Si apprende in queste ore che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha firmato il decreto di incarico all'Avvocatura generale dello Stato per sollevare conflitto di attribuzione nei confronti della Procura generale di Palermo, per la nota vicenda delle telefonate intercorse e intercettate tra Napolitano stesso e Nicola Mancino, essendo state messe sotto controllo le utenze telefoniche di quest'ultimo, indagato dai pm siciliani per falsa testimonianza nell'ambito dell'inchiesta sulla presunta trattativa Stato mafia.
Per i cittadini onesti di questo Paese, l'atteggiamento di Napolitano è veramente incomprensibile.
Ma come??
Di fronte alla necessità di fare chiarezza sulla stagione delle stragi mafiose del 1992-93 e sul 'papello' che i boss mafiosi avrebbero concordato con gli apparati istituzionali, che cosa fa il Capo dello Stato?
Invece di compiacersene elogiando pubblicamente l'impegno profuso dai magistrati di Palermo per venire a capo dei troppi misteri e fare luce sulle tante zone d'ombra di quella stagione eversiva e di sangue che provocò numerosissime vittime innocenti (in primis, il sacrificio umano di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e delle loro scorte, a cui il popolo Italiano deve eterna riconoscenza) e magari fare in modo che possano continuare a lavorare, facendo loro sentire il più possibile la vicinanza dei vertici delle istituzioni, con la massima serenità, efficacia e celerità per individuare i mandanti occulti di quell'ecatombe, che cosa fa il primo cittadino della repubblica?
Ingombrantemente, si mette di traverso all'inchiesta palermitana, non solo non svelando spontaneamente il contenuto di quelle conversazioni che pure nelle settimane scorse ha affermato stizzosamente essere irrilevanti, ma addirittura appellandosi alle sue prerogative di irresponsabilità per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, scomodando a sproposito l'art. 90 della Costituzione.
In pratica si attesta sulla linea di difesa di Eugenio Scalfari che questi aveva spudoratamente esposto in un recente editoriale che, è il caso di ricordarlo ai lettori più distratti, nei giorni scorsi è stata oggetto di pubblico ludibrio da parte di molti osservatori ed esperti costituzionalisti, per essere palesemente un coacervo di castronerie sul piano logico e di giganteschi strafalcioni giuridici.
Infatti, dando un attimo per buone le parole di Scalfari ma solo come esercizio di scuola, ovvero ragionando per assurdo, si arriverebbe alla conclusione impossibile che, qualora la primula rossa della mafia, Matteo Messina Denaro, decidesse di telefonare al Quirinale, gli ufficiali di polizia che magari ne ascoltano da tempo le conversazioni, dovrebbero immediatamente interrompere l'intercettazione stessa, quand'anche nel corso della telefonata pronunciasse minacce contro l'inquilino del Colle o svelasse le sue complicità o ancora il suo nascondiglio per essersi risolto a porre fine alla propria latitanza.
Tutto ciò nel malinteso intento di tutelare (?) l'irresponsabilità del presidente della Repubblica.
Una tale mostruosità si commenta da sé.
Ma ciò che più delude (o indigna) è la motivazione che Napolitano adduce a tale iniziativa: "evitare si pongano, nel suo [nda: del Presidente] silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell'occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la costituzione gli attribuisce".
Insomma, la classica foglia di fico: non lo faccio per me ma per il mio successore.
E doveva cogliere proprio l'occasione sbagliata per contornare, in punta di diritto, le proprie prerogative costituzionali?
E proprio quando alle viste per l'Italia democratica c'è il traguardo di riportare alla luce, vent'anni dopo, le nefandezze e le responsabilità del biennio stragista, da cui ha preso forma l'attuale Seconda repubblica.
Mentre l'Italia si dibatte tra mille difficoltà, una brutta pagina di storia viene scritta oggi in cima al Colle: eppure lassù non c'è Berlusconi!
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