Situazione di estremo rischio quella che si sta manifestando con un’impressionante accelerazione di tempi ed intensità sui mercati finanziari di tutto il mondo, sotto gli occhi attoniti di una sterminata platea di risparmiatori.
Paradossalmente nessuno ha ancora dato una risposta convincente, neppure sul piano teorico, a quello che sta accadendo in questi giorni: i media si limitano a registrare il cataclisma senza sbilanciarsi più di tanto sulle cause e le responsabilità.
Di certo quando la finanza subisce un simile tracollo globale c’è da chiedersi se non sia caduto in una spirale irreversibile un intero modello di sviluppo economico: vent’anni dopo il crollo del socialismo reale targato Unione Sovietica, si scopre che il modello antagonista, il capitalismo, forse a causa della sua forma più spinta assunta nell’ultimo decennio, la globalizzazione, presenta crepe formidabili che ne mettono a rischio la sopravvivenza.
Il fatto che a soccorso dei mercati debba intervenire l’autorità pubblica è la riprova che i meccanismi di autoregolazione del mercato semplicemente non esistono o, comunque, non funzionano a dovere: il mito di Adam Smith della mano invisibile, ancora così duro a morire nonostante le autorevoli confutazioni dei grandi economisti di fine Ottocento, riceve l’ennesima bocciatura.
Dietro l’irricevibile piano Paulson che accolla sui contribuenti americani, in prima battuta, una voragine di debito da 700 miliardi di dollari (circa la metà del PIL italiano!) per salvare il sistema bancario, c’è una impressionante catena di errori ed omissioni che vede nelle autorità di vigilanza dei mercati americani e nella Fed i principali responsabili, naturalmente a braccetto con la pessima amministrazione Bush.
Si parla tanto di mutui subprime, quelli concessi alle famiglie americane con grande leggerezza e senza tante garanzie, ma ormai è chiaro che ritenerli la causa scatenante di questa crisi è quantomeno azzardato.
Paradossalmente nessuno ha ancora dato una risposta convincente, neppure sul piano teorico, a quello che sta accadendo in questi giorni: i media si limitano a registrare il cataclisma senza sbilanciarsi più di tanto sulle cause e le responsabilità.
Di certo quando la finanza subisce un simile tracollo globale c’è da chiedersi se non sia caduto in una spirale irreversibile un intero modello di sviluppo economico: vent’anni dopo il crollo del socialismo reale targato Unione Sovietica, si scopre che il modello antagonista, il capitalismo, forse a causa della sua forma più spinta assunta nell’ultimo decennio, la globalizzazione, presenta crepe formidabili che ne mettono a rischio la sopravvivenza.
Il fatto che a soccorso dei mercati debba intervenire l’autorità pubblica è la riprova che i meccanismi di autoregolazione del mercato semplicemente non esistono o, comunque, non funzionano a dovere: il mito di Adam Smith della mano invisibile, ancora così duro a morire nonostante le autorevoli confutazioni dei grandi economisti di fine Ottocento, riceve l’ennesima bocciatura.
Dietro l’irricevibile piano Paulson che accolla sui contribuenti americani, in prima battuta, una voragine di debito da 700 miliardi di dollari (circa la metà del PIL italiano!) per salvare il sistema bancario, c’è una impressionante catena di errori ed omissioni che vede nelle autorità di vigilanza dei mercati americani e nella Fed i principali responsabili, naturalmente a braccetto con la pessima amministrazione Bush.
Si parla tanto di mutui subprime, quelli concessi alle famiglie americane con grande leggerezza e senza tante garanzie, ma ormai è chiaro che ritenerli la causa scatenante di questa crisi è quantomeno azzardato.
Perché per anni la locomotiva americana ha viaggiato con un doppio enorme deficit (quello commerciale e quello federale) senza che nessuno se ne preoccupasse più di tanto; al contrario l’ex governatore della Fed, Alan Greenspan, ha drogato a lungo la crescita economica americana, inondando il paese di un’enorme liquidità che si è andata ad infilare, piuttosto che nei settori innovativi ed ad alto valore aggiunto, in quello delle costruzioni (con la spaventosa bolla immobiliare), delle forniture militari e dell'ingegneria finanziaria con i risultati che tutti adesso possono vedere.
Senza una politica di deregulation sconsiderata, senza gli appetiti famelici di tanti top manager tacitati a suon di stock options, senza la religione del laissez-faire, tutto ciò non sarebbe potuto accadere: l’economia reale degli States è stata fatta deragliare ed ora la finanza registra d’improvviso quello che da tempo molti osservatori invano denunciavano.
Certo è che da questa situazione non se ne potrà uscire senza far pagare ai cittadini di mezzo mondo, a causa delle stretta interdipendenza planetaria dell’economia a stelle e strisce, un prezzo salatissimo: di fronte ad indecenti arricchimenti individuali, il conto della crisi verrà come al solito presentato ad intere popolazioni che si vedranno ridimensionare il loro a volte già modesto tenore di vita, decurtando redditi e servizi pubblici mentre tassazione e disoccupazione schizzeranno in alto.
Ma ancor oggi in Italia, al di là dei toni sensazionalistici dei media, non c’è veramente nessuno che si azzardi a fare una lucida analisi degli avvenimenti in corso né tanto meno che osi spingersi sul terreno comunque impervio delle previsioni: sembra quasi che molti economisti se la siano data a gambe, sparendo dal circuito mediatico proprio mentre i cittadini vorrebbero delucidazioni sul loro futuro di imprenditori, consumatori, risparmiatori, lavoratori, pensionati.
L’altra sera a Ballarò è andata in scena l’ennesima baruffa televisiva attorno a questa crisi da parte di alcuni dei nostri politici a cui gli elettori hanno affidato il compito di dare risposte per una volta chiare e tempestive.
Senza una politica di deregulation sconsiderata, senza gli appetiti famelici di tanti top manager tacitati a suon di stock options, senza la religione del laissez-faire, tutto ciò non sarebbe potuto accadere: l’economia reale degli States è stata fatta deragliare ed ora la finanza registra d’improvviso quello che da tempo molti osservatori invano denunciavano.
Certo è che da questa situazione non se ne potrà uscire senza far pagare ai cittadini di mezzo mondo, a causa delle stretta interdipendenza planetaria dell’economia a stelle e strisce, un prezzo salatissimo: di fronte ad indecenti arricchimenti individuali, il conto della crisi verrà come al solito presentato ad intere popolazioni che si vedranno ridimensionare il loro a volte già modesto tenore di vita, decurtando redditi e servizi pubblici mentre tassazione e disoccupazione schizzeranno in alto.
Ma ancor oggi in Italia, al di là dei toni sensazionalistici dei media, non c’è veramente nessuno che si azzardi a fare una lucida analisi degli avvenimenti in corso né tanto meno che osi spingersi sul terreno comunque impervio delle previsioni: sembra quasi che molti economisti se la siano data a gambe, sparendo dal circuito mediatico proprio mentre i cittadini vorrebbero delucidazioni sul loro futuro di imprenditori, consumatori, risparmiatori, lavoratori, pensionati.
L’altra sera a Ballarò è andata in scena l’ennesima baruffa televisiva attorno a questa crisi da parte di alcuni dei nostri politici a cui gli elettori hanno affidato il compito di dare risposte per una volta chiare e tempestive.
Malgrado l’ottimo lavoro della redazione di Giovanni Floris per presentare il problema con tabelle di dati e filmati e, dunque, avviare la discussione, gli ospiti in studio hanno mostrato una disarmante impreparazione sui temi dibattuti: parlavano spesso per sentito dire, visibilmente impacciati ed insicuri nelle argomentazioni, rifugiandosi continuamente nella zuffa verbale quale unico terreno congeniale per nascondere i propri limiti culturali; l’unica persona informata sui fatti e che pertanto giganteggiava di fronte a tanta insipienza era il deputato Bruno Tabacci: nel complesso, uno spettacolo veramente deludente.
Altrettanto da bocciare, contrassegnandola con la matita blu, è la diagnosi che fa dalle colonne del suo giornale il direttore di Repubblica Ezio Mauro quando sentenzia: "Chi dice che il capitalismo crolla mentre resuscita il socialismo non ha di nuovo capito niente, perché il capitalismo assiste all'incepparsi non di sé, ma del nuovo sistema di scambio simultaneo universale che sfrutta da un decennio lo strumento di reti che avviluppa il mondo abbattendo spazio e tempo, grazie alla potenza del motore tecnologico di internet, capace di vincere la storia rendendo tutto contemporaneo, e persino la geografia, facendo ubiqua ogni cosa."
Purtroppo non si rende conto di aver preso un grosso abbaglio nell’attribuire, addirittura, la colpa di questo ciclone finanziario ad Internet ed alla grande rete telematica che avvolge il globo. Come se fosse la simultaneità degli scambi la causa di questa tempesta annunciata; al contrario, proprio essa è, generalmente, fattore di stabilizzazione dei mercati, come qualsiasi studente di economia politica al primo anno gli potrebbe spiegare.
Il dramma di questa crisi è, diversamente, l’assoluta inadeguatezza della politica a fronteggiare la globalizzazione, ultimo stadio del capitalismo. Il quale nel suo impeto primordiale di occupare tutti gli spazi economici disponibili ha finito per accumulare una mostruosa potenza divoratrice che tutto travolge al suo passaggio, persino le fragili istituzioni nazionali.
Ma come si fa a non accorgersi che la dimensione politica è stata del tutto fagocitata dai formidabili poteri economici che, sulla scena internazionale, dettano l’agenda ai singoli governi sia al di qua che al di là dell’Atlantico?
E’ forse un caso se, ritornando alle beghe di casa nostra, la bufera di Tangentopoli, segnando la fine della prima repubblica, abbia fatto emergere incontrastata la figura di un potentissimo uomo d’affari come Silvio Berlusconi che, di certo, nel fare impresa non si sente minimamente condizionato dai confini nazionali né dai tanti lacci e lacciuoli della democrazia rappresentativa?
La verità è che, ripassando la lezione di Marx e di Schumpeter, il capitalismo diventa asociale quando si impossessa con esponenziale voracità di tutte le risorse economiche: di qui la necessità di rispolverare il vero nodo mai sciolto che fa da sfondo a questa come alle precedenti crisi dell’Occidente industrializzato: Stato o Mercato?
Perché se deve prevalere il primo, quale moderno Leviatano, occorre che il Mercato venga imbrigliato in un rigoroso sistema di vincoli e di regole per evitare che faccia danno a se stesso prima ancora che ai suoi attori.
Ma garantire la sopravvivenza del mercato (con la m minuscola) è compito talmente impegnativo da richiedere lo sforzo coordinato dello Stato e di istituzioni sovranazionali.
C’è bisogno, dunque, di un nuovo ordine mondiale, basato non soltanto su un nuovo assetto geopolitico ma sul regolare funzionamento di istituzioni nazionali e sovranazionali che sul terreno dell’economia riescano a domare gli ormai pericolosi animal spirits.
E l’Europa deve fare da subito la sua parte per istituire un sistema di vigilanza della finanza a livello continentale prima che l’ondata di piena travolga le economie dei singoli paesi, le cui autorità agiscono ancora in ordine sparso. Sistema che preveda, con i necessari controlli, l’applicazione di severe sanzioni per i trasgressori.
Probabilmente, siamo ancora all’inizio della tempesta (l’ottovolante descritto dal titolo Unicredit nella giornata di ieri, dopo giorni di passione, non fa presagire nulla di buono, non solo per il primo gruppo bancario italiano ma per tutti noi) ma è bene prepararsi anche qui in Italia a settimane molto difficili, specie con una classe politica così imbelle che non trova di meglio, per voce dei suoi esponenti di punta Berlusconi e Veltroni, che dare vita all’ennesima zuffa mediatica: ennesimo round di un finto match che non incanta più nessuno.
Altrettanto da bocciare, contrassegnandola con la matita blu, è la diagnosi che fa dalle colonne del suo giornale il direttore di Repubblica Ezio Mauro quando sentenzia: "Chi dice che il capitalismo crolla mentre resuscita il socialismo non ha di nuovo capito niente, perché il capitalismo assiste all'incepparsi non di sé, ma del nuovo sistema di scambio simultaneo universale che sfrutta da un decennio lo strumento di reti che avviluppa il mondo abbattendo spazio e tempo, grazie alla potenza del motore tecnologico di internet, capace di vincere la storia rendendo tutto contemporaneo, e persino la geografia, facendo ubiqua ogni cosa."
Purtroppo non si rende conto di aver preso un grosso abbaglio nell’attribuire, addirittura, la colpa di questo ciclone finanziario ad Internet ed alla grande rete telematica che avvolge il globo. Come se fosse la simultaneità degli scambi la causa di questa tempesta annunciata; al contrario, proprio essa è, generalmente, fattore di stabilizzazione dei mercati, come qualsiasi studente di economia politica al primo anno gli potrebbe spiegare.
Il dramma di questa crisi è, diversamente, l’assoluta inadeguatezza della politica a fronteggiare la globalizzazione, ultimo stadio del capitalismo. Il quale nel suo impeto primordiale di occupare tutti gli spazi economici disponibili ha finito per accumulare una mostruosa potenza divoratrice che tutto travolge al suo passaggio, persino le fragili istituzioni nazionali.
Ma come si fa a non accorgersi che la dimensione politica è stata del tutto fagocitata dai formidabili poteri economici che, sulla scena internazionale, dettano l’agenda ai singoli governi sia al di qua che al di là dell’Atlantico?
E’ forse un caso se, ritornando alle beghe di casa nostra, la bufera di Tangentopoli, segnando la fine della prima repubblica, abbia fatto emergere incontrastata la figura di un potentissimo uomo d’affari come Silvio Berlusconi che, di certo, nel fare impresa non si sente minimamente condizionato dai confini nazionali né dai tanti lacci e lacciuoli della democrazia rappresentativa?
La verità è che, ripassando la lezione di Marx e di Schumpeter, il capitalismo diventa asociale quando si impossessa con esponenziale voracità di tutte le risorse economiche: di qui la necessità di rispolverare il vero nodo mai sciolto che fa da sfondo a questa come alle precedenti crisi dell’Occidente industrializzato: Stato o Mercato?
Perché se deve prevalere il primo, quale moderno Leviatano, occorre che il Mercato venga imbrigliato in un rigoroso sistema di vincoli e di regole per evitare che faccia danno a se stesso prima ancora che ai suoi attori.
Ma garantire la sopravvivenza del mercato (con la m minuscola) è compito talmente impegnativo da richiedere lo sforzo coordinato dello Stato e di istituzioni sovranazionali.
C’è bisogno, dunque, di un nuovo ordine mondiale, basato non soltanto su un nuovo assetto geopolitico ma sul regolare funzionamento di istituzioni nazionali e sovranazionali che sul terreno dell’economia riescano a domare gli ormai pericolosi animal spirits.
E l’Europa deve fare da subito la sua parte per istituire un sistema di vigilanza della finanza a livello continentale prima che l’ondata di piena travolga le economie dei singoli paesi, le cui autorità agiscono ancora in ordine sparso. Sistema che preveda, con i necessari controlli, l’applicazione di severe sanzioni per i trasgressori.
Probabilmente, siamo ancora all’inizio della tempesta (l’ottovolante descritto dal titolo Unicredit nella giornata di ieri, dopo giorni di passione, non fa presagire nulla di buono, non solo per il primo gruppo bancario italiano ma per tutti noi) ma è bene prepararsi anche qui in Italia a settimane molto difficili, specie con una classe politica così imbelle che non trova di meglio, per voce dei suoi esponenti di punta Berlusconi e Veltroni, che dare vita all’ennesima zuffa mediatica: ennesimo round di un finto match che non incanta più nessuno.