Prima di commentare la resa dei conti in corso nel Partito Democratico, il cui destino nonostante l’avvicendamento tra Walter Veltroni e Dario Franceschini appare segnato, aspettavamo il giudizio che ne avrebbe dato dalle colonne di Repubblica quello che, per certi versi, è stato il suo ideologo oltre ad esserne uno dei più potenti ed accaniti supporter, Eugenio Scalfari.
Dietro questi sedici mesi di navigazione tempestosa di Walter Veltroni, c’è sempre stato lui a suggerirgli strategie, tattiche, e perché no, a rivolgergli anche qualche amorevole rimbrotto.
Ci aspettavamo quindi che, un tempo nella buona sorte adesso nella cattiva, il grande vecchio di piazza Indipendenza volesse anche lui, al pari di Veltroni, chiedere scusa per i tanti errori compiuti in tutto questo tempo diventando la cassa di risonanza del pensiero debole veltroniano, facendo assumere al suo giornale una fisionomia tutta diversa da quella delle origini, tanto da allontanarlo sempre più da molti affezionati lettori.
Ma non è stato così.
Nel suo odierno domenicale, precisa che l’impressione che Veltroni non ce l’abbia fatta a portare a termine la sua impresa, sia in qualche modo fuorviata dalle titolazioni che i giornali hanno dato al suo discorso d’addio. Che, sì, riflettono i contenuti del suo commiato ma non le sue effettive colpe che, secondo il famoso giornalista, si ridurrebbero ad un unico errore; l’aver cercato ad oltranza di mediare tra le diverse anime del partito senza far pesare fino in fondo il valore della sua leadership, costruita su tre milioni e mezzo di consensi: "Veltroni ha impiegato gran parte del suo tempo a cercare punti di sintesi che erano piuttosto cuciture fatte col filo grosso, con la conseguenza che quei vari pezzi e quelle varie ispirazioni e provenienze sono rimaste in piedi senza dar vita ad una cultura nuova e unitaria."
Ci aspettavamo da Eugenio Scalfari un’analisi più acuta e attenta delle immani pecche che la guida democratica ha mostrato da subito. Attribuire a Veltroni quale unico errore quello di aver indugiato troppo nella mediazione tra "laici e cattolici, socialisti e moderati, tolleranti e intransigenti, puri e duri e pragmatici" è davvero poca cosa e dimostra come anche dalle parti di piazza Indipendenza la confusione regni sovrana.
D’altra parte, in tutti questi mesi non una volta Scalfari ha rimproverato Veltroni per i suoi tentennamenti, né per il suo incessante mediare tra i vari capibastone; al contrario, ha sposato in pieno questa linea politica ondivaga e priva di respiro.
Perché il vero nodo della questione è che, sin dal giorno del suo insediamento, Walter Veltroni ha rinunciato a sostenere il governo Prodi e, dopo la clamorosa disfatta elettorale dell’anno scorso, a fare opposizione al governo autoritario dell’uomo di Arcore.
Se l’è presa da subito con i verdi, con la sinistra, con Di Pietro (pur avendo stretto un’alleanza di ferro con lui), ma mai contro Berlusconi, salvo punzecchiarlo sterilmente ma di continuo per le sue riprovevoli gaffe.
Inopinatamente, quando il Cavaliere era ormai alle corde, nel novembre 2007, incapace com’era di recuperare credito tra i suoi (siamo al tempo del teatrino evocato da Gianfranco Fini), Veltroni ebbe la folle idea di rimetterlo in piedi annunciando, urbi et orbi, di voler costruire con lui le nuove regole del gioco, sbarazzandosi di punto in bianco dei propri alleati mentre Romano Prodi stava ancora saldo in sella a Palazzo Chigi.
Fu quella una vera e propria congiura di Palazzo, che sotto le mentite spoglie del ministro Clemente Mastella, silurò improvvisamente l’esperienza dell’Unione per proclamare unilateralmente la presunta vocazione maggioritaria del Pd.
Fu l’inizio della fine. Seguirono mesi difficilissimi che consegnarono incredibilmente il Paese ad un governo delle destre reazionario, incapace di dare sia pure elementari risposte alla grave crisi economica che si stava affacciando da oltre Atlantico.
Se ci fosse stata una chiara opposizione, molto presto l’armata berlusconiana avrebbe dovuto prenderne atto, forse capitolando o scendendo a più miti consigli su tante questioni scottanti.
Ma guardiamo all’oggi.
E’ chiaro che, con la caduta di Veltroni, viene bocciata tutta la nomenklatura del suo partito (i Fassino, la Finocchiaro, ecc. ieri all’assemblea nazionale sembravano di colpo invecchiati, ridotti a pezzi di modernariato) "delegittimata e spazzata via tutta insieme".
Così come è di tutta evidenza che il compito di Dario Franceschini sia divenuto quasi impossibile, senza un congresso che possa decretare a caratteri cubitali la fine del veltronismo, o meglio del veltrusconismo.
Conforta che il nuovo giovane leader, sin dal suo primo discorso, abbia voluto mostrare una qualche discontinuità con il suo predecessore; certamente, non avendo nulla da perdere, egli può permettersi una libertà intellettuale e di azione decisamente superiori.
D’altra parte, fare peggio di Veltroni è praticamente impossibile.
Già sarebbe molto se riuscisse a traghettare il Pd da una vergognosa non opposizione di questi mesi ad una più modesta quasi opposizione.
Ma non illudiamoci: finché non sarà spazzata via la vecchia nomenklatura, le speranze di avere un partito diverso si avvicinano a zero, nonostante tutta la buona volontà del nuovo segretario.
Dietro questi sedici mesi di navigazione tempestosa di Walter Veltroni, c’è sempre stato lui a suggerirgli strategie, tattiche, e perché no, a rivolgergli anche qualche amorevole rimbrotto.
Ci aspettavamo quindi che, un tempo nella buona sorte adesso nella cattiva, il grande vecchio di piazza Indipendenza volesse anche lui, al pari di Veltroni, chiedere scusa per i tanti errori compiuti in tutto questo tempo diventando la cassa di risonanza del pensiero debole veltroniano, facendo assumere al suo giornale una fisionomia tutta diversa da quella delle origini, tanto da allontanarlo sempre più da molti affezionati lettori.
Ma non è stato così.
Nel suo odierno domenicale, precisa che l’impressione che Veltroni non ce l’abbia fatta a portare a termine la sua impresa, sia in qualche modo fuorviata dalle titolazioni che i giornali hanno dato al suo discorso d’addio. Che, sì, riflettono i contenuti del suo commiato ma non le sue effettive colpe che, secondo il famoso giornalista, si ridurrebbero ad un unico errore; l’aver cercato ad oltranza di mediare tra le diverse anime del partito senza far pesare fino in fondo il valore della sua leadership, costruita su tre milioni e mezzo di consensi: "Veltroni ha impiegato gran parte del suo tempo a cercare punti di sintesi che erano piuttosto cuciture fatte col filo grosso, con la conseguenza che quei vari pezzi e quelle varie ispirazioni e provenienze sono rimaste in piedi senza dar vita ad una cultura nuova e unitaria."
Ci aspettavamo da Eugenio Scalfari un’analisi più acuta e attenta delle immani pecche che la guida democratica ha mostrato da subito. Attribuire a Veltroni quale unico errore quello di aver indugiato troppo nella mediazione tra "laici e cattolici, socialisti e moderati, tolleranti e intransigenti, puri e duri e pragmatici" è davvero poca cosa e dimostra come anche dalle parti di piazza Indipendenza la confusione regni sovrana.
D’altra parte, in tutti questi mesi non una volta Scalfari ha rimproverato Veltroni per i suoi tentennamenti, né per il suo incessante mediare tra i vari capibastone; al contrario, ha sposato in pieno questa linea politica ondivaga e priva di respiro.
Perché il vero nodo della questione è che, sin dal giorno del suo insediamento, Walter Veltroni ha rinunciato a sostenere il governo Prodi e, dopo la clamorosa disfatta elettorale dell’anno scorso, a fare opposizione al governo autoritario dell’uomo di Arcore.
Se l’è presa da subito con i verdi, con la sinistra, con Di Pietro (pur avendo stretto un’alleanza di ferro con lui), ma mai contro Berlusconi, salvo punzecchiarlo sterilmente ma di continuo per le sue riprovevoli gaffe.
Inopinatamente, quando il Cavaliere era ormai alle corde, nel novembre 2007, incapace com’era di recuperare credito tra i suoi (siamo al tempo del teatrino evocato da Gianfranco Fini), Veltroni ebbe la folle idea di rimetterlo in piedi annunciando, urbi et orbi, di voler costruire con lui le nuove regole del gioco, sbarazzandosi di punto in bianco dei propri alleati mentre Romano Prodi stava ancora saldo in sella a Palazzo Chigi.
Fu quella una vera e propria congiura di Palazzo, che sotto le mentite spoglie del ministro Clemente Mastella, silurò improvvisamente l’esperienza dell’Unione per proclamare unilateralmente la presunta vocazione maggioritaria del Pd.
Fu l’inizio della fine. Seguirono mesi difficilissimi che consegnarono incredibilmente il Paese ad un governo delle destre reazionario, incapace di dare sia pure elementari risposte alla grave crisi economica che si stava affacciando da oltre Atlantico.
Se ci fosse stata una chiara opposizione, molto presto l’armata berlusconiana avrebbe dovuto prenderne atto, forse capitolando o scendendo a più miti consigli su tante questioni scottanti.
Ma guardiamo all’oggi.
E’ chiaro che, con la caduta di Veltroni, viene bocciata tutta la nomenklatura del suo partito (i Fassino, la Finocchiaro, ecc. ieri all’assemblea nazionale sembravano di colpo invecchiati, ridotti a pezzi di modernariato) "delegittimata e spazzata via tutta insieme".
Così come è di tutta evidenza che il compito di Dario Franceschini sia divenuto quasi impossibile, senza un congresso che possa decretare a caratteri cubitali la fine del veltronismo, o meglio del veltrusconismo.
Conforta che il nuovo giovane leader, sin dal suo primo discorso, abbia voluto mostrare una qualche discontinuità con il suo predecessore; certamente, non avendo nulla da perdere, egli può permettersi una libertà intellettuale e di azione decisamente superiori.
D’altra parte, fare peggio di Veltroni è praticamente impossibile.
Già sarebbe molto se riuscisse a traghettare il Pd da una vergognosa non opposizione di questi mesi ad una più modesta quasi opposizione.
Ma non illudiamoci: finché non sarà spazzata via la vecchia nomenklatura, le speranze di avere un partito diverso si avvicinano a zero, nonostante tutta la buona volontà del nuovo segretario.
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