Visualizzazione post con etichetta Ezio Mauro. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Ezio Mauro. Mostra tutti i post

domenica 25 novembre 2012

La sera scrivevamo (on line) per largo Fochetti

La notizia più ghiotta della settimana, ma nessuno dei media ad eccezione del Fatto Quotidiano ci ha posto attenzione, sono le dimissioni improvvise da blogger embedded della corazzata la Repubblica di Piergiorgio Odifreddi, matematico, divulgatore scientifico, intellettuale spesso controcorrente.
Che qualche giorno fa, accendendo il computer e aprendo il suo blog sulla piattaforma mediatica di Largo Fochetti, si è accorto che il suo ultimo post "Dieci volte peggio dei nazisti" era sparito, o meglio era stato rimosso. 
L'intervento, esorcizzato in punta di mouse dalla direzione del giornale, conteneva una dura critica al comportamento del governo israeliano che, prendendo spunto da alcuni razzi lanciati sul proprio territorio dai guerriglieri di Hamas, un paio di settimane fa ha scatenato l'ennesima guerra asimmetrica contro la Striscia di Gaza, con ripetute indisturbate incursioni dei suoi caccia a suon di missili e bombe contro la popolazione palestinese che hanno provocato, accanto ad enormi devastazioni,  almeno un centinaio di morti, in prevalenza donne e bambini; quelli che le autorità militari israeliane si sono subito affrettate a definire "scudi umani".
Insomma per Tel Aviv non sono le bombe israeliane ad ucciderli, sono le donne e i bambini palestinesi in cerca di guai, sommamente colpevoli di vivere nei quartieri densamente popolati dove dall'alto i caccia e gli elicotteri con la stella di David  hanno licenza di strage per portare a termine le condanne a morte pronunciate del governo Netanyahu contro gli esponenti della resistenza palestinese.
Ed a questo pensiero unico, irradiato dai network occidentali senza risparmio di energie, si sono omologati pure i nostri media anche a costo di andare contro cultura, logica e buon senso, non prima di ignorare, anzi di rimuovere, compassione e solidarietà umane.
E' così che un intervento come quello di Odifreddi non solo non può essere neppure lontanamente condivisibile per gli ideologi del pensiero liberale di Repubblica, ma neanche semplicemente tollerato in nome di Voltaire.
Al contrario,  va prontamente disinnescato perché mina alla base il pluralismo di facciata così pilatescamente messo su in decenni di edicola, declinando ideologicamente il lib-lab a giorni alterni, secondo le convenienze oligarchiche che questo giornale intimamente esprime.
Ecco perché non si può permettere neppure all'intellettuale Odifreddi di dire sommessamente, non dalle colonne del giornale ma dalla sua stanza virtuale presa in comodato d'uso, verità scomode per il mainstream e che suonano malissimo per l'establishment nostrano.
Finché ostenta il suo laicismo, lanciando strali contro le interferenze nella vita pubblica di Oltretevere, dalla cabina di regia è ben accetto.
Anzi,  per Ezio Mauro & c.,  è cosa buona e giusta che se la sia presa in un recentissimo post con  Beppe Grillo,  vomitandogli convulsamente addosso di tutto, senza un minimo di discernimento e di cautela, affibbiandogli, in una sorta di offerta speciale "tre per uno", contemporaneamente del neofascista, del neoleghista e del neoberlusconista, dopo aver equivocato goffamente l'uso del termine dummies, quando sarebbe bastato wikipedia per evitare di aprire bocca e dargli fiato.
In un caso del genere gli si dà pure l'onore dell'apertura in prima pagina!
Ugualmente, val bene Odifreddi quando fa, del tutto a sproposito, la difesa d'ufficio della pseudoscienza a seguito del pronunciamento del Tribunale dell'Aquila che ha condannato gli esperti della Commissione Grandi Rischi a sei anni di reclusione per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, rei di aver messo in piedi un'operazione mediatica tesa esplicitamente e unicamente a tranquillizzare la popolazione proprio alla vigilia della scossa micidiale di 6.3 punti della scala Richter, senza una effettiva valutazione del rischio.
Non si trattava, evidentemente, di prevedere la scossa fatale ma di evitare la monumentale negligenza di diffondere informazioni rassicuranti ma fasulle, che hanno finito per vanificare la più elementare attività di tutela delle persone, inducendole a restare a dormire nelle loro case.
Superficialità e inganno, altro che non aver previsto il terremoto!
Eppure le parole di Odifreddi erano queste: "La ragione, o anche solo il buon senso, dovrebbero portare a ringraziare gli scienziati per ciò che sanno e riescono a fare, e non a condannarli per ciò che non sanno e non possono fare: come le previsioni dei terremoti gli esperti sono responsabili dei pareri che hanno dato. Non sono responsabili dei suggerimenti che la protezione civile ha ritenuto di dover dare alla popolazione, in seguito a questi pareri".
Se si fosse minimamente informato si sarebbe risparmiato una simile figuraccia.
Ma tanto è bastato per coprire culturalmente, si fa per dire,  la castroneria mediatica del ministro dell'Ambiente, Corrado Clini (lo stesso che contestava negli stessi giorni inopinatamente i dati sull' inquinamento ambientale causati dall'Ilva di Taranto), che ha avuto la spudoratezza di criticare la sentenza parlando di processo a Galileo. E con lui, l'intoccabile governo dei tecnici.
In un Paese serio, un ministro del genere avrebbe già dovuto fare le valigie.
Ora Odifreddi ha deciso di prendersi una pausa di riflessione, cioè di ritirarsi in buon ordine a "coltivare il proprio giardino", nel frattempo tracciando un bilancio più che positivo della sua esperienza tra i blogger del gruppo De Benedetti.
Gli è stata lasciata carta bianca, dice lui, e delle lagnanze ricevute, magari in latino, l'editore non gli avrebbe fatto trasparire se non un vago sentore condividendo in pieno la massima spesso (erroneamente) attribuita a Voltaire "detesto ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo".
Ma quando le critiche sono pervenute in ebraico, apriti cielo!
Quello che neppure a qualche alto esponente della Chiesa cattolica era riuscito, magari quando l'opinionista sfotteva Mario Monti e Corrado Passera, Santi subito!,  per via dell'IMU inspiegabilmente abbuonata dai rigorosissimi tecnici al Vaticano, è divenuto realtà non appena la critica si è diretta, senza troppi peli sulla lingua ma con ben altre ragioni da vendere, contro l'iniziativa militare israeliana sui cieli di Gaza.
A quel punto la rappresaglia direzionale ha, pure stilisticamente, ricalcato la reazione israeliana.
Odifreddi è stato messo a tacere, senza troppi complimenti, e il suo post cancellato: mediaticamente, un'esecuzione mirata.
Ora, è vero  che in rete vige una sorta di primo principio della termodinamica secondo il quale in natura "nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma", per cui il suo post rimosso dai censori, si può replicare infinite volte in altrettanti siti, com'egli sostiene nel post di commiato: "Cancellare un post non è, di per sè, un grande problema: soprattutto nell’era dell’informatica, quando tutto ciò che si mette in rete viene clonato e continua comunque a esistere e circolare"; tant'è che anche noi ne siamo venuti in tal modo a conoscenza.
Il fatto è che, proprio in ragione dell'inutilità e velleità di questa censura, un comportamento del genere, tanto più in un quotidiano che si fregia di rappresentare il pensiero liberale di sinistra e di essere un crocevia  ed una fucina di idee anche in contrasto tra di loro, dimostra che anche qui le grandi dichiarazioni di libertà lasciano il passo in concreto ad una gestione assai più prosaica ed opaca, oseremmo dire squadristica, del quotidiano.
Per cui chi tocca i fili (la questione israeliano-palestinese, la trattativa Stato mafia, le imbarazzanti conversazioni telefoniche tra Giorgio Napolitano e Nicola Mancino, l'appoggio senza se e senza ma al governo Monti, eccetera eccetera), virtualmente muore.
E alle ortiche il dibattito delle idee!
Questa volta ne fa le spese Piergiorgio Odifreddi ma è semplicemente l'ultimo della lista, preceduto soltanto di qualche settimana da Gustavo Zagrebelsky, l'insigne costituzionalista, svillaneggiato sulla carta stampata da un iroso Eugenio Scalfari soltanto per aver chiesto pubblicamente al Capo dello Stato una prova di buona volontà e correttezza costituzionale, rimettendo il conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo che ha di fatto da mesi impantanato l'indagine sulla trattativa Stato mafia.
Fra l'altro, si tratta di personalità con un pedigree di primo livello.
Figuriamoci cosa possa capitare a chi, pur nella legittimità e onesta intellettuale del proprio punto di vista, non possa vantare altrettanta certificata autorevolezza.
Ecco perché quando Odifreddi rivendica, per il tempo di permanenza del suo blog a Largo Fochetti "809 giorni di libertà", teniamo a fargli sapere, anche a costo di sconvolgerlo, che questa sua libertà è sempre stata vigilata e che, nei giorni buoni, lui stesso ha finito per essere senza saperlo (o magari senza volerlo) uno dei Masaniello mandati in avanscoperta dal duo Scalfari-Mauro & c.
Premiata ditta che, finito il tuo lavoro, sporco o pulito che sia, ben prima che tu possa profferire parola, ti spedisce il ben servito con un semplice click.
Possibile che lo scaltro Odifreddi non se ne fosse mai accorto?
Difficile pensarlo, a meno di non sentirsi Alice in Wonderland.
Ma a volte barattare la propria scapigliata curiosità intellettuale con una "invidiabile visibilità" mediatica finisce,  come si sa, per renderci piccini piccini...

venerdì 24 agosto 2012

Ezio Mauro sulla scia di Scalfari: W il Colle e la partitocrazia!

Sollecitata da più parti, quasi sospirata dal berlusconiano Giuliano Ferrara, è arrivata la risposta di Ezio Mauro, il direttore di Repubblica, chiamato a dipanare un grave problema di linea editoriale tenuto conto che sul suo giornale dove il corazziere Eugenio Scalfari fa il bello e cattivo tempo lanciando strali contro chiunque osi mettere in discussione il comportamento di Giorgio Napolitano, scrivono pure grandi giuristi come Gustavo Zagrebelsky e Franco Cordero, assai critici con la recente decisione del Presidente della Repubblica di sollevare conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, per via delle sue improvvide telefonate con Nicola Mancino, delle quali il Capo dello Stato avrebbe preteso la distruzione immediata  sulla base di sue millantate prerogative di intangibilità, esortando i pm siciliani a conformarsene, pure oltrepassando la legge (che lascia questa decisione al Gip durante la cosiddetta udienza-filtro in cui sono presenti tutte le parti processuali).
Rivendica con orgoglio il fatto che sul suo giornale possano confrontarsi liberamente pareri contrapposti anche se, ad avviso di molti, gli interventi pur autorevoli in dissenso con il Quirinale rappresentano voci fuori dal coro, anche visivamente sopraffatte dai caratteri cubitali e le lenzuolate di segno opposto; oggetto pure di dileggio da parte del fondatore di Repubblica che domenica all'insigne costituzionalista Zagrebelsky ha riservato un trattamento speciale, non esitando a dargli dello sprovveduto, dello scorretto, persino dell'ignorante.
Così  meritandosi, per la prima volta in assoluto, il plauso peloso dei lacché berlusconiani, da Sandro Bondi a scendere, che da sempre hanno i nervi scoperti sulle questioni giudiziarie, per evidenti necessità di bottega.

Mauro cerca di attraversare il difficile crinale che lo obbliga, su un versante, a non sconfessare il suo anziano mentore, pena la fine, brevi manu, della sua avventura professionale a Largo Fochetti, dall'altro a non poter eccepire veramente nulla alle due illustri firme di Repubblica, in  particolare a Zagrebelsky, a cui lo unisce pure una grande amicizia personale.
Così, preso tra  due fuochi (o meglio tra il lanciafiamme di Scalfari e la lucida penna dei prestigiosi collaboratori) si trova, con un artificio retorico, prima a sostenere posizioni più aperte (l'indagine della Procura "è meritoria" e "gli italiani hanno il diritto di conoscere la verità sulla trattativa Stato-mafia, dopo vent'anni di nascondimenti, di menzogne e depistaggi") così segnando un distinguo rispetto al pensiero scalfariano, ma poi a battere precipitosamente in ritirata: il conflitto sollevato da Napolitano "è perfettamente legittimo. Può non essere opportuno, ed è una valutazione politica: io non lo avrei aperto".

Ma Mauro non è la Corte Costituzionale (che il 19 settembre sarà chiamata ad esprimersi sull'ammissibilità giuridica del ricorso) e riconoscendone l'inopportunità, finisce per fare una critica nient'affatto marginale all'operato di Napolitano.
Anche perché stiamo parlando di un'iniziativa presidenziale presa in un momento particolarmente grave per l'Italia, in cui tutto ci si poteva attendere tranne che colui che, per dirla enfaticamente alla Mauro, "gli altri Paesi considerano come uno dei pochi punti fermi della nostra democrazia" desse vita ad uno scontro istituzionale tanto dirompente e dalle conseguenze ancora imprevedibili.
Infatti, si immagini  per un istante che cosa potrebbe accadere tra qualche settimana se la Consulta giudicasse inammissibile il conflitto di Napolitano: costui, dopo aver squassato l'equilibrio dei poteri, come potrebbe restare un minuto in più al proprio posto?
E' ovvio che in questo modo si mettono i giudici costituzionali con le spalle al muro, costringendoli a prendere una decisione  a favore del Colle, che più politica non potrebbe essere! Come saggiamente, dall'alto della sua scienza e di una particolare sensibilità istituzionale, ma pure con tutta la cautela di questo mondo, osservava sgomento Zagrebelsky.
Che il punto cruciale sia questo è dimostrato dal fatto che quegli stessi corazzieri di complemento che plaudono alla sconsiderata iniziativa di Napolitano si rendono conto che urge farla passare il più possibile sotto tono.
Macché, non è un atto presidenziale senza precedenti, è una tazzulella 'e caffé! Che volete che sia?
Ammesso e non concesso che sia dell'importanza di una tazzina di caffé, non si capisce come mai Napolitano l'abbia sollevata proprio adesso e contro la Procura di Palermo.
Perché, in precedenza, quella di Firenze, nell'ambito delle indagini sulla cosiddetta cricca degli appalti, aveva messo agli atti proprio le telefonate intercorse tra il Presidente e Bertolaso, in cui il primo si preoccupa, con una grande partecipazione emotiva, della situazione dei terremotati dell'Aquila.
Quindi l'affermazione ripetuta adesso pure da Ezio Mauro che "il Presidente non ritiene che i testi delle sue conversazioni private debbano essere divulgati, a tutela delle sue prerogative più che del caso specifico" suona finta e appare di giorno in giorno come la classica foglia di fico, che però è più imbarazzante di Alte nudità verbali che probabilmente serve ad occultare.

Poi Mauro inizia a menare il can per l'aia, mettendo sullo stesso piano le telefonate di Napolitano con Nicola Mancino, testimone poi divenuto indagato, con quelle intercorse  per finalità istituzionali con i più disparati interlocutori, nell'ambito di quella tipica attività istituzionale di moral suasion che il Capo dello Stato quotidianamente deve esercitare sia come potere discrezionale che come dovere d'ufficio. Come, ad esempio, quella che ha caratterizzato le settimane precedenti le dimissioni di Berlusconi e l'avvento di Mario Monti a Palazzo Chigi.
Per poi domandarsi retoricamente "è interesse di Napolitano (posto che non si parla in alcun modo di reati) o è interesse della Repubblica che queste conversazioni non vengano divulgate? Secondo me è interesse di tutti, con buona pace di chi allude senza alcuna sostanza a misteriosi segreti da proteggere, già esclusi da tutti gli inquirenti."
Ecco che il direttore di Repubblica finisce per attestarsi rapidamente sulla linea di Scalfari circa l'esistenza di un complotto contro il Quirinale, che egli ammette di aver focalizzato sul nascere già due mesi fa.
Non arriva a definirne i contorni, con nomi e cognomi, ma siamo lì, è lo stesso populismo giuridico evocato da Luciano Violante qualche giorno fa.
Solo che ci arriva, con uno sforzo retorico degno di migliore causa, con un discorso tutto strampalato dove, ficcandoci dentro tutto e il suo contrario e agitando prima dell'uso (shakerando da bravo barman persino le categorie culturali della destra e della sinistra), alla fine va a parare sempre lì, sull'antipolitica, che sarebbe l'origine di tutti i mali italiani.
Due i passaggi decisivi:
"Io ho una mia risposta, che non piacerà ai miei critici sui due spalti contrapposti. Il fatto è che l'onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra. Una destra diversa dal berlusconismo, evidentemente, ma sempre destra: zero spirito repubblicano, senso istituzionale sottozero (come se lo Stato fosse nemico), totale insensibilità sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza e dell'emancipazione, delega alle Procure non per la giustizia ma per la redenzione della politica, considerata tutta da buttare, come una cosa sporca."

Ma con chi ce l'ha? E' l'identikit dell'attuale Partito Democratico...
Sembra impossibile, forse abbiamo capito male, così andiamo avanti:
"Ma per chi ha queste posizioni, cultura è già una brutta parola. Meglio alzare ogni giorno di più i toni chiamando i politici "larve", "moribondi", "morti". Meglio alimentare la confusione, fingere che la destra sia uguale alla sinistra, che è il vero nemico, come il riformismo è stato sempre il nemico del massimalismo.
Ecco perché per coloro che sostengono queste posizioni Berlusconi non è mai stato il vero avversario, ma semplicemente lo strumento con cui suonare la loro musica. Per questa nuova destra, Napolitano e Berlusconi devono essere uguali, ingannando i cittadini."
Ah, adesso è chiaro: ce l'ha pure lui con Beppe Grillo, Antonio Di Pietro, e perché no?, Marco Travaglio e i ragazzi del Fatto Quotidiano!
Siamo all'apoteosi del ridicolo: insomma, la colpa della decadenza italiana, del fallimento politico-istituzionale ed economico-finanziario, sarebbe, udite udite, di chi fuori dal Palazzo (è bene precisare, con la propria dedizione quotidiana e senza prendere una sola lira di denaro pubblico!) negli ultimi vent'anni ha denunciato la corruzione, le ruberie, il parassistismo, il nepotismo e l'incompetenza della partitocrazia, le deviazioni dal solco costituzionale della nostra democrazia.
Gli unici responsabili dello scempio attuale sarebbero cioè coloro che da sempre invocano verità e giustizia e sostengono il lavoro dei magistrati affinché accertino la responsabilità di quanti, dentro e fuori le Istituzioni, quale che sia il colore politico e il ruolo ricoperto, sono stati gli ispiratori, i mandanti, i lucratori della stagione del Terrore politico-mafioso.
Per Mauro addirittura rappresentano "la nuova destra", non meno pericolosa di quella berlusconiana, da  "'il Borghese' degli anni più torvi" (dice proprio così!).
Adesso si capisce come mai dalle parti del Pdl, Bondi, Cicchitto, Gasparri, Ferrara & c., increduli, stiano festeggiando.


martedì 14 febbraio 2012

Se Atene piange, Roma non ride

Repubblica di domenica scorsa ci ha rivelato che, alla vigilia del viaggio americano, il premier Mario Monti in un faccia a faccia con il segretario generale della CGIL Susanna Camusso avrebbe raggiunto un accordo per una sospensione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per i precari e per una interpretazione ufficiale meno rigida del principio di giusta causa da parte dei tribunali del lavoro.
Questo incontro, che si sarebbe svolto secondo il quotidiano di Piazza Indipendenza in "territorio neutrale" e che sarebbe dovuto restare segreto, getta un'ulteriore ombra sul funzionamento della nostra democrazia, dove sempre più spesso le decisioni che contano vengono prese fuori dalle sedi istituzionali, in vertici a quattr'occhi,  possibilmente lontano da sguardi indiscreti.
Anche se, come in questo caso, i protagonisti prontamente smentiscono con una inusuale nota diramata congiuntamente da Palazzo Chigi e dalla Cgil;  ma il vicedirettore Massimo Giannini conferma la veridicità della notizia.
Insomma i palazzi della politica sempre più spesso si limitano a registrare quanto viene deciso altrove rivestendo  un ruolo di pura (sia pure elegante) tappezzeria, di fatto retrocessi a semplici organismi burocratici che intervengono successivamente per apporre i crismi necessari all'emanazione dei provvedimenti legislativi.
E' un fenomeno noto da tempo e sicuramente inquietante che contribuisce alla crescente e ormai generale disaffezione per la politica, in un'Italia dei poteri forti, delle lobbies, delle logge segrete, delle varie P2 - P3- P4.
Ancora più preoccupante in tempi come i nostri in cui il cosiddetto governo dei tecnici, uscito dal cilindro del presidente Napolitano, si regge su una alleanza inedita tra PD e PDL che in un sistema bipolare, a vent'anni dall'ingresso nel maggioritario, suona come una autentica bestemmia.
Precisazione necessaria soprattutto per rispondere a quanti, tra  politici e opinionisti, approssimandosi un'intesa ritenuta imminente tra  Bersani e Berlusconi sulla nuova legge elettorale, continuano a declamare le presunte virtù del sistema maggioritario che permetterebbe ai cittadini di scegliersi il premier: purtroppo questa tesi è smentita inoppugnabilmente proprio dalla nomina dell'outsider Mario Monti a capo del governo.
Questi leader politici sono così poco credibili e a mal partito (è proprio il caso di dirlo), che risulterebbe comico, se non fosse per altri versi tragico, sentirli difendere la politica del preside della Bocconi, partendo da posizioni ideologiche apparentemente opposte: domenica sera è stato il turno di Angelino Alfano, ospite su RaiTre di Fabio Fazio.
Ma assistere alle peregrinazioni verbali, flagellate da continui anacoluti, del suo omologo Pierluigi Bersani non è più confortante.
Tuttavia, in un logoro gioco dei ruoli, ciascuno di loro nelle continue comparsate televisive ancora ha l'impudenza di ammiccare al proprio elettorato di riferimento (se mai ancora ne vanta uno).
Quando, però sono costretti, in base all'agenda politica, ad accordarsi di persona,  per non esacerbare gli animi già esasperati dei loro sparuti sostenitori, optano per soluzioni estreme, come ad esempio appuntamenti al buio, magari in un tunnel sotterraneo. 
Già è successo nel sottosuolo di Roma tra Palazzo Giustiniani e Palazzo Madama  per il varo del governo di Mr. Monti.
Che questo strano andazzo segni se non la fine sicuramente la sospensione della democrazia  è opinione largamente diffusa: con l'Italia non messa meglio politicamente della Grecia dove l'omologo di Monti si chiama  Luca Papademos, uomo della BCE, e ha fatto varare, davanti ad un paese in rivolta, l'ennesima insopportabile manovra di austerity.
Purtroppo, i paesi dell'Europa mediterranea stanno subendo il ricatto delle banche che, dopo aver provocato la più grossa crisi finanziaria dell'età moderna, invece di renderne conto, anche sul piano penale, ai cittadini e alle istituzioni del proprio paese, le hanno occupate con la complicità della politica, infischiandosene altamente della sovranità popolare.
Così mentre la Grecia brucia, i giornali titolano schizofrenicamente che "le borse e i mercati respirano", poiché il Parlamento di Atene, con la pistola puntata alla tempia dalla troika europea (BCE, FMI, UE), ha mandato giù l'ennesimo boccone amaro tra pesanti tagli al salario minimo, licenziamenti e ticket sulla sanità.
Nel frattempo, il governo Monti, che soltanto due mesi fa aveva  approvato la sua prima manovra antipopolare (l'ennesima del 2011), si accinge adesso con incontri alla chetichella  a varare una riforma del mercato del lavoro destinata ad affondare i colpi nella carne martoriata del lavoro dipendente.
Nessuna sorpresa: è tutto sommato normale che in una democrazia sospesa, commissariata da un ex consulente della banca d'affari americana Goldman Sachs e fresco di ritorno da un viaggio trionfale negli States, il governo sospenda l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Come abbiamo più volte ripetuto, la sospensione di tale articolo non ha alcuna spiegazione economica ma è un intervento squisitamente politico con cui suggellare, anche sul piano  simbolico, il passaggio epocale da una repubblica fondata sul lavoro a uno stato oligarchico dominato dalle banche.
In altre parole, la presunta enfatizzata 'modernità' del mercato del lavoro, per effetto del venir meno della tutela del reintegro obbligato in caso di licenziamento discriminatorio, consiste proprio nel lanciare alle multinazionali un esplicito messaggio di resa del nostro welfare al far west imposto dalla globalizzazione.
Di ciò Monti non ha fatto mistero: "per come viene applicato in Italia l'articolo 18 sconsiglia l'arrivo di capitali stranieri e anche di capitali italiani" ha dichiarato in una recente apparizione a RepubblicaTv.
Eppure, oltre alla inconsistenza di un qualche nesso logico, non c'è alcuna evidenza empirica che l'abolizione di tale tutela possa generare un solo posto di lavoro in più.
E anche sul piano numerico, l'applicazione dell'articolo 18 è assolutamente insignificante: secondo dati della Cgil, negli ultimi 5 anni di 31.000 cause contro i licenziamenti illegittimi solo l'1 per cento si è conclusa con il reintegro nel posto di lavoro.
Ma allora quale la ragione di tanto accanimento?
"Ce lo chiedono le multinazionali" fanno capire Monti e Fornero, confermando che nell'Italia commissariata dai tecnici contano molto di più le grandi concentrazioni finanziarie che la sovranità popolare, quand'anche, come in questo caso, la loro richiesta manchi di qualunque presupposto scientifico se non il riflesso condizionato di un capitalismo primordiale, da animal spirits.
E' accettabile che il presunto governo dei tecnici ponga mano ad un epocale arretramento del diritto del lavoro senza che la collettività venga direttamente investita della questione?
Questione che, al di là delle mere valutazioni di carattere economico, resta comunque  intrisa di profondi significati ideali, storici, di conquista sociale e di innumerevoli riferimenti costituzionali.
Infine, è ammissibile che si faccia carta straccia di due successive consultazioni referendarie che ancora nel 2000 e nel 2003 hanno sancito il rifiuto popolare a prendere in considerazione questo argomento?
Ma il solo doverci porre simili interrogativi è sintomatico del fatto che se Atene piange, Roma non ride.

PS (15 febbraio 2012 h. 14.30): Il Fatto Quotidiano del 14 febbraio, a pagina 9, conferma la ricostruzione di Massimo Giannini avendo saputo da fonte qualificatissima che all'incontro tra Mario Monti e Susanna Camusso era presente proprio il direttore di Repubblica, Ezio Mauro.
In un sol colpo, doppio sbugiardamento per il premier e il numero 1 della Cgil!
A questo punto, almeno un altro paio di domande sono d'obbligo: perché la Presidenza del Consiglio e il primo sindacato italiano si espongono così tanto nel negare l'incontro? Perché Repubblica dà addirittura per fatto un accordo di massima, commettendo un'evidente scorrettezza nei confronti della Camusso in mancanza di evidenze documentali? 

venerdì 3 ottobre 2008

La barca affonda ma il duo Veltroni Berlusconi prosegue la sceneggiata

Situazione di estremo rischio quella che si sta manifestando con un’impressionante accelerazione di tempi ed intensità sui mercati finanziari di tutto il mondo, sotto gli occhi attoniti di una sterminata platea di risparmiatori.
Paradossalmente nessuno ha ancora dato una risposta convincente, neppure sul piano teorico, a quello che sta accadendo in questi giorni: i media si limitano a registrare il cataclisma senza sbilanciarsi più di tanto sulle cause e le responsabilità.
Di certo quando la finanza subisce un simile tracollo globale c’è da chiedersi se non sia caduto in una spirale irreversibile un intero modello di sviluppo economico: vent’anni dopo il crollo del socialismo reale targato Unione Sovietica, si scopre che il modello antagonista, il capitalismo, forse a causa della sua forma più spinta assunta nell’ultimo decennio, la globalizzazione, presenta crepe formidabili che ne mettono a rischio la sopravvivenza.
Il fatto che a soccorso dei mercati debba intervenire l’autorità pubblica è la riprova che i meccanismi di autoregolazione del mercato semplicemente non esistono o, comunque, non funzionano a dovere: il mito di Adam Smith della mano invisibile, ancora così duro a morire nonostante le autorevoli confutazioni dei grandi economisti di fine Ottocento, riceve l’ennesima bocciatura.
Dietro l’irricevibile piano Paulson che accolla sui contribuenti americani, in prima battuta, una voragine di debito da 700 miliardi di dollari (circa la metà del PIL italiano!) per salvare il sistema bancario, c’è una impressionante catena di errori ed omissioni che vede nelle autorità di vigilanza dei mercati americani e nella Fed i principali responsabili, naturalmente a braccetto con la pessima amministrazione Bush.
Si parla tanto di mutui subprime, quelli concessi alle famiglie americane con grande leggerezza e senza tante garanzie, ma ormai è chiaro che ritenerli la causa scatenante di questa crisi è quantomeno azzardato.
Perché per anni la locomotiva americana ha viaggiato con un doppio enorme deficit (quello commerciale e quello federale) senza che nessuno se ne preoccupasse più di tanto; al contrario l’ex governatore della Fed, Alan Greenspan, ha drogato a lungo la crescita economica americana, inondando il paese di un’enorme liquidità che si è andata ad infilare, piuttosto che nei settori innovativi ed ad alto valore aggiunto, in quello delle costruzioni (con la spaventosa bolla immobiliare), delle forniture militari e dell'ingegneria finanziaria con i risultati che tutti adesso possono vedere.
Senza una politica di deregulation sconsiderata, senza gli appetiti famelici di tanti top manager tacitati a suon di stock options, senza la religione del laissez-faire, tutto ciò non sarebbe potuto accadere: l’economia reale degli States è stata fatta deragliare ed ora la finanza registra d’improvviso quello che da tempo molti osservatori invano denunciavano.
Certo è che da questa situazione non se ne potrà uscire senza far pagare ai cittadini di mezzo mondo, a causa delle stretta interdipendenza planetaria dell’economia a stelle e strisce, un prezzo salatissimo: di fronte ad indecenti arricchimenti individuali, il conto della crisi verrà come al solito presentato ad intere popolazioni che si vedranno ridimensionare il loro a volte già modesto tenore di vita, decurtando redditi e servizi pubblici mentre tassazione e disoccupazione schizzeranno in alto.
Ma ancor oggi in Italia, al di là dei toni sensazionalistici dei media, non c’è veramente nessuno che si azzardi a fare una lucida analisi degli avvenimenti in corso né tanto meno che osi spingersi sul terreno comunque impervio delle previsioni: sembra quasi che molti economisti se la siano data a gambe, sparendo dal circuito mediatico proprio mentre i cittadini vorrebbero delucidazioni sul loro futuro di imprenditori, consumatori, risparmiatori, lavoratori, pensionati.
L’altra sera a Ballarò è andata in scena l’ennesima baruffa televisiva attorno a questa crisi da parte di alcuni dei nostri politici a cui gli elettori hanno affidato il compito di dare risposte per una volta chiare e tempestive.
Malgrado l’ottimo lavoro della redazione di Giovanni Floris per presentare il problema con tabelle di dati e filmati e, dunque, avviare la discussione, gli ospiti in studio hanno mostrato una disarmante impreparazione sui temi dibattuti: parlavano spesso per sentito dire, visibilmente impacciati ed insicuri nelle argomentazioni, rifugiandosi continuamente nella zuffa verbale quale unico terreno congeniale per nascondere i propri limiti culturali; l’unica persona informata sui fatti e che pertanto giganteggiava di fronte a tanta insipienza era il deputato Bruno Tabacci: nel complesso, uno spettacolo veramente deludente.
Altrettanto da bocciare, contrassegnandola con la matita blu, è la diagnosi che fa dalle colonne del suo giornale il direttore di Repubblica Ezio Mauro quando sentenzia: "Chi dice che il capitalismo crolla mentre resuscita il socialismo non ha di nuovo capito niente, perché il capitalismo assiste all'incepparsi non di sé, ma del nuovo sistema di scambio simultaneo universale che sfrutta da un decennio lo strumento di reti che avviluppa il mondo abbattendo spazio e tempo, grazie alla potenza del motore tecnologico di internet, capace di vincere la storia rendendo tutto contemporaneo, e persino la geografia, facendo ubiqua ogni cosa."
Purtroppo non si rende conto di aver preso un grosso abbaglio nell’attribuire, addirittura, la colpa di questo ciclone finanziario ad Internet ed alla grande rete telematica che avvolge il globo. Come se fosse la simultaneità degli scambi la causa di questa tempesta annunciata; al contrario, proprio essa è, generalmente, fattore di stabilizzazione dei mercati, come qualsiasi studente di economia politica al primo anno gli potrebbe spiegare.
Il dramma di questa crisi è, diversamente, l’assoluta inadeguatezza della politica a fronteggiare la globalizzazione, ultimo stadio del capitalismo. Il quale nel suo impeto primordiale di occupare tutti gli spazi economici disponibili ha finito per accumulare una mostruosa potenza divoratrice che tutto travolge al suo passaggio, persino le fragili istituzioni nazionali.
Ma come si fa a non accorgersi che la dimensione politica è stata del tutto fagocitata dai formidabili poteri economici che, sulla scena internazionale, dettano l’agenda ai singoli governi sia al di qua che al di là dell’Atlantico?
E’ forse un caso se, ritornando alle beghe di casa nostra, la bufera di Tangentopoli, segnando la fine della prima repubblica, abbia fatto emergere incontrastata la figura di un potentissimo uomo d’affari come Silvio Berlusconi che, di certo, nel fare impresa non si sente minimamente condizionato dai confini nazionali né dai tanti lacci e lacciuoli della democrazia rappresentativa?
La verità è che, ripassando la lezione di Marx e di Schumpeter, il capitalismo diventa asociale quando si impossessa con esponenziale voracità di tutte le risorse economiche: di qui la necessità di rispolverare il vero nodo mai sciolto che fa da sfondo a questa come alle precedenti crisi dell’Occidente industrializzato: Stato o Mercato?
Perché se deve prevalere il primo, quale moderno Leviatano, occorre che il Mercato venga imbrigliato in un rigoroso sistema di vincoli e di regole per evitare che faccia danno a se stesso prima ancora che ai suoi attori.
Ma garantire la sopravvivenza del mercato (con la m minuscola) è compito talmente impegnativo da richiedere lo sforzo coordinato dello Stato e di istituzioni sovranazionali.
C’è bisogno, dunque, di un nuovo ordine mondiale, basato non soltanto su un nuovo assetto geopolitico ma sul regolare funzionamento di istituzioni nazionali e sovranazionali che sul terreno dell’economia riescano a domare gli ormai pericolosi animal spirits.
E l’Europa deve fare da subito la sua parte per istituire un sistema di vigilanza della finanza a livello continentale prima che l’ondata di piena travolga le economie dei singoli paesi, le cui autorità agiscono ancora in ordine sparso. Sistema che preveda, con i necessari controlli, l’applicazione di severe sanzioni per i trasgressori.
Probabilmente, siamo ancora all’inizio della tempesta (l’ottovolante descritto dal titolo Unicredit nella giornata di ieri, dopo giorni di passione, non fa presagire nulla di buono, non solo per il primo gruppo bancario italiano ma per tutti noi) ma è bene prepararsi anche qui in Italia a settimane molto difficili, specie con una classe politica così imbelle che non trova di meglio, per voce dei suoi esponenti di punta Berlusconi e Veltroni, che dare vita all’ennesima zuffa mediatica: ennesimo round di un finto match che non incanta più nessuno.

martedì 29 aprile 2008

La Quercia caduta

Scrive il direttore di la Repubblica Ezio Mauro nel commento di oggi sul voto per il Campidoglio:
Un voto, bisogna dirlo con chiarezza e subito, del tutto ideologico, che viene in gran parte dalla sinistra radicale, così convinta dalla tesi autoassolutoria che vede nel Pd la colpa della sua scomparsa dal Parlamento, da far pagare al Pd la battaglia di Roma, lavorando contro Rutelli. Per questi cannibali fratricidi, grillisti e antagonisti, Rutelli era il bersaglio ideale, come anche per qualche estremista del Pd: troppo cattolico, importatore della Binetti, amico dei vescovi, come se la scommessa fondativa e perenne del Pd non fosse quella di tenere insieme, a sinistra, cattolici ed ex comunisti. Un ideologismo a senso unico: che serve ad azzoppare la sinistra, facendola perdere, mentre non scatta per bloccare l'uomo di An in marcia verso il Campidoglio. Anzi.

È da qui, oggi, che deve partire Veltroni. Guardando in faccia questo problema grande come una casa, la sindrome minoritaria della sinistra. Con il vantaggio che Roma dimostra - sommando il fuoco amico su Rutelli e le astensioni - come con la sinistra radicale e il suo ideologismo suicida non si possano ipotizzare alleanze, se non per perdere.”


Lo avevamo previsto sin da ieri: l’analisi politica elaborata dallo staff di Repubblica è scientemente miope e assolutamente infondata.
Non è forse vero che senza il contributo determinante di Veltroni, la Sinistra non sarebbe scomparsa dal Parlamento?
Non è forse Veltroni (naturalmente si intende il gruppo dirigente che si rifa a lui) che ha reso la parola Sinistra, attraverso un linciaggio mediatico unico al mondo grazie alla collaborazione non disinteressata del Cavaliere, del tutto fuori moda, senza alcun appeal?
L’aver tagliato le radici culturali, le proprie più autentiche e appassionate origini popolari, ha significato segare l’albero in cui da un secolo era stata costruita l’alternativa democratica ai poteri forti: costruire il PD non doveva necessariamente significare abbattere la Quercia.
Com’è possibile ancora non rendersene conto?
Le mille candidature sbagliate, in forza di una legge elettorale pessima (o adesso non lo è più?!), hanno rivelato l’esistenza all'interno del Partito Democratico di un direttorio isolato, che ha perso completamente il contatto con la realtà e con la propria base elettorale: un ceto politico radical per convenienza e chic per modello culturale di riferimento, che non nasconde di condividere gli stessi valori ideali del centrodestra.

La Sconfitta era nell’ordine delle cose: strapazzare il governo Prodi, quando fino a prova contraria i DS ne sono stati l’anima ispiratrice, calunniandolo di ogni nefandezza dopo la caduta; gridare ai quattro venti che con la Sinistra non sarebbe stato più possibile costruire nulla insieme (ma il governo Prodi non è caduto per colpa dei Mastella, dei Dini, ecc.?); appiattirsi su una proposta politica praticamente identica a quella di Berlusconi non poteva che portare dritti dritti a questo risultato disastroso.
Quanto al fatto che con la Sinistra, per Ezio Mauro, non si possano ipotizzare alleanze se non per perdere, si tratta di un’affermazione del tutto insensata, smentita inoppugnabilmente dai fatti.
Il Partito Democratico, andando in campagna elettorale da solo e contro i propri tradizionali alleati, ha fallito su tutti i fronti.

Quel che è peggio, lo ha fatto in maniera così netta, senza alibi o scusanti, da non permettere neanche di sperare a medio termine in una rivincita: il buon Walter, consiglio spassionato, farebbe meglio a rendersene conto prima di essere paracadutato dai suoi stessi compagni di cordata.
Del resto se si tagliano i ponti con spocchiosa presunzione con una larga fetta della società civile, dei movimenti, dell’ambientalismo, del pacifismo, del grillismo, favorendo in modo decisivo il loro allontanamento dal Parlamento, come poi si può pretendere che questi stessi settori dell’opinione pubblica firmino una cambiale in bianco a favore del gruppo dirigente del PD, reo di averne organizzato l’ostracismo (come le parole di Ezio Mauro confermano per l'ennesima volta)?
Come si vede l’analisi politica del direttore di la Republica è un coacervo di pregiudizi, di abbagli, di contraddizioni.
Ma, a questo punto, sarebbe non solo ingeneroso ma tecnicamente assai scorretto, prendersela con Francesco Rutelli che, nell’occasione, è apparso più che altro una vittima sacrificale predestinata.

Il suo grande errore è stato, purtroppo, quello di non aver capito in tempo, accettando la candidatura a sindaco della Capitale, quale polpetta avvelenata l’amico Veltroni gli stava rifilando.

Lo ha capito forse prima delle elezioni politiche del 13 aprile, ne siamo convinti, ma era ormai troppo tardi per tirarsene fuori.