Che la politica non abbia minimamente compreso il grande risentimento che cova nella società civile è ogni giorno di più un desolante dato di fatto.
Il dibattito sulla Finanziaria è la goccia che, forse, non farà traboccare il vaso ma allontana ancora di più il Palazzo dalla vita dei cittadini.
Impossibile capirci qualcosa.
Nemmeno gli addetti ai lavori riescono più a decifrare cosa stia veramente accadendo tra Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi; soprattutto quale sia, tra veti incrociati, minacce, tatticismi vari, l’effettiva posta in gioco.
Una cosa però è certa: l’elettroencefalogramma della politica italiana è da mesi piatto.
Non fa differenza tra governo e opposizione.
Per il governo, si attende soltanto che qualcuno stacchi la spina. Dopo lo scivolone sulla giustizia, nessuno ha più il coraggio di alzare il livello della discussione e chi punta i piedi lo fa solo per guadagnarsi un po’ di visibilità da spendere in vista di futuri riassetti.
Il dibattito assume in molte circostanze toni surreali: c’è chi come Dini e Mastella sono contrari a fissare un tetto agli stipendi dei manager pubblici scomodando addirittura la Costituzione per avversare un’eventuale norma a riguardo.
Fare le barricate per difendere i manager pubblici lasciando decollare il loro stipendio annuo sopra i 500.000 euro non è propriamente la battaglia politica che si attendono gli elettori di centrosinistra: ma è quello che oggi passa il convento!
Nell’altro schieramento, tutti contro tutti: se Berlusconi sogna la spallata, Fini e Casini ingranano la retromarcia sperando con la riforma elettorale di sbarazzarsi del Cavaliere.
Fino a ieri sera Dini ancora non sapeva se questa Finanziaria gli fosse piaciuta o no: fortuna che nel 1995 fu a capo di un governo tecnico!
Dopo tanti anni di vita parlamentare, l’ex direttore generale di Bankitalia, ha acquisito il virtuosismo di un politico consumato; ma non sa ancora se varcare il Rubicone alleandosi con Berlusconi o restare dissidente con l’elmetto nell’Unione.
In questo paesaggio da Deserto dei tartari, una sola cosa è chiara: la vera politica si fa al centro.
Si è sempre pensato che il bipolarismo italiano non funzionasse bene a causa delle ali estreme dei due schieramenti politici che costringevano la componente maggioritaria (Forza Italia da un lato, il neo Partito Democratico dall’altro) ad avventurarsi su questioni politiche del tutto minoritarie, rimanendo per mesi in una condizione di stallo, senza decidere alla fine né le piccole né le grandi cose.
Ma è più che altro un luogo comune, alimentato dai media che inducono i cittadini a commettere un grossolano errore di prospettiva.
Sì, perché gli accadimenti politici di questi anni dimostrano, al contrario, che il bipolarismo italiano presenta le crepe più grosse e perde pezzi proprio al centro, su quella incerta linea di confine tra i due poli che i tanti eredi della balena bianca provano continuamente ad oltrepassare saltando, a seconda delle convenienze del momento, da uno schieramento all’altro.
E’ la politica del pendolo, certamente la più gettonata in questo cupo autunno.
Non bastavano l’Udeur e i Mastelliani, adesso ci si mettono anche i Diniani, i seguaci di Follini, magari lo stesso Di Pietro, la nuova DC di Rotondi, l’Unione democratica di Bordon e Manzione, qualche Udc deluso…
La frantumazione dei partiti viene eletta a strumento cardine della lotta politica: troppe volte non per affermare il proprio modello di società; molto più prosaicamente, soltanto per guadagnarsi un posto in qualche prima fila che conta.
Sarebbe interessante conoscere da vicino, ad esempio, i diniani: cosa pensano, quali sono i loro ideali, quali i loro elettori, perché sempre così indecisi sulla propria collocazione politica, quale grande causa potrebbe finalmente smuoverli dal torpore..
Nel frattempo, Lamberto Dini, distinguendo tra l'etica dei princìpi e quella della responsabilità, si decide a votare sì alla Finanziaria ma preannuncia il no al Governo.
Niente di cui meravigliarsi: la legge del pendolo ha colpito ancora!
Il dibattito sulla Finanziaria è la goccia che, forse, non farà traboccare il vaso ma allontana ancora di più il Palazzo dalla vita dei cittadini.
Impossibile capirci qualcosa.
Nemmeno gli addetti ai lavori riescono più a decifrare cosa stia veramente accadendo tra Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi; soprattutto quale sia, tra veti incrociati, minacce, tatticismi vari, l’effettiva posta in gioco.
Una cosa però è certa: l’elettroencefalogramma della politica italiana è da mesi piatto.
Non fa differenza tra governo e opposizione.
Per il governo, si attende soltanto che qualcuno stacchi la spina. Dopo lo scivolone sulla giustizia, nessuno ha più il coraggio di alzare il livello della discussione e chi punta i piedi lo fa solo per guadagnarsi un po’ di visibilità da spendere in vista di futuri riassetti.
Il dibattito assume in molte circostanze toni surreali: c’è chi come Dini e Mastella sono contrari a fissare un tetto agli stipendi dei manager pubblici scomodando addirittura la Costituzione per avversare un’eventuale norma a riguardo.
Fare le barricate per difendere i manager pubblici lasciando decollare il loro stipendio annuo sopra i 500.000 euro non è propriamente la battaglia politica che si attendono gli elettori di centrosinistra: ma è quello che oggi passa il convento!
Nell’altro schieramento, tutti contro tutti: se Berlusconi sogna la spallata, Fini e Casini ingranano la retromarcia sperando con la riforma elettorale di sbarazzarsi del Cavaliere.
Fino a ieri sera Dini ancora non sapeva se questa Finanziaria gli fosse piaciuta o no: fortuna che nel 1995 fu a capo di un governo tecnico!
Dopo tanti anni di vita parlamentare, l’ex direttore generale di Bankitalia, ha acquisito il virtuosismo di un politico consumato; ma non sa ancora se varcare il Rubicone alleandosi con Berlusconi o restare dissidente con l’elmetto nell’Unione.
In questo paesaggio da Deserto dei tartari, una sola cosa è chiara: la vera politica si fa al centro.
Si è sempre pensato che il bipolarismo italiano non funzionasse bene a causa delle ali estreme dei due schieramenti politici che costringevano la componente maggioritaria (Forza Italia da un lato, il neo Partito Democratico dall’altro) ad avventurarsi su questioni politiche del tutto minoritarie, rimanendo per mesi in una condizione di stallo, senza decidere alla fine né le piccole né le grandi cose.
Ma è più che altro un luogo comune, alimentato dai media che inducono i cittadini a commettere un grossolano errore di prospettiva.
Sì, perché gli accadimenti politici di questi anni dimostrano, al contrario, che il bipolarismo italiano presenta le crepe più grosse e perde pezzi proprio al centro, su quella incerta linea di confine tra i due poli che i tanti eredi della balena bianca provano continuamente ad oltrepassare saltando, a seconda delle convenienze del momento, da uno schieramento all’altro.
E’ la politica del pendolo, certamente la più gettonata in questo cupo autunno.
Non bastavano l’Udeur e i Mastelliani, adesso ci si mettono anche i Diniani, i seguaci di Follini, magari lo stesso Di Pietro, la nuova DC di Rotondi, l’Unione democratica di Bordon e Manzione, qualche Udc deluso…
La frantumazione dei partiti viene eletta a strumento cardine della lotta politica: troppe volte non per affermare il proprio modello di società; molto più prosaicamente, soltanto per guadagnarsi un posto in qualche prima fila che conta.
Sarebbe interessante conoscere da vicino, ad esempio, i diniani: cosa pensano, quali sono i loro ideali, quali i loro elettori, perché sempre così indecisi sulla propria collocazione politica, quale grande causa potrebbe finalmente smuoverli dal torpore..
Nel frattempo, Lamberto Dini, distinguendo tra l'etica dei princìpi e quella della responsabilità, si decide a votare sì alla Finanziaria ma preannuncia il no al Governo.
Niente di cui meravigliarsi: la legge del pendolo ha colpito ancora!