Lo scontro tra PD e PDL in questa seconda settimana di campagna elettorale ci regala un’unica certezza: nel dopo elezioni, in caso di un quasi pareggio tra i due colossi politici, si andrebbe al governo di larghe intese.
Lo stesso Berlusconi, il meno interessato ad una soluzione del genere dato il vantaggio di cui è ancora accreditato dai sondaggi, lo lascia intendere senza tanti giri di parole.
La cosa non sorprende, come si è avuto già occasione di dire, però dovrebbe far arrabbiare i milioni di cittadini mandati alle urne già sapendo che con questa legge elettorale incostituzionale nella migliore delle ipotesi perdurerà lo stallo politico.
Che il bipolarismo italiano sia ridotto ad un cumulo di macerie è ormai un dato di fatto, a conferma dell’esistenza di una classe politica inetta che ci costringe a queste inutili elezioni, incurante dello sperpero di denaro pubblico che ciò comporta.
La cosiddetta semplificazione politica tanto caldeggiata sia da Berlusconi che da Veltroni finisce per negare quello che dovrebbe essere l’essenza stessa (l’unico pregio!) del principio maggioritario: una parte politica governa, l’altra fa opposizione. Se invece va a finire che governano tutte e due a braccetto vuol dire che la classe politica regna incontrastata su una società civile che ne subisce rassegnata lo strapotere.
Come a dire che dopo il ciclone dell’indignazione civile del 2007 (che i media tentano di esorcizzare chiamandola antipolitica), la Casta non solo non lascia ma tenta persino il raddoppio.
Beppe Grillo, alla vigilia del Monnezza Day a Napoli ha fotografato da par suo lo stato dei rapporti tra PD e PDL con una battuta sferzante: “Si inventano due formazioni: con lo stesso programma, si scopiazzano. Una presa per i fondelli…”.
Se poi consideriamo che la legge sulla par condicio è stata regolamentata per questa campagna elettorale in modo che lo spazio televisivo sia di fatto monopolizzato dai due maggiori partiti mentre agli altri restano le briciole, si capisce come si stia inscenando l’ennesima farsa sulla pelle dei cittadini e di ciò che resta della nostra democrazia rappresentativa.
Veltroni rinfaccia a Berlusconi di aver voluto trascinare il Paese alle urne prima di modificare il porcellum; ma non è stato forse il leader del PD, con Romano Prodi in carica, a ridare smalto alla politica del Cavaliere quando questi era ormai fuori gioco?
Quale governo, a parte la tragicomica vicenda Mastella, avrebbe potuto restare in piedi quando il leader della principale forza di maggioranza, invece di rinserrare i ranghi della coalizione, si mette a flirtare su una questione delicata come la legge elettorale proprio con il capo dell’opposizione, già al tappeto?
Del resto che dietro ci fosse una precisa strategia demolitrice del governo Prodi e non una serie ininterrotta di errori lo dimostra il fatto che, ancora tre giorni fa, Veltroni ha insistito sulla sua intenzione di fare un governo molto diverso da quello del Professore attirandosi volutamente gli strali degli altri partiti della ex Unione.
Se qualcuno voleva la firma autentica in calce alla crisi del governo Prodi adesso l’ha avuta.
La stessa spregiudicatezza Veltroni la rivela a proposito della legge sul conflitto di interessi; a Modena, alla Festa dell’Unità, così si esprime: “Regole del gioco ci vogliono ma non possiamo continuare a discutere di questo”.
Affermazione che fa il paio con quanto detto qualche tempo da Piero Fassino secondo il quale un’eventuale legge su questa materia non crea posti di lavoro.
Tutto ciò accade mentre il governo dimissionario, di cui ancora l’impareggiabile Walter fa parte suo malgrado, invece di occuparsi del disbrigo degli affari correnti ipoteca la politica estera del prossimo esecutivo assumendo una decisione di enorme rilevanza come il riconoscimento del Kosovo, sul merito e la legittimità della quale fortissime riserve sono state espresse da più parti.
Come sia possibile che da un lato si discrediti il governo dimissionario dall’altro lo si spinga a prendere decisioni che vanno ben oltre l’ordinaria amministrazione è un altro di quei giri di Valter a cui ci stiamo purtroppo abituando.
Dispiace dover dare ragione in parte all’escluso Ciriaco De Mita quando dice che “La crisi con il PD è nata quando si è fatto un partito immagine che come obbiettivo ha la trasposizione in Italia del modello americano” e quando ammonisce: “Il Pd non ha futuro. Diventa un guscio di raccolta di cose indistinte. Qualsiasi contenitore vinca, sarà la stessa cosa. L’evoluzione del sistema politico passa riscoprendo le radici”.
Ecco perché il partito contenitore assomiglia tanto a quelle trasmissioni di intrattenimento della domenica pomeriggio che non hanno altro scopo di far trascorrere, al minimo costo possibile per la rete televisiva, qualche ora di sbadigli agli italiani in poltrona, in un vorticoso intrecciarsi di suoni, colori e chiacchiere senza né capo né coda, di cui poi non resta traccia alcuna: stabilire tra Rai e Mediaset chi proponga le cose peggiori è vana impresa ma ciò finisce per convincere entrambi a non cambiare rotta, rinunciando deliberatamente ad una tv di qualità.
Analogamente il Partito Democratico può proporsi all’elettorato senza compiere neppure lo sforzo di una chiara analisi politica, sicuro che il suo diretto concorrente alle urne non sia migliore. E’ così che, imperturbabile, Walter Veltroni trae dal cilindro della propria confusione ideologica un nuovo slogan: quello dell’ambientalismo del fare.
Il PD come partito dei termovalizzatori, dei rigassificatori, dell’alta velocità e del nucleare (ad essere precisi, per l'atomo non è ancora così ma vedrete che è questione di poco tempo!) è il partito che rinuncia al principio di precauzione e di responsabilità verso le generazioni future in nome di una malintesa idea di progresso e di sviluppo economico senza limiti che affida totalmente il nostro futuro ad un certo tipo di scienza e tecnologia, facendo finta che esse siano neutre e autonome e non sotto il dominio quasi assoluto dell’economia e della finanza.
Di fronte alle gravi emergenze ambientali, la risposta veltroniana è più che mai liberista: l’uomo non deve fare un passo indietro per recuperare l’equilibrio perduto con la natura; al contrario, deve accelerare la ricerca e lo sfruttamento delle risorse ambientali assecondando gli appetiti tecnologici per sperare di giungere ad un diverso equilibrio, in un mondo violato nei suoi equilibri fondamentali e ricostruito ad immagine e somiglianza del nuovo totem, l’apparato scientifico e tecnologico dominante.
Il discorso pronunciato a Spello, animato dalla convinzione fideistica sulle “magnifiche sorti e progressive” tranquillizza i poteri forti, che possono progettare indisturbati nuovi scempi ambientali facendoli passare come "grandi opere pubbliche di cui l’Italia ha bisogno": che poi in discussione ci sia la TAV in Val di Susa piuttosto che il Ponte di Messina, non fa una grossa differenza.
Ecco perché Silvio Berlusconi ha facile gioco quando dichiara che Veltroni sta copiando il suo programma; così come ha ragioni da vendere De Mita quando afferma che la nascita dei due partiti contenitore segna la fine della democrazia liberale e la deriva verso una democrazia populista.
La difesa dei diritti dell’individuo e della collettività lascia, cioè, il passo all’assolutismo del potere politico che, una volta legittimato in qualche modo dal voto popolare (con l’indebolimento degli altri poteri costituzionali e grazie ad una sequela di leggi vergogna: da quella elettorale a quella sulle televisioni), è in grado di imporre dall’alto qualsiasi decisione.
Ed il voto popolare si cerca di conquistarlo comunicando attraverso emozioni, suscitando suggestioni, come se si stesse lavorando su un set cinematografico.
Lo stesso Berlusconi, il meno interessato ad una soluzione del genere dato il vantaggio di cui è ancora accreditato dai sondaggi, lo lascia intendere senza tanti giri di parole.
La cosa non sorprende, come si è avuto già occasione di dire, però dovrebbe far arrabbiare i milioni di cittadini mandati alle urne già sapendo che con questa legge elettorale incostituzionale nella migliore delle ipotesi perdurerà lo stallo politico.
Che il bipolarismo italiano sia ridotto ad un cumulo di macerie è ormai un dato di fatto, a conferma dell’esistenza di una classe politica inetta che ci costringe a queste inutili elezioni, incurante dello sperpero di denaro pubblico che ciò comporta.
La cosiddetta semplificazione politica tanto caldeggiata sia da Berlusconi che da Veltroni finisce per negare quello che dovrebbe essere l’essenza stessa (l’unico pregio!) del principio maggioritario: una parte politica governa, l’altra fa opposizione. Se invece va a finire che governano tutte e due a braccetto vuol dire che la classe politica regna incontrastata su una società civile che ne subisce rassegnata lo strapotere.
Come a dire che dopo il ciclone dell’indignazione civile del 2007 (che i media tentano di esorcizzare chiamandola antipolitica), la Casta non solo non lascia ma tenta persino il raddoppio.
Beppe Grillo, alla vigilia del Monnezza Day a Napoli ha fotografato da par suo lo stato dei rapporti tra PD e PDL con una battuta sferzante: “Si inventano due formazioni: con lo stesso programma, si scopiazzano. Una presa per i fondelli…”.
Se poi consideriamo che la legge sulla par condicio è stata regolamentata per questa campagna elettorale in modo che lo spazio televisivo sia di fatto monopolizzato dai due maggiori partiti mentre agli altri restano le briciole, si capisce come si stia inscenando l’ennesima farsa sulla pelle dei cittadini e di ciò che resta della nostra democrazia rappresentativa.
Veltroni rinfaccia a Berlusconi di aver voluto trascinare il Paese alle urne prima di modificare il porcellum; ma non è stato forse il leader del PD, con Romano Prodi in carica, a ridare smalto alla politica del Cavaliere quando questi era ormai fuori gioco?
Quale governo, a parte la tragicomica vicenda Mastella, avrebbe potuto restare in piedi quando il leader della principale forza di maggioranza, invece di rinserrare i ranghi della coalizione, si mette a flirtare su una questione delicata come la legge elettorale proprio con il capo dell’opposizione, già al tappeto?
Del resto che dietro ci fosse una precisa strategia demolitrice del governo Prodi e non una serie ininterrotta di errori lo dimostra il fatto che, ancora tre giorni fa, Veltroni ha insistito sulla sua intenzione di fare un governo molto diverso da quello del Professore attirandosi volutamente gli strali degli altri partiti della ex Unione.
Se qualcuno voleva la firma autentica in calce alla crisi del governo Prodi adesso l’ha avuta.
La stessa spregiudicatezza Veltroni la rivela a proposito della legge sul conflitto di interessi; a Modena, alla Festa dell’Unità, così si esprime: “Regole del gioco ci vogliono ma non possiamo continuare a discutere di questo”.
Affermazione che fa il paio con quanto detto qualche tempo da Piero Fassino secondo il quale un’eventuale legge su questa materia non crea posti di lavoro.
Tutto ciò accade mentre il governo dimissionario, di cui ancora l’impareggiabile Walter fa parte suo malgrado, invece di occuparsi del disbrigo degli affari correnti ipoteca la politica estera del prossimo esecutivo assumendo una decisione di enorme rilevanza come il riconoscimento del Kosovo, sul merito e la legittimità della quale fortissime riserve sono state espresse da più parti.
Come sia possibile che da un lato si discrediti il governo dimissionario dall’altro lo si spinga a prendere decisioni che vanno ben oltre l’ordinaria amministrazione è un altro di quei giri di Valter a cui ci stiamo purtroppo abituando.
Dispiace dover dare ragione in parte all’escluso Ciriaco De Mita quando dice che “La crisi con il PD è nata quando si è fatto un partito immagine che come obbiettivo ha la trasposizione in Italia del modello americano” e quando ammonisce: “Il Pd non ha futuro. Diventa un guscio di raccolta di cose indistinte. Qualsiasi contenitore vinca, sarà la stessa cosa. L’evoluzione del sistema politico passa riscoprendo le radici”.
Ecco perché il partito contenitore assomiglia tanto a quelle trasmissioni di intrattenimento della domenica pomeriggio che non hanno altro scopo di far trascorrere, al minimo costo possibile per la rete televisiva, qualche ora di sbadigli agli italiani in poltrona, in un vorticoso intrecciarsi di suoni, colori e chiacchiere senza né capo né coda, di cui poi non resta traccia alcuna: stabilire tra Rai e Mediaset chi proponga le cose peggiori è vana impresa ma ciò finisce per convincere entrambi a non cambiare rotta, rinunciando deliberatamente ad una tv di qualità.
Analogamente il Partito Democratico può proporsi all’elettorato senza compiere neppure lo sforzo di una chiara analisi politica, sicuro che il suo diretto concorrente alle urne non sia migliore. E’ così che, imperturbabile, Walter Veltroni trae dal cilindro della propria confusione ideologica un nuovo slogan: quello dell’ambientalismo del fare.
Il PD come partito dei termovalizzatori, dei rigassificatori, dell’alta velocità e del nucleare (ad essere precisi, per l'atomo non è ancora così ma vedrete che è questione di poco tempo!) è il partito che rinuncia al principio di precauzione e di responsabilità verso le generazioni future in nome di una malintesa idea di progresso e di sviluppo economico senza limiti che affida totalmente il nostro futuro ad un certo tipo di scienza e tecnologia, facendo finta che esse siano neutre e autonome e non sotto il dominio quasi assoluto dell’economia e della finanza.
Di fronte alle gravi emergenze ambientali, la risposta veltroniana è più che mai liberista: l’uomo non deve fare un passo indietro per recuperare l’equilibrio perduto con la natura; al contrario, deve accelerare la ricerca e lo sfruttamento delle risorse ambientali assecondando gli appetiti tecnologici per sperare di giungere ad un diverso equilibrio, in un mondo violato nei suoi equilibri fondamentali e ricostruito ad immagine e somiglianza del nuovo totem, l’apparato scientifico e tecnologico dominante.
Il discorso pronunciato a Spello, animato dalla convinzione fideistica sulle “magnifiche sorti e progressive” tranquillizza i poteri forti, che possono progettare indisturbati nuovi scempi ambientali facendoli passare come "grandi opere pubbliche di cui l’Italia ha bisogno": che poi in discussione ci sia la TAV in Val di Susa piuttosto che il Ponte di Messina, non fa una grossa differenza.
Ecco perché Silvio Berlusconi ha facile gioco quando dichiara che Veltroni sta copiando il suo programma; così come ha ragioni da vendere De Mita quando afferma che la nascita dei due partiti contenitore segna la fine della democrazia liberale e la deriva verso una democrazia populista.
La difesa dei diritti dell’individuo e della collettività lascia, cioè, il passo all’assolutismo del potere politico che, una volta legittimato in qualche modo dal voto popolare (con l’indebolimento degli altri poteri costituzionali e grazie ad una sequela di leggi vergogna: da quella elettorale a quella sulle televisioni), è in grado di imporre dall’alto qualsiasi decisione.
Ed il voto popolare si cerca di conquistarlo comunicando attraverso emozioni, suscitando suggestioni, come se si stesse lavorando su un set cinematografico.
Quale scenario migliore di una collina di olivi per dire sì agli inceneritori?
Le prime battute di questa campagna elettorale rivelano sul nascere il carattere autoritario di questo bipolarismo ideologicamente convergente dove il ruolo chiave non è più esercitato da chi progetta la proposta politica ma da colui che la sa meglio comunicare alle masse, non fosse altro perché essa è sostanzialmente identica ed è stata elaborata lontano dalle aule parlamentari.
E’ il trionfo assoluto della demagogia.
Le prime battute di questa campagna elettorale rivelano sul nascere il carattere autoritario di questo bipolarismo ideologicamente convergente dove il ruolo chiave non è più esercitato da chi progetta la proposta politica ma da colui che la sa meglio comunicare alle masse, non fosse altro perché essa è sostanzialmente identica ed è stata elaborata lontano dalle aule parlamentari.
E’ il trionfo assoluto della demagogia.