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domenica 7 febbraio 2010

La Casta demolisce lo stato sociale a pancia piena

La situazione economica italiana si fa di giorno in giorno più difficile ma la televisione dipinge un quadro tutto sommato rassicurante.
La disoccupazione sfiora ormai il 10%, in giro ci sono solo fabbriche che chiudono, pure il terziario scricchiola sotto i colpi di una recessione che ha inaridito le fonti di reddito per decine di milioni di persone.
Il deficit pubblico è di nuovo fuori controllo, il debito pubblico ha raggiunto il livello più alto di sempre, il 120% del PIL, ovvero 1.800 miliardi di euro: una cifra stratosferica.
Qualcuno si consola pensando che se Atene piange, Sparta non ride: perché la Grecia è a rischio default finanziario, la Spagna si dibatte in grave difficoltà, il Portogallo è alle corde.
Ma subito dopo c'è proprio l’Italia di Berlusconi, che fa finta di niente anche se non naviga in acque tranquille. A peggiorare il quadro, la politica deflazionista del ministro Tremonti che finisce per amplificare il ciclo economico recessivo, ampliando la portata della crisi.

Emblematico è il taglio alla scuola che, spacciato sui media per riforma epocale, mette le mani in tasca agli insegnanti già maltrattati e vilipesi, riducendone migliaia alla canna del gas.
Tutto ciò, senza che sulla stampa se ne faccia il minimo cenno.
Operai, insegnanti e buon parte della classe media vengono inesorabilmente trascinati nell’abisso della disperazione e della miseria, mentre la Casta si occupa a tempo pieno di ben altre faccende.
La fotografia simbolo di questo difficile passaggio è stata scattata di fronte a Montecitorio pochi giorni fa, quando i dipendenti sardi dell’ALCOA, multinazionale dell’alluminio, approdati in continente, protestavano contro la chiusura del loro stabilimento supplicando l’intervento del governo, mentre nel Palazzo la Casta discuteva, imperturbabile, di LEGITTIMO IMPEDIMENTO!
Ma che razza di paese è quello in cui un’oligarchia parassitaria vive alla grande, facendo finta di niente, mentre buona parte della popolazione affronta in solitudine i morsi di una crisi di sistema, di cui non è dato vedere la fine?
Se dal PDL, il partito-azienda del Cavaliere, non ci si può aspettare nulla di buono, fa cadere le braccia l’assoluta insipienza di un Partito Democratico che assiste impassibile alla destrutturazione dello stato sociale, senza muovere un dito.
Dopo aver girato la testa dall’altra parte sui tragici fatti di Rosarno, dove si è passati in poche ore da un vergognoso regime di schiavitù a scellerate azioni di pulizia etnica contro gli immigrati, il PD ciurla nel manico di fronte alla vertenza Fiat, alla vendita di Telecom agli spagnoli, alla decapitazione di scuola e università, all’assoluta mancanza di una politica industriale da parte del governo di centrodestra.
Ma alza la voce per sostenere l’Alta velocità in Val di Susa: ovvero accetta di tagliare i soldi a scuola e università pur di non far mancare risorse per la TAV.

Chissà se tra vent’anni ed un sicuro scempio ambientale, le mozzarelle (come direbbe Beppe Grillo) potranno viaggiare veramente a 300 chilometri all’ora!
Bersani farfuglia senza convinzione anacoluti di cui non è più in grado di spiegare il senso: eppure dovrebbe aver capito la lezione della Puglia, dove la gente ha sbattuto la porta in faccia al satrapo D’Alema, pervicace assertore che la politica sia in fondo un’eterna partita a scacchi.
La vittoria di Niki Vendola alle primarie democratiche dimostra una volta di più che, nonostante la sua intelligenza, Max D'Alema è il politico più perdente che la sinistra italiana possa annoverare da cinquant’anni a questa parte, meritevole di un posto nel consiglio di amministrazione di Mediaset, piuttosto che di un seggio in Parlamento.
Non a caso è stato nominato, subito dopo lo schiaffo pugliese e con i voti determinanti del centrodestra, presidente del comitato di controllo sui servizi segreti: il massimo traguardo per il Rasputin di Gallipoli.
Per chiudere in bellezza, ecco cosa proponeva lo chef quella mattina in Parlamento per il pranzo della nostra Casta, come sappiamo impegnatissima a legiferare sul legittimo impedimento del premier, mentre lì davanti al freddo i manifestanti mettevano sì e no sotto i denti un panino:

Antipasti
Pesce spada in carpaccio sul letto di songino al pepe rosa € 3,32
Seppie stufate al prosecco con polentino al timo € 3,32

Primi del giorno
Tagliolini all’astice con julienne di zucchine € 3,32
Gnoccchetti di patate con gorgonzola e lamelle alle pere € 1,59

Secondi del giorno
Filetti di rombo al forno in crosta di mandorle € 5,20
Straccetti di manzo ai fughi porcini con riduzione all’aceto balsamico € 5,20
Spigolette di Orbetello alla griglia € 5,20
Lombatina di vitello ai ferri € 3,53

*: foto tratta da tg24.sky.it

domenica 4 ottobre 2009

Scudo fiscale: la Casta tutta sorregge Silvio Berlusconi

Il modo con cui gli ambienti del Quirinale si sono affrettati a giustificare l’immediata promulgazione del decreto legge che contiene le norme sullo scudo fiscale tradisce il grave imbarazzo di spiegare all’opinione pubblica il perché di un passaggio istituzionale così impopolare.
A fronte dei mille gravi rilievi di un provvedimento che, nonostante le migliori intenzioni, oggettivamente favorisce gli interessi della criminalità organizzata mentre fa a pugni con la nostra Costituzione, la risposta che discende dal Colle appare perlomeno insufficiente.
Basterebbe ascoltare l’intervista rilasciata dal magistrato Roberto Scarpinato, della DIA di Palermo, ai microfoni di RaiNews24, per farsene un’idea.
Sconcertano sia i cosiddetti motivi tecnici che avrebbero indotto il Capo dello Stato a non avere esitazioni nell’apporre la propria firma, sia l’argomentazione da questi espressa informalmente ad alcuni cittadini nel corso della visita di Stato in Basilicata, secondo cui, anche astenendosene in questa occasione, egli sarebbe stato comunque costretto a farlo successivamente, qualora le Camere avessero di nuovo licenziato lo stesso testo.
Ragionamento perlomeno bizzarro: è vero che il capo dello Stato non ha un diritto di veto sulle decisioni del Parlamento ma, per l’art. 74 della nostra Costituzione, "può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata".
Ritenere invece che, nel processo di formazione delle leggi, il Presidente della Repubblica sia solo un passacarte, questo sì è lesivo della sua dignità e delle sue prerogative.
Perciò, ha ancora una volta ragioni da vendere Antonio Di Pietro nel sostenere che, di fronte ad un provvedimento che sana comportamenti gravemente illeciti garantendo a coloro che se ne sono macchiati l’immunità e l’anonimato, Giorgio Napolitano avrebbe dovuto rinviare il testo di legge alle Camere, separando quindi la propria responsabilità formale da quella, politica, del Governo.
Così non è stato ma, in fondo, da questo presidente non ci si poteva attendere nulla di diverso. L’amara esperienza maturata dall’anno scorso con l’immediata promulgazione del lodo Alfano e, quest’anno, con il varo del pacchetto sicurezza, non lasciava adito a dubbi.
E’ convinzione da tempo maturata da alcuni osservatori che l’ex comunista Napolitano, nonostante il partito di Repubblica ne incensi quotidianamente l’opera, si collochi sul gradino più basso di un’ipotetica classifica degli inquilini del Quirinale. Il pur contestato Giovanni Leone, su cui si concentrarono a suo tempo sospetti e critiche anche ingenerose, fu almeno un fine giurista.

Ma, adesso, è tutta la Casta dei politici di Pdl, Lega, Udc e Pd ad essere messa sotto accusa.
La legge sullo scudo fiscale ha mostrato, inoppugnabilmente, l’assoluta inconsistenza dell’opposizione espressa dal Partito democratico: il decreto è passato con 270 sì contro 250 no.
Solo venti voti hanno, cioè, separato una maggioranza che sulla carta disponeva di ben altri numeri da una minoranza in cui si sono registrati addirittura 29 defezioni!
E non era una delle tante votazioni di commissione: il governo di centrodestra aveva posto la fiducia e, con l’eventuale bocciatura dello scudo fiscale, si sarebbe potuta sancire la fine dell’era berlusconiana e l’inizio di una stagione nuova per l’Italia.
Così non è stato, per colpa dei deputati di opposizione, 22 dei quali assenti tra le fila del Partito democratico.
Di fronte ad un passaggio istituzionale tanto delicato, che poteva rivelarsi storico, a nessuno doveva essere consentito di sottrarsi al solenne rito del voto; neppure per ordinari motivi di salute.
Infatti, l’unico motivo plausibile per cui chi rappresenta gli elettori può godere di una sin troppo sterminata serie di privilegi è forse proprio perché le sue sono specialissime funzioni, da esercitarsi anche in frangenti particolari.
E’ paradossale che mentre l’ineffabile ministro Brunetta escogita per i lavoratori italiani in malattia un istituto molto simile agli arresti domiciliari, i parlamentari si prendano il lusso di astenersi da una votazione importantissima, per la quale il Governo ha imposto persino il voto di fiducia, per motivi risibili: a causa di una banale febbriciattola o, peggio, per sottoporsi ad accertamenti clinici di routine o, peggio di peggio, per recarsi ad una conferenza.
Poche illusioni, è la Casta tutta a sorreggere il governo di Silvio Berlusconi.

lunedì 21 settembre 2009

Una domanda alla Casta: ancora quanti morti per l'Afghanistan?

Si fa sempre più fatica a parlare di politica.
Perché quello che ci propinano da settimane i media, è tutt’altro.
E' un teatrino da basso impero dove il concetto stesso di democrazia viene stravolto sotto una cappa di segreti inconfessabili, avvertimenti, ricatti incrociati, e tutto imputridisce.
All’indomani del vertice con l’esterrefatto premier spagnolo Zapatero e di quell’incredibile conferenza stampa conclusiva, si è detto che Silvio Berlusconi appare più debole anche sulla scena internazionale proprio perché ricattabile.
Ma si tende a sottovalutare quale formidabile potere di ricatto lui stesso possieda e che lo rende di fatto inamovibile, anche qualora la Corte Costituzionale dovesse bocciare il lodo Alfano.
La nomina di Vittorio Feltri alla direzione del giornale di famiglia, Il Giornale, nel luglio scorso ha segnato per il Cavaliere l’inizio della campagna di autunno, con i risultati che tutti possono vedere: dopo il fango gettato addosso a Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, giornale della Conferenza episcopale, è stata la volta di Gianfranco Fini, destinatario di un chiaro avvertimento rivoltogli direttamente dalla prima firma del quotidiano a cui l’ex leader di AN non ha potuto che reagire con la querela.
Ma se il Pdl brucia, il Pd agonizza.
La campagna congressuale volge alla stretta finale con la già scontata affermazione di Pierluigi Bersani, candidato di Massimo D’Alema.
Dario Franceschini, segretario uscente, non ha i numeri per mettere in discussione questo risultato, con buona pace dell’ipersconfitto Walter Veltroni. E Ignazio Marino, l’unico dei tre che vanta una vera piattaforma politica, è troppo in ritardo per poter impensierire i duellanti.
La cosa paradossale è, comunque, che la lotta tra i due vada avanti senza nessuna reale divergenza politica: non li contrappongono differenze di programma; il loro antagonismo è alimentato solo dall’appartenenza a cordate diverse.
Ci si prepara dunque a celebrare un congresso senza affrontare nessuno dei nodi politici che hanno provocato il declino elettorale in questi anni dei Ds prima e del Pd poi.
Abbandonata in partenza l’ipotesi di proporre un modello di sviluppo per la società italiana alternativo a quello del centrodestra, ci si scontra solo su uomini e organigrammi.
Uno scempio del genere non era mai accaduto a sinistra: è il segno più evidente che tra il Partito democratico e il partito-azienda del Cavaliere, anche in questo caso, ci sono affinità sorprendenti.
Purtroppo, la vita istituzionale del nostro paese ormai va avanti non per la spinta delle grandi tradizioni culturali e politiche sorte con la Resistenza ma sulla base di un gioco al massacro costruito su personalismi e torbide trame.
Il comune cittadino viene abbandonato a se stesso, stritolato nelle sue aspettative e nei suoi problemi quotidiani da una lotta di potere che di democratico mantiene solo le forme.

Che una democrazia sospesa come la nostra possa poi essere di modello per altri paesi è una pietosa bugia.
Dispiace molto che altri sei soldati italiani abbiano dovuto sacrificare la propria vita soltanto per consentire all’Italia di accomodarsi su uno strapuntino al tavolo dei Grandi.
Alle loro famiglie va tutto il nostro cordoglio e la solidarietà.
E’ giunto, però, il momento che la Casta, al gran completo, si assuma tutta la responsabilità della spedizione militare in Afghanistan e, quindi, delle conseguenze nefaste di quella decisione.

Il partito di Repubblica, quello che detta di giorno in giorno la linea politica del Pd, si schiera apertamente per il proseguimento militare della missione italiana; il suo ideologo, Eugenio Scalfari, nel suo ultimo editoriale, la giustifica con una serie di argomentazioni che definire bislacche è eufemistico. Ripetute, però, ossessivamente dai media grazie al sostegno politico che ne danno all'unisono centrodestra e centrosinistra, appaiono ad un’opinione pubblica rassegnata come inscalfibili certezze.
Ne passiamo in rassegna qualcuna.
Per Scalfari discutere se quella afgana sia per l’Italia ancora una missione di pace o di guerra è solo un "rebus lessicale" (sic!), perché "le truppe Usa e Nato hanno lo stesso compito di combattere i terroristi e aiutare i civili a rientrare nella normalità della vita quotidiana. Una duplice missione di guerra e di pace. Che cosa c’è da chiarire?".
C’è solo da chiarire che quando le truppe Usa e quelle Nato agiscono sullo stesso terreno, non è facile distinguere chi opera in missione di pace e chi fa la guerra guerreggiata.
I bombardamenti dall’alto che colpiscono la popolazione civile sono un intervento di guerra o di pace?
Enduring Freedom degli Usa e Peace Keeping della Nato sono, si o no, due facce della stessa medaglia?
Già basterebbe questo a demolire l’utilità di un intervento che, nella confusione di sigle tra Nato e Usa, ci mette contro proprio la popolazione civile, che in linea di principio dovremmo soccorrere: una missione di pace che si appoggia sulle truppe Usa diventa giocoforza una missione di guerra.
Ma per la nostra Costituzione, questo non è possibile: o la costituzione materiale di Scalfari è un’altra?

Seconda leggenda metropolitana: discutere del ritiro delle truppe espone i nostri soldati ad un rischio maggiore perché i terroristi concentrerebbero gli attacchi su di loro.
Forse che i nostri 21 ragazzi caduti negli ultimi 5 anni su quelle montagne sono stati protetti dal fatto che l’Italia sarebbe rimasta a tempo indeterminato in quell’inferno?
Ci ammaestra poi Scalfari: "Il ritiro d’una forza militare da un teatro di operazioni non si annuncia mai; se si deve fare si fa e lo si dice dopo che il ritiro è avvenuto".
A parte il fatto che ciò non è vero (basti pensare il ritiro preannunciato da mesi dal presidente Barack Obama dei marines dall’Iraq), non bisognerebbe discuterne in qualche forma e sede ufficiale (non alla buvette di Montecitorio!)?
Ma Scalfari si avventura sconsideratamente in un terreno minato quando accosta la strage di Kabul con l’attentato di Via Rasella del 1944 ed il successivo eccidio delle Fosse Ardeatine.
E’ chiaro che non deve essersi reso conto che per difendere i bombardamenti Usa "mirati a colpire covi di terroristi" ma che causano molte vittime nella popolazione civile, negando che siano una forma di rappresaglia come lo fu, orrenda, quella nazifascista, egli avvicina incautamente i talebani ai nostri partigiani.
Se il decano dei nostri giornalisti prende un simile abbaglio, assiso comodamente alla scrivania del suo studio, è comprensibile che la martoriata popolazione civile afgana, sotto i martellanti bombardamenti Usa e Nato e le continue incursioni dei Talebani, possa essere un po' più confusa e vedere negli occupanti occidentali i principali nemici da cui difendersi.
E così i nostri ragazzi si ritrovano ad essere vittime inconsapevoli di un gioco pericolosissimo e molto più grande di loro.
Sarebbe il caso di andar via al più presto da quell’inferno difendendo, nei fatti e non con ipocrita retorica, i nostri militari e le loro famiglie.
A meno che non si convenga con Benito Mussolini quando, entrando in guerra nel giugno del 1940 a fianco di Hitler, dichiarò: "Mi servono alcune migliaia di morti per sedermi con pari dignità al tavolo della pace".

lunedì 22 giugno 2009

Referendum 2009: PD e PDL affrontano un nuovo 8 settembre

I tre referendum sulla legge porcata, così cara al ministro leghista Calderoli, non sono passati: infatti, ad urne chiuse, si può dire che il quorum è rimasto distante anni luce. Solo il 20% dei votanti!
E’ questo l’unico risultato veramente interessante di questa tornata elettorale.
I tre referendum richiesti per rendere, se possibile, ancora peggiore la porcata sono stati giustamente azzerati dagli Italiani che non ne possono più di vedersi rifilare delle autentiche mostruosità giuridiche in nome di una governabilità che resta solo nelle finte intenzioni di coloro che propugnano da quindici anni il maggioritario.
Sistema elettorale che ha dimostrato in tutte le salse di non funzionare in Italia: non ha garantito la pretesa governabilità (mai la vita politica italiana è stata tanto tribolata come adesso); non ha prodotto il tanto auspicato ricambio della classe dirigente (ci troviamo come quindici anni fa, Bossi, Berlusconi e D’Alema); ha tolto la rappresentanza parlamentare ad ampi settori della società italiana; infine, ha generato una crescente sfiducia per la politica e per le istituzioni.
Con due dei tre referendum bocciati si voleva addirittura attribuire il premio di maggioranza non più alla coalizione ma al partito che avesse ottenuto più voti: un tentativo perverso di passare di colpo dall’attuale pessimo bipartitismo ad un ancora più inquietante monopartitismo imperfetto, il colpo di grazia alla nostra indifesa democrazia.
Erano schierati per il Sì, com’era prevedibile in un contesto ormai da basso impero, sia il Pdl che il Pd, due contenitori politici sempre più inguardabili ma sodali nell’obiettivo di demolire la nostra repubblica parlamentare, e i cosiddetti referendari, che escono allo scoperto solo per lanciare iniziative referendarie insulse: veri affossatori, con la loro condotta spregiudicata, dell’unico vero istituto di democrazia diretta che la Costituzione abbia riservato ai cittadini.
E’ mai possibile che gente come Mario Segni debba riporre le proprie fortune politiche semplicemente sullo sfruttamento su scala industriale dello strumento referendario?
La conclusione è che i due grandi partiti dai piedi d’argilla escono di nuovo battuti da questa domenica elettorale.
Al di là dell’esito dei ballottaggi, l’affuenza alle urne, così bassa persino dove è in palio la poltrona di sindaco, la dice lunga sulla sfiducia ormai generalizzata verso la classe politica nel suo insieme.
A chi in questi giorni evoca il 25 luglio del 1943 per assestare la spallata finale alla indicibile leadership di Silvio Berlusconi, suggeriamo di rileggere le successive cronache dell’8 settembre.
Perché la massiccia diserzione delle urne in questa fredda domenica estiva, non certo per andare al mare, è un gigantesco grido di indignazione che percorre l’intera penisola: Tutti a casa!

domenica 14 giugno 2009

Anche Scalfari perde la pazienza: Veltroni e D'Alema, go home!

In queste ultime ore, a dati elettorali ormai archiviati, tutti i commentatori si sono affrettati a scrivere il proprio pezzo, dimostrando una convergenza di opinioni persino sorprendente.
Il verdetto è stato unanime: gli elettori hanno bocciato entrambi i due colossi, Pdl e Pd.
Un’emorragia di voti che, in termini assoluti (le percentuali spesso travisano la realtà), raggiunge quasi i 3 milioni di consensi in meno per il Pdl e i 4 milioni addirittura per il Pd: una Waterloo.
A sinistra saremmo tentati di chiamarla Walterloo, data la pesante ipoteca dell’ex segretario Walter Veltroni sul risultato del Partito democratico, malgrado l’abilità con cui l’attuale leader Dario Franceschini si è mosso in questa campagna elettorale.
Il commento che più colpisce è quello domenicale di Eugenio Scalfari che oggi fa un’analisi impietosa dell’esito elettorale per il Partito democratico, di cui sembra rimasto l’unico vero ideologo, essendo tutti i suoi dirigenti affaccendati in liti da cortile.
Ma questa volta, abbandonati i toni conciliativi, spara a zero contro i maggiorenti del partito; ne citiamo il passo più significativo:
"Se l'opposizione non fosse così fortemente debilitata avremmo almeno un aggancio robusto per riportare ordine e chiarezza. Purtroppo anch'essa ha perso credibilità anche se la campagna elettorale condotta dal segretario Franceschini è riuscita almeno a contenere le perdite salvando il salvabile. Sono molti ora a chiedere in che modo si possa e si debba costruire un partito che ancora non c'è, che è ancora un'ipotesi di lavoro e fatica a decollare per debolezza dei motori e insufficiente portanza.
Ci sono almeno tre esigenze generalmente avvertite: la prima è quella di radicare il partito nel territorio, la seconda è di selezionare una classe dirigente nuova, la terza riguarda la vecchia nomenclatura composta da quelli che guidarono i vari spezzoni confluiti nel Pd. I membri di quella nomenclatura non sono affatto da ostracizzare; rappresentano tuttora un deposito di esperienze, memorie, valori. Ma dovrebbero riporre ambizioni e pretese rassegnandosi ad un ruolo che resta peraltro di notevole importanza: ruolo di padri e di zii, ruolo di saggezza e incoraggiamento, non di comando e di intervento.
Quando Veltroni si dimise, con lui fece un passo indietro l'intero vecchio gruppo dirigente e questo fu l'aspetto positivo di quella drammatica ma ormai necessaria decisione. Sembra tuttavia che ora quel collettivo passo indietro sia rimesso in discussione e si riaccendano tra gli zii sentimenti di rivalsa e nuovi fuochi di battaglia."
E conclude:
"Controvoglia non so, ma certo il tornare a gara di tutta la vecchia nomenclatura sbarra la strada al necessario rinnovamento e riaccende eterne dispute che un corpo sano e robusto potrebbe sopportare ma un corpo debilitato non tollera rischiando la sua stessa sopravvivenza."
Finalmente anche il fondatore di Repubblica lancia strali contro quella che da tempo chiamiamo la nomenklatura democratica, rea di farci vivere in questa tristissima condizione.
Quella in cui, per fare solo un esempio di stringente attualità, il Presidente del Consiglio denuncia pubblicamente l’esistenza un piano eversivo contro di lui e minaccia apertamente gli industriali di non fare pubblicità sui media cosiddetti disfattisti.
Tutto ciò mentre è in corso di approvazione in Parlamento il ddl sulle intercettazioni che non solo rende impraticabili le indagini della magistratura su gravissime fattispecie di reato ma che imbavaglia la stampa e, tanto per convincere i più scettici sull’instaurazione di un regime, cerca di normalizzare persino la rete impedendo la libertà di espressione in blog, social network e portali informativi, imponendo una serie di vincoli burocratici e di sanzioni pecuniarie, come se ne possono trovare solo nei sistemi autoritari.
Insomma, dopo aver depenalizzato il falso in bilancio e deresponsabilizzato sul piano penale le Alte cariche, diffamato con il ministro Brunetta i dipendenti pubblici, ridotta alla canna del gas la scuola, si cerca adesso di attaccare frontalmemente giornalisti e magistrati, mentre tutto attorno l’economia agonizza.
Che i vertici del Partito democratico, corresponsabili non fosse altro che per ignavia di questo stato di cose, debbano fare un passo indietro per dare vita, subito dopo la prossima domenica dei ballottaggi, ad un percorso congressuale rapido dove si discuta non più sulle persone ma finalmente di politica, sembra talmente scontato da sembrare una precisazione superflua.
Eppure, dell’auspicato passo indietro della vecchia nomenklatura non si può essere per niente certi: lo conferma Massimo D’Alema che, nella trasmissione In 1/2 ora ospite oggi dell'Annunziata, pur convenendo sulla necessità di andare al congresso quanto prima, si è mostrato piccato dell’invito del fondatore di Repubblica di limitarsi ad un’opera di saggezza e incoraggiamento.
Anzi, pur ribadendo di tirarsi fuori da una lotta al vertice, ha però voluto precisare: "Una candidatura come la mia avrebbe senso in una sorta di emergenza nazionale. Non credo, però, che siamo alla necessità di richiamare la vecchia guardia per salvare il salvabile".
Ottimista sulla situazione italiana o ai blocchi di partenza per aggiudicarsi di nuovo la leadership dei democratici, magari dopo uno scontro al calor bianco proprio con il mai rassegnato Veltroni?
Gli elettori del Pd hanno compreso da tempo che al peggio non c’è mai fine… si rassegni anche Scalfari!

lunedì 8 giugno 2009

E' la fine del bipartitismo: Pd e Pdl con le ossa rotte

La vera notizia di queste elezioni europee è che Pd e Pdl escono entrambi sconfitti.
Per il premier Berlusconi raccogliere un magro 35,3% quando sognava di varcare la soglia del 45% è una autentica figuraccia; tanto più se a ciò si aggiunge l’avanzata della Lega Nord al 10,2% che si conferma un alleato sempre più scomodo.
Sul fronte opposto, la contentezza di Franceschini per aver realizzato il 26,1% è surreale; certo poteva andare anche peggio, ma il disastro del Partito democratico è sotto gli occhi di tutti.
Sul piano personale, la sfida a distanza con il suo predecessore Walter Veltroni è vinta ma resta come magra consolazione.
Gli Italiani hanno bocciato questi due contenitori politici dove c’è tutto ed il contrario di tutto, tant’è vero che alla prova dei fatti Pd e Pdl si rassomigliano incredibilmente, al di là della diversa storia personale dei loro leader.
Quello che conforta è che, oltre lo scontato successo dell’Italia dei Valori e la meno prevedibile affermazione dell’Udc di Pierferdinando Casini, a sinistra del Partito democratico c’è un’area di consensi che sfiora il 7% e che, senza la miopia dei suoi gruppi dirigenti che fanno capo a Niki Vendola e Paolo Ferrero, avrebbe potuto contendere all’Italia dei Valori il ruolo di quarta forza politica italiana.
Segno che su questo terreno il lavoro da fare è ancora molto ma si può guardare al futuro con meno pessimismo.
Lo dimostrano, alle Amministrative, quelle che un tempo erano le regioni rosse, dove il Pd è costretto dal meccanismo elettorale a rinnegare il credo veltroniano di correre da solo: qui il Pd resiste meglio proprio perché propone candidature insieme alle altre forze di sinistra che a loro volta confermano i loro consensi.
Ma alle Europee, dove ognuno corre per sé, il partito di Franceschini è costretto a subire lo smacco del sorpasso da parte del Pdl sia in Umbria che nelle Marche.
E’ la dimostrazione che il Partito democratico nega se stesso quando si incaponisce col tagliare fuori i partiti di sinistra e puntare al bipartitismo: la sua politica nazionale è quindi interamente da riscrivere.
Basterà a convincere la sua nomenklatura radical chic a fare le valigie e tornarsene a casa lasciando il partito alla sua autentica anima popolare che, nelle sue differenti inclinazioni, scommette comunque in un percorso condiviso con la sinistra anche per salire a Palazzo Chigi?
PS: Grande soddisfazione per il notevole successo ottenuto da Luigi De Magistris nelle liste dell'Idv!

domenica 29 marzo 2009

Il Partito che non c'è, l'ennesima trovata berlusconiana

Malgrado i fuochi fatui del congresso di fondazione del PDL, tutti debitamente sponsorizzati dal padre padrone Silvio Berlusconi, il panorama politico italiano resta plumbeo.
Alleanza Nazionale si è sciolta nel partito di plastica Forza Italia, dimostrando che è priva di un vero collante ideologico che non sia la mera aspirazione piccolo borghese a stare sempre e comunque dalla parte del potere, soprattutto se esercitato in forme sbrigative e minacciose.
E’ nato il Partito che non c’è, che continua a non esistere, di cui si parla però ossessivamente a causa del persistere, come ha detto ai microfoni di Report il prof. EdoardoFleischner, di un monopolio privato di un’istituzione: il sistema dei media.
In campo avverso, il Partito democratico continua ad annaspare, difettando anch’esso dalla nascita di una qualche prospettiva ideale: senza un congresso ricostituente, il reggente Dario Franceschini si affida ad alcune mosse tattiche per mettere in difficoltà il premier ma, evidentemente, non può fare più di tanto.
Sempre meglio di Veltroni, tant’è che è risalito leggermente nei sondaggi, a dimostrazione che di fronte allo zero assoluto, anche un vecchio boyscout si dimostra un gigante.
A proposito, Walter Veltroni è completamente uscito di scena, dimenticato da tutti nel giro di poche settimane. Adesso ci aspettavamo di trovarlo in Africa a combattere l’AIDS, la malaria o la fame, il suo sogno nel cassetto, di cui in più di un’occasione si è vantato. Errore! Il cassetto resta chiuso: è stato visto di recente tra i vip di uno dei tanti eventi mondani della Capitale… forse ha perso la chiave!
La stampa quotidiana dorme sonni profondissimi: in calo verticale nelle vendite e nella raccolta pubblicitaria, fa di tutto per non disturbare il manovratore; il quale magari, preso per le buone, potrebbe finire pure per sganciare qualche soldo pubblico per non farla affondare.
Ecco perché si è trasformata all’unisono nell’Eco di Arcore. Complimenti!
In televisione, lotta titanica per Riccardo Iacona con Presa Diretta e Milena Gabanelli con Report di fronte alla resa generale dei media alla pax berlusconiana: sono gli unici giornalisti in grado di farci vedere e capire il mondo che ci circonda.
Così, dai tagli alla ricerca al problema degli immigrati, dalla manna pubblica sul comune di Catania alla genesi del monopolio mediatico di Silvio Berlusconi, abbiamo tratto la convinzione che l’informazione quotidiana che ci viene propinata dalle reti del duopolio faccia veramente schifo.
Milena Gabanelli, nella puntata di domenica scorsa, ha dimostrato scientificamente come il potere berlusconiano in campo televisivo sia da tempo al di sopra della legge, indifferente alle sentenze della Corte Costituzionale o della Corte di giustizia europea; e che quelli che oggi indossano la casacca del Partito democratico sono tra i maggiori responsabili di questo stato di cose.
Memorabile fu l’intervento di Luciano Violante alla Camera nel 2003 che dichiarò espressamente l’assoluta connivenza sin dal 1994 degli ex comunisti alle pretese del Cavaliere, alludendo ad una sorta di accordo, tanto segreto quanto inconfessabile, che garantì l’intangibilità delle televisioni berlusconiane.
Di fronte al naufragio morale prima che politico del centrosinistra, che dura ormai da almeno quindici anni, è chiaro che chiunque si fosse trovato al posto di Berlusconi avrebbe finito per diventare suo malgrado il mattatore della politica italiana.
Un’ultima osservazione: la politica economica del governo del PDL si sta rivelando di giorno in giorno sempre più disastrosa.
La crisi economica affonda nelle tasche degli Italiani e questi dilettanti al governo se ne vengono fuori tagliando la spesa in settori strategici come scuola, ricerca e università, dopo aver lasciato a secco le pantere della polizia: tagli impressionanti, per decine di migliaia di posti di lavoro in un contesto occupazionale già gravissimo.
Non solo, propongono il cosiddetto Piano casa, quanto di più improbabile e devastante si possa concepire in campo edilizio, un provvedimento che rappresenta un condono a 360 gradi a cui pure le regioni guidate dal centrodestra sembra si siano ribellate. Una sorta di laissez faire del mattone, i cui preoccupanti contorni restano fortunatamente per ora circoscritti alla fervida mente del Cavaliere.
Sta di fatto che tale misura viene sbandierata da Tremonti & c. come il principale stimolo per far ripartire l’economia: nulla di più lontano della realtà.
Non bisogna essere dei Nobel per capire che il rilancio italiano passa per i mercati internazionali, attraverso l’innovazione di prodotto e di processo che rivitalizzi la domanda estera; non dal mercato interno, per giunta attraverso lavoretti di edilizia privata affidati spesso a manovalanza irregolare, giusto per tacitare i palazzinari e qualcun altro che vuole chiudere il balcone o farsi il box auto con poca spesa.
Solo un’informazione deviata potrebbe accreditare come efficace un’idea così stravagante e velleitaria: ma leggendo i quotidiani, quasi tutti si sbilanciano in elogi sperticati alla grande trovata berlusconiana, l'ennesimo coniglio dal cilindro.
Purtroppo di trovata in trovata, di battuta in battuta, l'economia italiana si trascina sull’orlo di un baratro.
Non contenti, i due vuoti politici a perdere, PDL e PD, continuano a scherzare pure sul federalismo!
Durante la votazione alla Camera, il Partito democratico si è astenuto ancora una volta: in un sistema bipolare, per l’opposizione lasciar passare senza fare una piega un provvedimento del genere, che si preannuncia come l’ennesimo buco nero in campo costituzionale, è mostruosamente kafkiano
Ma quando ci libereremo finalmente di questo incubo?

giovedì 15 gennaio 2009

Un governo senza opposizione: il frutto avvelenato del bipolarismo all'italiana

Nel salotto televisivo di Ballarò, dove sfila la politica prêt à porter, per intenderci quella che dopo due ore di trasmissione regala al telespettatore solo sbadigli grazie ad un paludoso chiacchiericcio in cui affondano tutti, in primis i temi della puntata, martedì sera era di scena il leader del Partito democratico, Walter Veltroni.
Sparita la surreale spocchia di qualche mese fa, quando si inorgogliva elencando le sconfitte patite come fossero sue grandi invenzioni, sembrava un cane bastonato: con la solita litania del 25 ottobre ha rivendicato con scarsa convinzione il grande successo dell’adunata del Circo Massimo ma, è stato subito chiaro che, oltre all’entusiasmo, era a corto di argomenti per giustificare una leadership ormai giunta al capolinea.
Il simpatico Maurizio Crozza, nella sua arguta copertina, è riuscito a rinfacciargli in poche battute quello che nessuno tra gli intervenuti ha saputo fare.
Lo stesso pacatissimo Ferruccio De Bortoli (con tutt’altra nonchalance rispetto alla furia esibita nello stesso salotto nell’autunno 2007 allorché incalzava minaccioso l’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti), pur orchestrandogli a lungo una sviolinata quasi imbarazzante, dall’alto del suo atteggiamento protettivo, è stato comunque costretto a rivelargli, udite udite, che in Italia sembra non esserci un’opposizione.
Ma invece di andare a parare su problemi concreti, quelli quotidiani degli Italiani, la trasmissione si è andata inopinatamente ad infilare nel vicolo cieco delle alleanze del Pd, in particolare quella con l’Italia dei Valori di Antonio di Pietro.
Sul punto, tutti a fargli notare che quell’accordo elettorale è stato un grave errore, quasi Di Pietro, che della questione morale ha fatto una bandiera, fosse divenuto all'improvviso una cattiva compagnia.
Forse perché, di fronte ai tanti scandali che hanno visto coinvolti amministratori del Pd, parlare di questione morale a Veltroni è un po' come parlare di corda in casa dell’impiccato.
Sul punto, non a caso si è difeso dai rilievi del direttore di Panorama Belpietro, affermando che il Pd è meno peggio del Pdl: bella prova di orgoglio!
Purtroppo, il quadro politico italiano resta disperante: con un governo veramente modesto che, al massimo, sa gridare all’untore nei confronti degli immigrati ma, normalmente, non sa veramente dove sbattere la testa.
Diciamolo chiaramente: dopo sette messi di legislatura, la svolta economica del grande imprenditore si è rivelata un grande bluff.
La vicenda Cai – Alitalia oltre il danno (6 miliardi di euro??) aggiunge la beffa perché non salva neppure l’italianità della compagnia, ormai nell’orbita di Air France come titolano trionfalisticamente i giornali transalpini; è stata un ottimo affare solo per Colanino & c., finanziato obtorto collo dai contribuenti italiani.
La social card si è rivelata un mezzo boomerang per il grande creativo Giulio Tremonti e per i tanti malcapitati (sembra 200mila!) che si sono ritrovati alla cassa del supermercato dovendo lasciare lì i generi alimentari riposti nel carrello perché la tessera, nonostante tutti i requisiti di legge, non è mai stata caricata: neppure di quella miseria!
La crisi delle imprese si aggrava di giorno in giorno; l’occupazione crolla, gli stipendi non bastano più a coprire spesso neanche metà mese: ce n’è abbastanza per dipingere un quadro economico estremamente grave con un governo del tutto incapace di fronteggiarlo.
Sulla politica estera, poi, è meglio stendere un velo pietoso: il sostegno alla scelta del governo israeliano di bombardare Gaza è stato così cieco ed incondizionato da parte del ministro Frattini e di tutto il centrodestra che abbiamo dilapidato in poche settimane un inestimabile patrimonio di credibilità, frutto di un costante e attento lavoro diplomatico di oltre quarant’anni, che ci rendeva interlocutori privilegiati nel conflitto arabo-israeliano.
In un paese normale, a questo punto, l’opposizione alzerebbe la voce; in Italia, no, con un’oligarchia dentro il Partito democratico che pretende di capeggiare il grande malcontento popolare ma che, concretamente, è silenziosa e complice.
E’ questo il cosiddetto bipolarismo italiano, quello tanto vagheggiato da Walter Veltroni che, pur di realizzarlo a tambur battente, non ha esitato un attimo a sacrificare l’innovativa esperienza di governo di Romano Prodi.
L’unica cosa che ci ha regalato il bipolarismo Pd - Pdl è un frutto avvelenato: Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi che minaccia di fare scempio della Costituzione e del principio di divisione dei poteri ed un’opposizione penosamente in disarmo, che non si dà una mossa perché i suoi oligarchi sono convinti di restare conunque a galla.
Si può stare peggio di così?

mercoledì 31 dicembre 2008

La questione morale e l'inciucio di fatto

Il 2008 si conclude nella maniera più improbabile possibile: è il leader del Pd che adesso ha in mano il bandolo della matassa, ovvero la questione morale.
Deve stabilire lui se il Pd la ripudia ormai pubblicamente oppure se ne fa in qualche modo carico.
La scelta non è facile perché si tratta di dare il benservito ai tanti capibastone che al centro come in periferia propendono per una soluzione morbida: cioè, gattopardescamente, condannare il malaffare ma anche difendersi sul territorio dalle iniziative della magistratura bollate come debordanti.
Il risultato è come al solito un grande pasticcio che finisce per compromettere in modo definitivo l’immagine del partito che si pensava diverso almeno sotto il profilo della moralità pubblica.
Così non è anche perché Walter Veltroni non ha la forza per prendere una decisione né in un senso né in un altro.
E intanto resta in sella al Pd, unico suo punto di forza, proprio in ragione del fatto che garantisce lo status quo, salvo la licenza che gli è stata concessa di sparare genericamente a zero contro i collusi e i corrotti per poi dover prendersela a brutto muso con i magistrati che indagano sugli amministratori del Pd.
Avesse letto con attenzione l’ordinanza di scarcerazione del sindaco di Pescara si sarebbe reso conto che da parte della magistratura abruzzese non c’è stato alcun dietrofront e l’impianto accusatorio resta in piedi, anche se sono venute meno le ragioni degli arresti domiciliari ovvero il pericolo di inquinamento delle prove.
Vedere nel programma di Lucia Annunziata su Rai Tre In mezz'ora , Luciano Violante resistere come un azzeccagarbugli alle rimostranze di Paolo Flores D’Arcais sull’opacità del Pd in tema di giustizia, ripetendo fino allo sbadiglio che il tutto è causato da un problema di organizzazione interna al partito, ha letteralmente fatto cascare le braccia.
Se la stessa esistenza o sopravvivenza del Pd debba comportare tanta mangiata di polvere, francamente sarebbe meglio lasciar stare ed abbandonare subito un progetto così asfittico.
Anche perché tenere così a lungo sulla graticola l’opposizione proprio sulla malapolitica, tema che tradizionalmente ha fatto da spartiacque tra destra e sinistra, significa firmare una cambiale in bianco nei confronti del premier Berlusconi che può tranquillamente continuare a fare ciò che più gli aggrada da Palazzo Chigi senza subire gli attacchi dell’opposizione, in vergognosa ritirata.
E’ l’inciucio di fatto, senza bisogno di scomodare i politologi su una presunta apertura tra Pdl e Pd: in questo modo non c’è bisogno di alcun avvicinamento di posizioni, di nessun vertice tra Veltroni e Berlusconi!
Basta che il Partito democratico continui a languire nelle sue contraddizioni interne con il suo vertice in naftalina che, al più, è lasciato libero di organizzare una jam session tra le diverse anime del partito…
Quale migliore auspicio per il 2009 del governo di centrodestra?

sabato 27 dicembre 2008

Attenti al colpo di coda della casta!

La vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto il comune di Pescara sta diventando una ghiotta occasione per la classe politica al gran completo per sferrare forse il colpo definitivo contro la magistratura, ennesimo sintomo di una democrazia malata.
Sentire parlare Walter Veltroni, leader del Pd, come un qualsiasi esponente del Pdl prendendo a pretesto l’ordine di scarcerazione del sindaco Luciano D’Alfonso firmato dal gip, conferma le peggiori aspettative su questo ceto politico che ha per protagonisti personaggi che sarebbe opportuno tornassero ai loro impegni privati, data l’assoluta incapacità e la scarsa competenza finora dimostrate nella gestione della cosa pubblica.
Il fatto che il giudice delle indagini preliminari abbia rigettato le accuse del pubblico ministero dimostra, al contrario di ciò che va cianciando la casta, che la magistratura conserva buone capacità di autoemendarsi e che il giudice delle indagini preliminari è terzo rispetto al pubblico ministero; nell’ordinanza, poi, si parla pur sempre di possibile finanziamento illecito ai partiti!
Questi partiti, adesso, un qualche esame di coscienza se lo dovrebbero pure fare.
Che la questione morale dovrebbe essere da tempo al centro della riflessione se non del Pdl (impresa piuttosto improbabile) almeno del Partito democratico è cosa assolutamente scontata vista la scarsa qualità dei suoi rappresentanti, soprattutto al Sud, ma non solo.
Eppure così non è.
Adesso vediamo Veltroni, Violante parlare proprio come farebbero gli esponenti del Pdl, in una ritrovata sintonia proprio sull’unico tema, la giustizia, in cui i cittadini chiedono ai politici diversità di posizioni.
Mentre pretendono dai loro amministratori limpidezza di comportamenti ed un’azione di governo al di sopra di ogni sospetto.
Basta aver assistitito ad una sola puntata di Report, il bellissimo programma di Milena Gabanelli, per poter dichiarare ai quattro venti che gli Italiani non si meritano dei politici che, eccellendo di rado per moralità e abnegazione, sono comunque quasi indistintamente dei pessimi manager.
Se la nostra spesa pubblica è fuori controllo a fronte di servizi scadenti, la ragione va ricercata proprio in quel legame perverso e finora indissolubile tra politica ed economia che fa lievitare a dismisura i costi della macchina pubblica.
Basta osservare, trascurando gli incredibili tempi di realizzazione, quanto costa al contribuente italiano un chilometro di linea ferroviaria ad alta velocità rispetto all’onere sostenuto dal proprio vicino francese, spagnolo o tedesco: siamo al 200-300-500 % in più!
In un momento difficile come questo, una classe politica responsabile si interrogherebbe seriamente sul senso della sua missione, sugli errori compiuti, sulla pessima reputazione che ha ormai tra la gente.
Il Partito democratico si dovrebbe chiedere, ad esempio, come sia stato possibile fare naufragare così ingloriosamente la bella esperienza di Renato Soru a governatore della Sardegna invece di rumoreggiare seguendo inopinatamente il Pdl su una china pericolosissima di delegittimazione della magistratura e di completo isolamento dalla società civile.
Perché per un possibile errore (ancora tutto da verificare) compiuto dal pm di Pescara quanti giganteschi errori sono stati compiuti da una politica che ci ha ridotto nello stato miserevole in cui ci troviamo?
Possibile che la vicenda De Magistris non abbia insegnato proprio niente in casa democratica? Quale crollo di consensi ne è derivato?
E non è stato forse più riprovevole il pizzino fatto passare da La Torre a Bocchino in diretta televisiva?
E’ in quella circostanza, piuttosto che in occasione della vicenda pescarese, che Veltroni avrebbe dovuto dichiarare:
“Quello che è avvenuto è gravissimo. La vicenda ha dentro di sé gravi implicazioni che meritano una riflessione più compiuta che ci riserviamo di fare fin dalle prossime ore.”
Siamo alla fine dell’anno, ma la casta continua imperterrita a preoccuparsi solo di se stessa.

martedì 26 febbraio 2008

Campagna elettorale all'insegna della demagogia

Lo scontro tra PD e PDL in questa seconda settimana di campagna elettorale ci regala un’unica certezza: nel dopo elezioni, in caso di un quasi pareggio tra i due colossi politici, si andrebbe al governo di larghe intese.
Lo stesso Berlusconi, il meno interessato ad una soluzione del genere dato il vantaggio di cui è ancora accreditato dai sondaggi, lo lascia intendere senza tanti giri di parole.
La cosa non sorprende, come si è avuto già occasione di dire, però dovrebbe far arrabbiare i milioni di cittadini mandati alle urne già sapendo che con questa legge elettorale incostituzionale nella migliore delle ipotesi perdurerà lo stallo politico.
Che il bipolarismo italiano sia ridotto ad un cumulo di macerie è ormai un dato di fatto, a conferma dell’esistenza di una classe politica inetta che ci costringe a queste inutili elezioni, incurante dello sperpero di denaro pubblico che ciò comporta.
La cosiddetta semplificazione politica tanto caldeggiata sia da Berlusconi che da Veltroni finisce per negare quello che dovrebbe essere l’essenza stessa (l’unico pregio!) del principio maggioritario: una parte politica governa, l’altra fa opposizione. Se invece va a finire che governano tutte e due a braccetto vuol dire che la classe politica regna incontrastata su una società civile che ne subisce rassegnata lo strapotere.
Come a dire che dopo il ciclone dell’indignazione civile del 2007 (che i media tentano di esorcizzare chiamandola antipolitica), la Casta non solo non lascia ma tenta persino il raddoppio.
Beppe Grillo, alla vigilia del Monnezza Day a Napoli ha fotografato da par suo lo stato dei rapporti tra PD e PDL con una battuta sferzante: “Si inventano due formazioni: con lo stesso programma, si scopiazzano. Una presa per i fondelli…”.
Se poi consideriamo che la legge sulla par condicio è stata regolamentata per questa campagna elettorale in modo che lo spazio televisivo sia di fatto monopolizzato dai due maggiori partiti mentre agli altri restano le briciole, si capisce come si stia inscenando l’ennesima farsa sulla pelle dei cittadini e di ciò che resta della nostra democrazia rappresentativa.
Veltroni rinfaccia a Berlusconi di aver voluto trascinare il Paese alle urne prima di modificare il porcellum; ma non è stato forse il leader del PD, con Romano Prodi in carica, a ridare smalto alla politica del Cavaliere quando questi era ormai fuori gioco?
Quale governo, a parte la tragicomica vicenda Mastella, avrebbe potuto restare in piedi quando il leader della principale forza di maggioranza, invece di rinserrare i ranghi della coalizione, si mette a flirtare su una questione delicata come la legge elettorale proprio con il capo dell’opposizione, già al tappeto?
Del resto che dietro ci fosse una precisa strategia demolitrice del governo Prodi e non una serie ininterrotta di errori lo dimostra il fatto che, ancora tre giorni fa, Veltroni ha insistito sulla sua intenzione di fare un governo molto diverso da quello del Professore attirandosi volutamente gli strali degli altri partiti della ex Unione.
Se qualcuno voleva la firma autentica in calce alla crisi del governo Prodi adesso l’ha avuta.
La stessa spregiudicatezza Veltroni la rivela a proposito della legge sul conflitto di interessi; a Modena, alla Festa dell’Unità, così si esprime: “Regole del gioco ci vogliono ma non possiamo continuare a discutere di questo”.
Affermazione che fa il paio con quanto detto qualche tempo da Piero Fassino secondo il quale un’eventuale legge su questa materia non crea posti di lavoro.
Tutto ciò accade mentre il governo dimissionario, di cui ancora l’impareggiabile Walter fa parte suo malgrado, invece di occuparsi del disbrigo degli affari correnti ipoteca la politica estera del prossimo esecutivo assumendo una decisione di enorme rilevanza come il riconoscimento del Kosovo, sul merito e la legittimità della quale fortissime riserve sono state espresse da più parti.
Come sia possibile che da un lato si discrediti il governo dimissionario dall’altro lo si spinga a prendere decisioni che vanno ben oltre l’ordinaria amministrazione è un altro di quei giri di Valter a cui ci stiamo purtroppo abituando.
Dispiace dover dare ragione in parte all’escluso Ciriaco De Mita quando dice che “La crisi con il PD è nata quando si è fatto un partito immagine che come obbiettivo ha la trasposizione in Italia del modello americano” e quando ammonisce: “Il Pd non ha futuro. Diventa un guscio di raccolta di cose indistinte. Qualsiasi contenitore vinca, sarà la stessa cosa. L’evoluzione del sistema politico passa riscoprendo le radici”.
Ecco perché il partito contenitore assomiglia tanto a quelle trasmissioni di intrattenimento della domenica pomeriggio che non hanno altro scopo di far trascorrere, al minimo costo possibile per la rete televisiva, qualche ora di sbadigli agli italiani in poltrona, in un vorticoso intrecciarsi di suoni, colori e chiacchiere senza né capo né coda, di cui poi non resta traccia alcuna: stabilire tra Rai e Mediaset chi proponga le cose peggiori è vana impresa ma ciò finisce per convincere entrambi a non cambiare rotta, rinunciando deliberatamente ad una tv di qualità.
Analogamente il Partito Democratico può proporsi all’elettorato senza compiere neppure lo sforzo di una chiara analisi politica, sicuro che il suo diretto concorrente alle urne non sia migliore. E’ così che, imperturbabile, Walter Veltroni trae dal cilindro della propria confusione ideologica un nuovo slogan: quello dell’ambientalismo del fare.
Il PD come partito dei termovalizzatori, dei rigassificatori, dell’alta velocità e del nucleare (ad essere precisi, per l'atomo non è ancora così ma vedrete che è questione di poco tempo!) è il partito che rinuncia al principio di precauzione e di responsabilità verso le generazioni future in nome di una malintesa idea di progresso e di sviluppo economico senza limiti che affida totalmente il nostro futuro ad un certo tipo di scienza e tecnologia, facendo finta che esse siano neutre e autonome e non sotto il dominio quasi assoluto dell’economia e della finanza.
Di fronte alle gravi emergenze ambientali, la risposta veltroniana è più che mai liberista: l’uomo non deve fare un passo indietro per recuperare l’equilibrio perduto con la natura; al contrario, deve accelerare la ricerca e lo sfruttamento delle risorse ambientali assecondando gli appetiti tecnologici per sperare di giungere ad un diverso equilibrio, in un mondo violato nei suoi equilibri fondamentali e ricostruito ad immagine e somiglianza del nuovo totem, l’apparato scientifico e tecnologico dominante.
Il discorso pronunciato a Spello, animato dalla convinzione fideistica sulle “magnifiche sorti e progressive” tranquillizza i poteri forti, che possono progettare indisturbati nuovi scempi ambientali facendoli passare come "grandi opere pubbliche di cui l’Italia ha bisogno": che poi in discussione ci sia la TAV in Val di Susa piuttosto che il Ponte di Messina, non fa una grossa differenza.
Ecco perché Silvio Berlusconi ha facile gioco quando dichiara che Veltroni sta copiando il suo programma; così come ha ragioni da vendere De Mita quando afferma che la nascita dei due partiti contenitore segna la fine della democrazia liberale e la deriva verso una democrazia populista.
La difesa dei diritti dell’individuo e della collettività lascia, cioè, il passo all’assolutismo del potere politico che, una volta legittimato in qualche modo dal voto popolare (con l’indebolimento degli altri poteri costituzionali e grazie ad una sequela di leggi vergogna: da quella elettorale a quella sulle televisioni), è in grado di imporre dall’alto qualsiasi decisione.
Ed il voto popolare si cerca di conquistarlo comunicando attraverso emozioni, suscitando suggestioni, come se si stesse lavorando su un set cinematografico.
Quale scenario migliore di una collina di olivi per dire sì agli inceneritori?
Le prime battute di questa campagna elettorale rivelano sul nascere il carattere autoritario di questo bipolarismo ideologicamente convergente dove il ruolo chiave non è più esercitato da chi progetta la proposta politica ma da colui che la sa meglio comunicare alle masse, non fosse altro perché essa è sostanzialmente identica ed è stata elaborata lontano dalle aule parlamentari.
E’ il trionfo assoluto della demagogia.