Martedì sera a Ballarò abbiamo appreso dalla viva voce di Pierluigi Bersani, già ministro dello sviluppo economico nel governo Prodi, due importanti novità:
1) se il PD non si fosse presentato alle elezioni da solo ma insieme alle altre forze costituenti la maggioranza del governo uscente, lui stesso non sa se avrebbe votato per l’Unione;
2) “senza un minimo di chiarezza programmatica”, ritiene inevitabile abbandonare l’alleanza con la sinistra nelle amministrazioni locali per non subire i no alla costruzione di rigassificatori, ecc.
Conclusione: il gruppo dirigente del Partito Democratico invece di lasciare, come il buon senso suggerirebbe dopo l’irripetibile e disastroso risultato elettorale, addirittura raddoppia minacciando di uscire pure a livello locale dalla tradizionale alleanza di tutte le sinistre.
Il cataclisma amministrativo che ne deriverebbe un po’ ovunque nella penisola e soprattutto nelle cosiddette regioni rosse è di tutta evidenza.
Ma può un passaggio politico così impervio essere annunciato en passant in un salotto televisivo senza prima essere deliberato dai vertici del partito e suggellato da un chiaro pronunciamento della propria base elettorale?
Dopo le altrettanto gravi parole di Franceschini di alzare la soglia di sbarramento alle Europee del 2009 (a parole, blaterando di un bipartitismo che a Bruxelles è semplicemente improponibile; nei fatti per far fuori anche lì tutte le minoranze), si ritorna inevitabilmente al quesito posto da questo blog soltanto due settimane fa.
Com’è possibile che la classe dirigente del Partito Democratico, che dal 14 aprile dovrebbe stare in ritiro spirituale per recitare umilmente e sommessamente il mea culpa (avendo consegnato con tre anni di anticipo il Paese alle destre e condannato Romano Prodi all’oblio!), non ha ancora fatto il classico passo indietro?
In forza di quale delega resta al comando del PD senza rispondere della propria dissennata condotta politica?
Perché qui non è più questione di strategia elettorale, è in atto un vero e proprio ribaltamento di linea politica o meglio un processo di mutagenesi ideologica.
Il PD nella versione di Bersani, Franceschini e di tutto l’attuale gruppo dirigente si colloca molto più a destra della vecchia rimpianta balena bianca: il pensiero politico di Moro, Zaccagnini e dello stesso De Mita è stato molto più avanzato sulle questioni economiche e sociali di quanto non dimostrino gli attuali capi democratici.
Non sorprende quindi che qualcuno nelle elezioni di Roma abbia potuto vedere in Alemanno (erroneamente ma comprensibilmente!) un’espressione politica più a sinistra dell’attuale gruppo dirigente del PD che proprio nella capitale esibiva la massima rappresentazione del suo sistema di potere.
L’ultima puntata di Report di Milena Gabanelli “I re di Roma” è assai rivelatrice, dimostrando che la sconfitta di Roma, piuttosto che una inattesa battuta d’arresto, è la conseguenza inevitabile di un grave fallimento politico, maturato nel corso degli ultimi 15 anni di giunte Rutelli-Veltroni.
Un’ultima notazione: le lodi che Bersani ha intessuto a Romano Prodi nello studio di Giovanni Floris sono state, al di là delle facili apparenze, un piccolo capolavoro di ipocrisia e di spregiudicatezza politica, implicitamente (e neanche troppo!) sottolineando la sua presa di distanza dall’esperienza di governo del Professore.
Ma di quel governo egli non è stato forse fino all’ultimo uno dei più influenti suggeritori e, mediaticamente, sicuramente il massimo esponente?
1) se il PD non si fosse presentato alle elezioni da solo ma insieme alle altre forze costituenti la maggioranza del governo uscente, lui stesso non sa se avrebbe votato per l’Unione;
2) “senza un minimo di chiarezza programmatica”, ritiene inevitabile abbandonare l’alleanza con la sinistra nelle amministrazioni locali per non subire i no alla costruzione di rigassificatori, ecc.
Conclusione: il gruppo dirigente del Partito Democratico invece di lasciare, come il buon senso suggerirebbe dopo l’irripetibile e disastroso risultato elettorale, addirittura raddoppia minacciando di uscire pure a livello locale dalla tradizionale alleanza di tutte le sinistre.
Il cataclisma amministrativo che ne deriverebbe un po’ ovunque nella penisola e soprattutto nelle cosiddette regioni rosse è di tutta evidenza.
Ma può un passaggio politico così impervio essere annunciato en passant in un salotto televisivo senza prima essere deliberato dai vertici del partito e suggellato da un chiaro pronunciamento della propria base elettorale?
Dopo le altrettanto gravi parole di Franceschini di alzare la soglia di sbarramento alle Europee del 2009 (a parole, blaterando di un bipartitismo che a Bruxelles è semplicemente improponibile; nei fatti per far fuori anche lì tutte le minoranze), si ritorna inevitabilmente al quesito posto da questo blog soltanto due settimane fa.
Com’è possibile che la classe dirigente del Partito Democratico, che dal 14 aprile dovrebbe stare in ritiro spirituale per recitare umilmente e sommessamente il mea culpa (avendo consegnato con tre anni di anticipo il Paese alle destre e condannato Romano Prodi all’oblio!), non ha ancora fatto il classico passo indietro?
In forza di quale delega resta al comando del PD senza rispondere della propria dissennata condotta politica?
Perché qui non è più questione di strategia elettorale, è in atto un vero e proprio ribaltamento di linea politica o meglio un processo di mutagenesi ideologica.
Il PD nella versione di Bersani, Franceschini e di tutto l’attuale gruppo dirigente si colloca molto più a destra della vecchia rimpianta balena bianca: il pensiero politico di Moro, Zaccagnini e dello stesso De Mita è stato molto più avanzato sulle questioni economiche e sociali di quanto non dimostrino gli attuali capi democratici.
Non sorprende quindi che qualcuno nelle elezioni di Roma abbia potuto vedere in Alemanno (erroneamente ma comprensibilmente!) un’espressione politica più a sinistra dell’attuale gruppo dirigente del PD che proprio nella capitale esibiva la massima rappresentazione del suo sistema di potere.
L’ultima puntata di Report di Milena Gabanelli “I re di Roma” è assai rivelatrice, dimostrando che la sconfitta di Roma, piuttosto che una inattesa battuta d’arresto, è la conseguenza inevitabile di un grave fallimento politico, maturato nel corso degli ultimi 15 anni di giunte Rutelli-Veltroni.
Un’ultima notazione: le lodi che Bersani ha intessuto a Romano Prodi nello studio di Giovanni Floris sono state, al di là delle facili apparenze, un piccolo capolavoro di ipocrisia e di spregiudicatezza politica, implicitamente (e neanche troppo!) sottolineando la sua presa di distanza dall’esperienza di governo del Professore.
Ma di quel governo egli non è stato forse fino all’ultimo uno dei più influenti suggeritori e, mediaticamente, sicuramente il massimo esponente?
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