L’inchiesta Why not è stata tolta definitivamente a Luigi De Magistris.
In attesa della decisione del CSM prevista per il 17 dicembre sul suo possibile trasferimento d’ufficio, il reclamo presentato dal pm di Catanzaro contro l’avocazione decisa dal procuratore facente funzioni Dolcino Favi è stato respinto per “difetto di legittimazione”.
La decisione della Cassazione, peraltro facilmente prevedibile sul piano formale, ha giudicato infatti inammissibile tale ricorso in quanto l’unico titolato a presentarlo era il Procuratore capo di Catanzaro Mariano Lombardi.
La Suprema Corte ha cioè rigettato la richiesta del sostituto procuratore Luigi De Magistris, non entrando nel merito della questione ma limitandosi ad un pronunciamento di carattere meramente formale: spetta soltanto al suo capo ufficio fare opposizione.
Il fatto è che il capo di De Magistris è proprio colui che era stato sospettato dal pm di Catanzaro di aver intralciato la sua inchiesta informandone in anticipo alcuni indagati.
Siamo al paradosso: secondo la Cassazione l’unico titolato a promuovere il ricorso contro l’avocazione è proprio uno di quelli che, secondo le carte del magistrato inquirente, potrebbe averla ostacolata.
Sul piano formale, la sentenza della Cassazione non fa una grinza: è corretta.
Tuttavia, nella fattispecie in esame, finisce per produrre conseguenze paradossali sancendo de facto una sostanziale disparità di trattamento dei cittadini in materia di giustizia.
E’ questa la cosa più assurda: formalmente, è assolutamente corretto togliere l’inchiesta a De Magistris perché è nelle prerogative del procuratore generale farlo e in quelle del suo capo ufficio non opporvisi; in pratica, a causa della particolare funzione rivestita da alcuni personaggi entrati nelle sue indagini (secondo le cronache, addirittura il Ministro della Giustizia ed il Procuratore capo di Catanzaro), ciò ne impedisce la sua normale conclusione.
E’ inutile tornare sulle motivazioni che hanno spinto il procuratore supplente Favi ad avocare l’inchiesta un attimo prima di lasciare il suo incarico: l’avocazione è un provvedimento eccezionale che viene preso di solito di fronte ad un’inerzia del magistrato inquirente, non a causa di una sua presunta “incompatibilità nel procedimento” con un riferimento troppo disinvolto all’art. 372 lett. A cpp.
Ma proseguiamo il ragionamento: l’esercizio di un potere attribuito al procuratore di avocare l’inchiesta contrasta, nel caso in esame, con il beneficio superiore di vederla portata a compimento proprio da colui, il pubblico ministero De Magistris, che l’aveva incardinata.
A questo punto, senza entrare nel merito dell’inchiesta Why not, si può trarre una prima conclusione generale: le normali procedure previste dal nostro ordinamento giudiziario non funzionano quando la lente investigativa è puntata su personaggi eccellenti come ministri, alti magistrati, autorità in carica.
Si può affermare, cioè, che esse non siano costituzionalmente corrette, ledendo il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione.
Può la Costituzione formale del nostro Paese venire così palesemente travisata nella sua applicazione materiale attraverso leggi, regolamenti, procedure burocratiche?
L’art. 3, dopo i fatti di Catanzaro, andrebbe coerentemente riscritto così: “La legge è uguale per tutti, ma non tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”.
In attesa della decisione del CSM prevista per il 17 dicembre sul suo possibile trasferimento d’ufficio, il reclamo presentato dal pm di Catanzaro contro l’avocazione decisa dal procuratore facente funzioni Dolcino Favi è stato respinto per “difetto di legittimazione”.
La decisione della Cassazione, peraltro facilmente prevedibile sul piano formale, ha giudicato infatti inammissibile tale ricorso in quanto l’unico titolato a presentarlo era il Procuratore capo di Catanzaro Mariano Lombardi.
La Suprema Corte ha cioè rigettato la richiesta del sostituto procuratore Luigi De Magistris, non entrando nel merito della questione ma limitandosi ad un pronunciamento di carattere meramente formale: spetta soltanto al suo capo ufficio fare opposizione.
Il fatto è che il capo di De Magistris è proprio colui che era stato sospettato dal pm di Catanzaro di aver intralciato la sua inchiesta informandone in anticipo alcuni indagati.
Siamo al paradosso: secondo la Cassazione l’unico titolato a promuovere il ricorso contro l’avocazione è proprio uno di quelli che, secondo le carte del magistrato inquirente, potrebbe averla ostacolata.
Sul piano formale, la sentenza della Cassazione non fa una grinza: è corretta.
Tuttavia, nella fattispecie in esame, finisce per produrre conseguenze paradossali sancendo de facto una sostanziale disparità di trattamento dei cittadini in materia di giustizia.
E’ questa la cosa più assurda: formalmente, è assolutamente corretto togliere l’inchiesta a De Magistris perché è nelle prerogative del procuratore generale farlo e in quelle del suo capo ufficio non opporvisi; in pratica, a causa della particolare funzione rivestita da alcuni personaggi entrati nelle sue indagini (secondo le cronache, addirittura il Ministro della Giustizia ed il Procuratore capo di Catanzaro), ciò ne impedisce la sua normale conclusione.
E’ inutile tornare sulle motivazioni che hanno spinto il procuratore supplente Favi ad avocare l’inchiesta un attimo prima di lasciare il suo incarico: l’avocazione è un provvedimento eccezionale che viene preso di solito di fronte ad un’inerzia del magistrato inquirente, non a causa di una sua presunta “incompatibilità nel procedimento” con un riferimento troppo disinvolto all’art. 372 lett. A cpp.
Ma proseguiamo il ragionamento: l’esercizio di un potere attribuito al procuratore di avocare l’inchiesta contrasta, nel caso in esame, con il beneficio superiore di vederla portata a compimento proprio da colui, il pubblico ministero De Magistris, che l’aveva incardinata.
A questo punto, senza entrare nel merito dell’inchiesta Why not, si può trarre una prima conclusione generale: le normali procedure previste dal nostro ordinamento giudiziario non funzionano quando la lente investigativa è puntata su personaggi eccellenti come ministri, alti magistrati, autorità in carica.
Si può affermare, cioè, che esse non siano costituzionalmente corrette, ledendo il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione.
Può la Costituzione formale del nostro Paese venire così palesemente travisata nella sua applicazione materiale attraverso leggi, regolamenti, procedure burocratiche?
L’art. 3, dopo i fatti di Catanzaro, andrebbe coerentemente riscritto così: “La legge è uguale per tutti, ma non tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”.
Fare un po’ di chiarezza eviterebbe almeno i continui fraintendimenti di quanti (e non sono pochi!), peccando di ingenuità o semplicemente perché sprovvisti di una laurea in giurisprudenza, credono ancora nella terzietà ed imparzialità dell’organizzazione giudiziaria.
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