimone di alcuni episodi, ad un certo punto così racconta ai lettori di Repubblica: "E’ quasi mezzogiorno, una ventina di caschi neri rimane isolata dagli altri, negli scontri. Per riunirsi ai camerati compie un’azione singolare, esce dal lato di piazza Navona, attraversa bastoni alla mano il cordone di polizia, indisturbato, e rientra in piazza da via Agonale. Decido di seguirli ma vengo fermato da un poliziotto. «Lei dove va?». Realizzo di essere sprovvisto di spranga, quindi sospetto. Mentre controlla il tesserino da giornalista, osservo che sono appena passati in venti. La battuta del poliziotto è memorabile: «Non li abbiamo notati»".

Data la straordinarietà della situazione che il Paese sta vivendo da mesi e che di giorno in giorno si va approfondendo, è arrivato il momento per l’opposizione di recuperare un minimo di coerenza interna, rinunciando ai propri privilegi di casta per intraprendere una lotta sincera in difesa dei cittadini, facendo proprie molte delle battaglie che la società civile, i ragazzi di Beppe Grillo in testa, da anni segnala invano alla politica.
Il premier lo ha fatto capire chiaramente: i numeri ci consentono di governare anche contro l’opinione pubblica; per cinque anni non è più questione di maggioranze silenziose o rumorose; l’opposizione è avvertita.
Perché se in modo inquietante il Piano di rinascita democratica è tornato così attuale, come ammette senza remore il suo ideatore, l’ancora temibile Licio Gelli, addirittura in procinto di calcare la scena mediatica con un proprio programma televisivo, non è pensabile continuare con un leader del Pd che finora ha saputo costruire solo un’opposizione di facciata, aizzandosi contro il dissenso interno e provocando grande malumore tra gli alleati, senza tuttavia riuscire ad evitare il muro contro muro con il centrodestra e la feroce continua derisione di Silvio Berlusconi.
Massimo D’Alema lo invita pubblicamente, in un’intervista a Repubblica, a rompere gli indugi ed a darsi una mossa per rifondare l’opposizione sulla base di un nuovo progetto comune.
Sommessamente, però, ci chiediamo: si può essere un leader per tutte le stagioni?
Walter Veltroni aveva fatto una scommessa durante il governo Prodi, puntando tutto il suo prestigio personale sul dialogo con Berlusconi.
L’ha persa clamorosamente: la sconfitta elettorale, il lodo Alfano, la legge 133 ce lo dicono in modo inoppugnabile.
Ne prenda atto e passi il testimone. Ormai non è più questione neppure di buona volontà: avete visto come si è risolta la grande manifestazione del 25 ottobre? Un buco nell’acqua.
Immaginare di continuare così fino alle Europee del 2009 sarebbe veramente da irresponsabili, non solo per il Partito democratico ma per l’Italia tutta.