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martedì 16 aprile 2013

Il Movimento 5 Stelle ha costruito al PD un'autostrada per il cambiamento


Dopo tante chiacchiere, è arrivato il momento di giocare a carte scoperte. 
Perché Pierluigi Bersani, ormai all'ultimo giro di giostra, deve finalmente dimostrare che il refrain di queste settimane, ripetuto come un tormentone estivo, varare il tanto famigerato governo del cambiamento, non è un semplice espediente dilatorio, cioè uno slogan da dare in pasto alla sua base elettorale, con il morale sotto le scarpe, per confortarla dopo l'ennesima cocente delusione di una vittoria mancata sul filo di lana: forse l'estremo bluff di una leadership ormai senza idee e senza passione.
In queste settimane, facendo a pugni persino con il comune buon senso prima ancora che con la legge dei numeri, il segretario democratico ha cercato in tutti i modi di farsi dare un incarico pieno da Giorgio Napolitano per dare vita ad un esecutivo di minoranza che, di volta in volta, avrebbe cercato i voti in Parlamento, magari facendo scouting tra gli eventuali Scilipoti del M5S ovvero continuando ad inciuciare con il Cavaliere in incontri a porte chiuse. 
Una strada sbarrata che ha costretto il Paese alla paralisi dell'attività istituzionale, perché nel frattempo, d'accordo col PDL, Pierluigi Bersani ha impedito la costituzione delle commissioni parlamentari permanenti e dunque l'avvio dei lavori delle assemblee legislative, oltre a rendere ancora più impervia la strada per un nuovo esecutivo, costringendo il Presidente della Repubblica a prendere tempo.
Solo così si può spiegare la convocazione di un'imbarazzante Congrega dei Dieci Saggi che in dieci giorni di inutile 'copia e incolla' hanno prodotto delle relazioni assolutamente irrilevanti, di cui nessuno già oggi, a distanza di soli quattro giorni, si ricorda più.
Mentre dentro il suo partito i mugugni si sono trasformati rapidamente in una vera e propria guerra di tutti contro tutti e, soprattutto contro di lui, Bersani, che già aveva giocato ambiguamente di sponda con il Cavaliere per l'elezione di Piero Grasso, uomo d'apparato, alla presidenza del Senato.
In questo quadro, il duello a distanza di ieri tra il rottamatore Matteo Renzi e la senatrice Anna Finocchiaro denuncia lo sfaldamento del PD mentre il segretario si incaponisce ad inseguire l'araba fenice di un governo a sua immagine e somiglianza,  seguendo una strategia schizofrenica: insistere con Napolitano nel volersi presentare alle Camere con un governo di minoranza mentre contemporaneamente cerca addirittura le larghe intese con Berlusconi per la scelta del prossimo inquilino del Colle. 
Una pretesa politicamente assurda: come pure i sassi sanno, la partita del prossimo governo si giocherà, come la Costituzione impone, proprio nelle stanze del Quirinale per cui non si capisce perché il maldestro smacchiatore di giaguari voglia lasciare fuori dalla porta di Palazzo Chigi il Cavaliere, quando proprio con lui intende scegliere il nome del nuovo Presidente della Repubblica, per i prossimi sette anni vero deus ex machina della vita istituzionale del nostro Paese.
Com'è possibile che Berlusconi sia impresentabile per Palazzo Chigi ma è partner affidabile, leale e autorevole per il Colle? 
Ai simpatizzanti del PD l'ardua sentenza!
Forse dietro questo suo atteggiamento apparentemente incomprensibile c'è la convinzione di poter contare comunque sui voti del M5S, come se ritenesse inconsciamente che siano voti del PD in momentanea libera uscita: ma se così fosse, la parola dovrebbe passare ad un bravo psicanalista.
Anche perché il M5S e il suo leader Beppe Grillo gli hanno sbarrato la strada da subito, in modo plateale, senza lasciargli speranza alcuna. 
E' vero, Bersani ha cercato di 'convincere' Grillo attraverso una  fatwa mediatica, accusandolo indirettamente di tutto, semplicemente perché, coerentemente alla campagna elettorale e alle battaglie politiche degli ultimi cinque anni (a partire dal primo V-day), il leader del M5S si è rifiutato di firmargli una delega in bianco su quei famigerati otto punti di programma, fra l'altro tutto fumo e niente arrosto.
Un politico con un minimo di senso della realtà avrebbe immediatamente compreso che un movimento di cittadini come quello guidato da Grillo si sarebbe condannato all'irrilevanza politica se avesse dato il nulla osta ad un'operazione del genere, ovvero un governo a guida Bersani, il quale, già durante le consultazioni, dichiarava che, una volta seduto a Palazzo Chigi, in mancanza dell'appoggio dei parlamentari pentastellati sui singoli provvedimenti, avrebbe non solo fatto scouting nelle sue fila ma cercato pure il soccorso azzurro di Berlusconi.
Ad esempio, su una questione cruciale come la Tav, in mancanza dei voti di Grillo, l'impareggiabile premier Pierluigi avrebbe cercato il consenso scontato del PDL, con il M5S messo così fuori gioco e lasciato in un angolo a leccarsi le ferite e a meditare con Seneca sull'ingratitudine umana
Perché togliere la fiducia ad un governo a cui la si è inizialmente accordata non è così facile come qualche ingenuo potrebbe pensare: anzi, in talune circostanze, è praticamente impossibile. 
A quel punto, addio Movimento, morto prima di essere diventato adulto, come un fiore di campo che resiste al gelo primaverile ma perde i petali al primo soffio di vento.
Adesso, grazie alla coerenza e lungimiranza del suo leader, il M5S torna al centro della scena politica avendo, con le sue Quirinarie (tanto sbeffeggiate dai media di regime quanto in fin dei conti rivelatesi preziose), indicato al PD un poker di nomi, difficilmente rispedibili al mittente.
Milena Gabanelli in pole position, Gino Strada, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, tutte persone perbenissime, esponenti di chiara fama di quella società civile con cui, in queste settimane, Bersani ha detto di voler interloquire (lo dimostra il numero sterminato di delegazioni non partitiche ricevute nel suo giro di consultazioni).
C'è solo l'imbarazzo della scelta: non sta a noi ripercorrere lo specchiato curriculum di questi Italiani a cui gli iscritti al M5S hanno riservato le loro simpatie.
La scelta di uno di loro, posto che il candidato di bandiera per le prime tre votazioni per Grillo sarà proprio Milena Gabanelli, significherebbe finalmente una svolta nella politica italiana, capace di rappresentare per la prima volta dai tempi fulgidi di Sandro Pertini un sentimento di stima diffuso e trasversale che scavalca la tradizionale e sclerotica dicotomia destra - sinistra, che ha nascosto in questi anni, dietro un'apparente contrapposizione ideologica, una smaccata convergenza di interessi, tanto torbida quanto sottaciuta: il famigerato inciucio.
Grillo e i suoi parlamentari hanno così scaraventato la palla nel campo del PD che a questo punto deve scoprire le proprie carte: perché rifiutare questi nomi sembrerebbe una missione impossibile. 
Non fosse altro che  appaiono di altissimo gradimento proprio nell'elettorato di centrosinistra e alcuni di loro pescano larghi consensi anche nel centrodestra: è il caso dei due insigni costituzionalisti Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà.
In una fase storica in cui si tratta di mettere mano a imponenti riforme istituzionali, chi meglio di un valente giurista può farsi garante della transizione indolore e in punta di Costituzione alla Terza Repubblica?
Se Bersani e il gruppo dirigente del PD non saprà cogliere l'attimo fuggente che da giovedì mattina si presenterà al Parlamento riunito in seduta comune con i rappresentanti delle Regioni, non solo decreterà un definitivo fallimento personale ma innescherà la deflagrazione del Partito Democratico, costringendo il Paese a tornare al più presto alle urne dopo un drammatico nulla di fatto.
Contro la tentazione del grande inciucio con Silvio Berlusconi per puntare su nomi a questo punto di basso o bassissimo profilo come Amato, Marini, D'Alema, Violante, Severino, Cancellieri, Bonino, Finocchiaro, Monti, Casini e chi più ne ha più ne metta, il poker esibito dal Movimento 5 Stelle metterà automaticamente a nudo i vizi e le virtù del gruppo dirigente del PD. 
Anche perché qualcuno dovrà prima o poi spiegare ai propri elettori perché mai le larghe intese si debbano fare con il PDL, terza forza politica alla Camera, e non con il Movimento di Grillo che, almeno in Italia, ha preso pure un numero di voti superiore a quelli dello stesso PD.
Insomma, il Movimento 5 Stelle, lungi dall'Aventino in cui certa stampa lo accusa di essersi relegato, ha costruito in tempi record un'autostrada al Partito Democratico per far uscire il Paese dall'intricatissimo ingorgo istituzionale e magari dargli, dopo quattro mesi, un buon governo finalmente nella pienezza dei suoi poteri.
Per Bersani e c., insistere con i vecchi riti sarebbe politicamente irresponsabile oltre ad essere esiziale per il suo partito, fra l'altro dovendo smetterla di ripetere come un disco rotto: è tutta colpa di Grillo...
Aspettiamo pazientemente il PD al casello con uno dei quattro prestigiosissimi ticket.


sabato 2 giugno 2012

Più l'informazione si accanisce contro Grillo, più il Movimento 5 Stelle conquista consensi

Il boom di Beppe Grillo e del Movimento 5 Stelle ha mandato in tilt non solo i palazzi della politica, dove la Casta è acquartierata da decenni in mezzo ai privilegi (non ultimo la scorta che li accompagna, persino quando vanno a fare la spesa all'Ikea, vero senatrice Finocchiaro?), ma le redazioni dei giornali che stanno veramente impazzendo per scaraventare contro il Beppe nazionale, tutto ciò che può passare mediaticamente per distruggerne l'irresistibile ascesa verso la più che probabile vittoria alle elezioni politiche della prossima primavera.
Perché già adesso i sondaggi danno il suo movimento in vista del 24-25%, bruciando sullo scatto persino il Pd, e diventando forse la prima forza politica in Italia, per giunta senza essere un partito, senza un soldo di finanziamento pubblico e senza un briciolo di presenza in televisione.
Un passaggio d'epoca, fino a qualche giorno fa roba da libro dei sogni.
Insomma, all'improvviso nel firmamento della politica italiana è nata una stella, o meglio ne sono nate 5!
E c'è da scommettere che di qui ad un anno, bomba o non bomba (come giustamente denuncia il suo leader sul noto refrain di Antonello Venditti), per il Movimento 5 Stelle sarà l'apoteosi, in barba alla Casta ed a quanti si augurano che con qualche attentato sanguinoso si possa bloccare la legittima e democratica aspirazione degli Italiani ad avere finalmente voce in capitolo nelle scelte collettive, senza la pelosa e asfissiante intermediazione dei partiti.
Per questo i due maggiori quotidiani nazionali fanno a gara nel tentare di fare le pulci alla vittoria di Grillo.
E' partito lancia in resta Repubblica, insinuando, già la sera stessa della vittoria di Federico Pizzarotti a Parma, che il giovane neosindaco avesse preso da subito le distanze dal proprio leader.
Come? Con un'intervista in cui vengono riportate le sue prime adrenaliniche dichiarazioni da vincitore inatteso, fatte passare come vera e propria dichiarazione d'intenti, degna di un consumato uomo politico.
Tanto è bastato per creare un caso, su cui altri giornali si sono fiondati a corpo morto, con l'Unità che addirittura titolava perfidamente solo due giorni dopo l'exploit elettorale: "Pizzarotti-Grillo, c'eravamo tanto amati..."
Puro sciacallaggio mediatico, a confronto del quale i mitici panini del Tg1 di Minzolini sembrano l'audace colpo dei soliti ignoti.
Ma il gioco di dividere subito i vincitori è stato così scoperto e precipitoso che soltanto qualche lettore distratto avrebbe potuto abboccare.
E' poi intervenuto lo stesso Pizzarotti a smantellare tutto il castello di carta così faticosamente costruito a Piazza Indipendenza.
Non paga del magro risultato,  Repubblica ha tentato di strumentalizzare il defenestramento avvenuto prima delle Comunali di tal Tavolazzi, accusato da Grillo di promuovere una fronda interna e che poi, una volta messo alla porta, sarebbe voluto rientrare in partita cercando di ottenere dal neosindaco grillino addirittura la poltrona di direttore generale del comune di Parma.
Va da sè che, al di là del merito della sua espulsione, è quanto meno deprecabile che chi è stato mandato via dal portone principale della politica, rientri dalla finestra sotto le mentite spoglie di tecnico.
Ma tanto è bastato perché  i seguaci di Scalfari titolassero che Beppe Grillo era nientedimeno il mandante di una "fatwa" nei suoi confronti, la seconda consecutiva (secondo loro!) dopo il monito da lui stesso lanciato contro la partecipazione dei suoi candidati ai talk show televisivi.
Sì, avete capito bene: Repubblica rinfaccia al leader del Movimento 5S di aver dichiarato contro il Tavolazzi peggio di un ostracismo, una condanna per capirci come quella a suo tempo emanata dal regime iraniano degli ayatollah contro lo scrittore Salman Rushdie, controverso autore dei "Versetti satanici".
A quale livello di imbarbarimento intellettuale deve scendere il secondo quotidiano italiano (particolare non trascurabile, che riceve sostanziosi finanziamenti pubblici), per portare avanti una violentissima quanto inusitata e ingiustificata campagna di stampa contro Grillo, è sotto gli occhi di tutti.
Non vogliamo pensare che  pure da parte della proprietà e direzione di quel giornale il successo elettorale di Beppe Grillo possa essere vissuto con angoscia come una seria minaccia a quel sistema gelatinoso di cui troppi e spesso occulti poteri hanni beneficiato in questi anni, intrecciando relazioni pericolose con la Casta.

Ma il massimo del tragicomico è stato raggiunto dal Corriere della Sera che, nell'edizione Corriere TV,  fa sapere che Beppe Grillo ripete nei comizi, udite udite, le stesse battute; e per dimostrarlo riporta un video ripreso dal comizio finale di Parma del 18 maggio e da quello di Garbagnate di due giorni prima. Nel collage presentato, accostando ossessivamente frammenti di immagini dei due interventi verrebbe immortalata la sua colpa.
Un autentico autogol del Corriere che, per voler parlare alla pancia del Paese screditando la figura pubblica di Grillo, finisce per lanciargli un formidabile  assist.
Infatti che un leader politico dica le stesse cose parlando a platee diverse non solo non è disdicevole ma è addirittura auspicabile, anzi in un paese normale dovrebbe essere la regola.
Meravigliarsi di ciò fino al punto  da ritenere che Grillo venga così colto in fallo, significa ammettere che i giornalisti del Corriere sono abituati a politici che di fronte agli imprenditori dicono una cosa, ai commercianti un'altra, ai pensionati un'altra ancora e quando si trovano davanti agli operai chiudono il cerchio sparlando dei primi; insomma degli autentici voltagabbana pronti a menare per il naso gli ingenui cittadini.
E come mai stesso zelo e anologa osservazione non sono riservati all'ABC della politica, il trio Alfano-Bersani-Casini e Casta cantante?
Forse che costoro sono talmente noiosi e incomprensibili che nessuno sarebbe disposto gratuitamente  a subirne le contorsioni verbali che, a seconda delle circostanze, oscillano tra il criptico, il vuoto e lo sgrammaticato.
Un  caso da scuola è poi il linguaggio di Pierluigi Bersani, come già altre volte abbiamo notato, che riesce a parlare per ore senza dire assolutamente nulla, ponendo l'accento su parole vuote e  brandendo come armi roboanti affermazioni veramente senza né capo né coda, un volo pindarico oltre il surreale.
Sintatticamente i suoi discorsi pubblici sono un vero percorso minato: i famosi anacoluti del segretario del PD si trasformano, nelle irresistibili gag di Maurizio Crozza, in autentici tormentoni: Ragassssi, non siam qui a toglier le macchie dal manto dei giaguari...
Ma l'infortunio del Corriere della Sera è stato in qualche modo riscattato dalla bella intervista che Gian Antonio Stella fa a Beppe Grillo, pubblicata ieri su 'Sette', l'inserto settimanale del quotidiano di via Solferino. Leggetela, è interessantissima.
E a proposito di riforme costituzionali ecco come conclude Grillo:
"Beh, siamo stati scottati: il Parlamento deve avere l'obbligo di discutere delle leggi popolari che vengono presentate. L'obbligo. E poi il referendum senza quorum. Due o tre cose. Per arricchire una Costituzione che è già meravigliosa per conto suo ma non prevede lo spazio  necessario per i cittadini".
E questa sarebbe antipolitica? Magari subito!

domenica 25 gennaio 2009

Sempre più giù, il Pd scivola pure sul federalismo

"Questa è una decisione giusta di una forza responsabile, ma questo atteggiamento potrà modificarsi nella futura lettura se non saranno chiariti alcuni nodi" (1). Queste le parole del segretario del Pd, Walter Veltroni, dopo l’approvazione da parte del Senato del federalismo fiscale, provvedimento che ora passerà alla Camera.
L’astensione del Pd in aula è stato il fatto politico di maggiore rilevanza in questo passaggio parlamentare che ridisegna il sistema di finanza pubblica degli enti locali; ma in commissione il Pd aveva approvato insieme al centrodestra tutti i principali articoli della riforma.
Insomma, ancora una volta l’opposizione si allinea al centrodestra nel votare una legge che rompe il patto di solidarietà tra le diverse italie per sancire un federalismo al buio le cui conseguenze sia sul piano dei costi che dell’erogazione dei servizi ai cittadini sono tutte da definire.
Cioè, il Partito democratico ha votato un provvedimento di grande portata senza rendersi conto né se esso produrrà dei risparmi fiscali per il contribuente (sembrerebbe esattamente il contrario) né se creerà disparità di trattamento tra abitanti di parti diverse della penisola nelle prestazioni erogate dagli enti locali.
Eugenio Scalfari, nell'odierno domenicale, solleva a riguardo gravissime perplessità: "Voglio sperare che i piemontesi, i lombardi, i veneti del Partito democratico non dimentichino la storia del nostro paese e il contenuto che i loro avi dettero alla sua unità."
Culturalmente parlando, Veltroni firma l’ennesima débâcle della sinistra italiana senza neppure accertarsi di quali potrebbero essere gli effetti perversi di questa riforma, nonostante mezzo partito avrebbe preferito votare contro.
Se l’ opposizione di questo finto bipolarismo non si preoccupa delle possibili conseguenze della rottura del patto di solidarietà tra gli Italiani, vuol dire proprio che ha subito una mutazione genetica, tale da non avere più nulla a che vedere né con la tradizione socialista e comunista né con il cattolicesimo sociale.
Insomma dalle ceneri delle due matrici culturali più importanti della storia d’Italia è uscito fuori un partito che rinnega entrambe senza peraltro proporre alcun modello politico alternativo.
Fa cascare le braccia la risposta che Veltroni dà all’ex Udc Follini, ora dentro il Pd, che aveva bollato come irresponsabile l’astensione decisa nel voto finale al Senato: "Il nostro profilo riformista consiste anche in questo. Noi siamo un’opposizione responsabile" (2).
No, la verità è che l’oligarchia all’interno del Pd sta conducendo una battaglia di resistenza politica che non ha nulla a che vedere con i bisogni dell’elettorato che si arroga di rappresentare.
E' un fatto che in tanti mesi, senza avere impegni particolari, la leadership democratica non sia riuscita a formulare neppure uno straccio di proposta di riforma su un qualsivoglia campo della vita pubblica.
Un’inerzia paurosa, il vertice democratico resta alla finestra confidando nella crisi economica ed in attesa che il centrodestra vari un qualche provvedimento per avere la possibilità o di criticarlo in modo sgangherato (giusto per farsi un po’ di pubblicità) o di accodarcisi dietro in nome di un malinteso senso di responsabilità: "Il Pd ha sbriciolato il cliché berlusconiano dell’opposizione riottosa e incapace di riforme" (3) , conclude non a caso la capogruppo Anna Finocchiaro.
Si capisce a questo punto perché il Partito democratico stia letteralmente precipitando nei sondaggi (23%?) e per quale motivo stia spingendo per una nuova legge elettorale per le Europee con soglia di sbarramento al 4-5% in modo da fare fuori quello che resta di autentica opposizione nel panorama politico italiano.
Il messaggio è chiaro: anche se ci considerate dei buoni a nulla, siete comunque costretti a votarci!
(1) (2) (3): Corriere della Sera del 23/01/09, pagg. 5-6

giovedì 24 luglio 2008

Un nuovo tristissimo 8 settembre

Con l’approvazione del lodo Alfano anche al Senato viene scritta forse la peggiore pagina di storia parlamentare dell’Italia repubblicana.
L’immunità garantita alle quattro principali cariche dello Stato (presidente della Repubblica, presidente del Senato, presidente della Camera e presidente del Consiglio) con la sospensione di tutti i processi penali nei loro confronti rappresenta uno strappo costituzionale gravissimo.
Che il presidente della Repubblica abbia promulgato un simile buco nero alla nostra carta fondamentale appellandosi ad un precedente pronunciamento della Corte Costituzionale è poi il colmo, tenuto conto che un simile strafalcione non sarebbe stato perdonato neppure ad uno studente di giurisprudenza alle prime armi.
Perché chiunque abbia sfogliato semplicemente un testo di educazione civica sa perfettamente che il principio sancito dall’art. 3 sull’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge non può essere emendato in alcun modo, facendo parte di quel nucleo intangibile di princìpi della nostra Costituzione che non è sottoponibile a revisione per nessuna ragione, neppure attivando le solenni e gravose procedure di approvazione delle leggi costituzionali.
Che questo ferita sia stata provocata addirittura con legge ordinaria, con un semplice voto di maggioranza, la dice lunga sulla qualità della nostra classe politica, cinica ed impreparata.
Né ha importanza il fatto che la Costituzione non sia stata esplicitamente modificata, perché la legge approvata ne mina giuridicamente le fondamenta.
Ciò che più indigna non è tanto che il governo Berlusconi ci sia arrivato in soli 25 giorni, un vero record, dato che nessuno si era mai fatto illusioni sulla maggioranza uscita vincente dalle urne; ma che l’opposizione del Pd, dopo aver disertato senza pudore la manifestazione di protesta dell’8 luglio di piazza Navona, non abbia adesso di meglio da dire, per voce della senatrice Finocchiaro, che così il dialogo tra i due schieramenti diventa più difficile.
Ma vi siete resi conto che siamo giunti, a dispetto di un’Italia distratta ed indifferente e del silenzio complice dei mass media, ad un nuovo tristissimo 8 settembre?
Va a fondo la Repubblica dei padri costituenti nel più completo lassismo.
Onorevole Veltroni, cosa è più grave, il dito alzato di Bossi per il quale Lei si scalda tanto o lo scempio della nostra Costituzione perpetrato dalla Casta al gran completo, compresa la Sua opposizione di facciata?

mercoledì 14 maggio 2008

Tutti insieme contro Travaglio

L’ultimo fine settimana ci ha regalato sul fronte mediatico tutta una serie di conferme, ampiamente previste nei mesi scorsi da questo blog.
Continuano, anzi sono in stato avanzato di realizzazione, le prove tecniche di larghe intese.
Il soccorso insperato che la senatrice Anna Finocchiaro, recentemente bocciata alle elezioni regionali siciliane ma inopinatamente più in sella che mai nel PD, ha portato al neo presidente del Senato Renato Schifani in merito alle dichiarazioni di Marco Travaglio nella trasmissione di Fabio Fazio di sabato sera è quanto di peggio, cioè nello stesso tempo inopportuno, imbarazzante, irrituale, incoerente potesse fare un esponente dell’opposizione, per giunta ad un mese dalla batosta elettorale subita.
Soprattutto, di incompatibile con la lezione morale di Enrico Berlinguer, del quale molti tra i politici del Partito Democratico si sono dimenticati completamente mentre dovrebbero testimoniarne la stringente attualità.
Purtroppo, invece di occuparsi di giustizia sociale, di scottanti questioni economiche, di stipendi e pensioni, di sanità a rischio, perché no? di questione morale, i dirigenti del Partito Democratico continuano a fare i portatori d’acqua per il Popolo della Libertà attaccando le poche voci fuori dal coro.
Non sono stati in grado di cancellare nemmeno una delle leggi vergogna ma sanno benissimo come togliere il microfono a chi si ostina, magari con tono caustico ed un linguaggio non politically correct, a ricordare fatti e misfatti del pasticcio italiano.
Facciano pure, mandino a picco la Rai cacciandone anche gli ultimi spettatori insieme ai residui spazi di libertà. Dopo l’Alitalia, sotto a chi tocca!
Nello specifico, non è chiaro perché prima si inviti un vero giornalista come Marco Travaglio in una trasmissione di conversazione con ambizioni culturali e poi si cerchi goffamente di prenderne le distanze di fronte all’Italia televisiva, semplicemente perché questi ancora una volta mostra l’imperdonabile vizio di dire quello che pensa e scrive da anni; difetto che gli ha permesso di acquisire una stima sconfinata fuori dal fortino in cui si è asserragliata la nomenklatura.
Se il senatore Schifani ritiene che le affermazioni nei suoi confronti siano state ingiuriose prenda le determinazioni del caso (come ha preannunciato).
Ma per piacere che Petruccioli, la Finocchiaro, la Melandri e mezzo PD la smettano di fare i farisei.
Si stracciano le vesti forse per il paragone irriverente muffa – lombrico fatto da Travaglio e non fanno una piega di fronte alle ripetute ingiurie rivolte a presenti ed assenti soltanto due settimana fa da Sgarbi.
E’ il loro il comportamento più inqualificabile.
Il giornalista Giuseppe D’Avanzo su la Repubblica critica Travaglio sostenendo che egli abbia rispolverato storie vecchie e stravecchie che non hanno offerto alcun, ulteriore e decisivo, elemento di verità; ripete la solita litania delle agenzie del risentimento che lavorano ad un cattivo giornalismo che solo abusivamente si definisce d’informazione ma è d’opinione per poi, in modo palesemente contraddittorio, chiudere improvvisamente su Schifani affermando che “dalle inchieste del 2002, ha sempre preferito tacere su quel suo passato sconsiderato”.
In altri termini, finisce per dare ragione a Travaglio senza volerlo ammettere, dopo aver confezionato tutto il pezzo in segno contrario.
Insomma, D’Avanzo contro tutti, persino contro se stesso.
Travaglio non è un inquisitore, racconta fatti sulla base di evidenze processuali, fossero anche di vent’anni. Infatti non è alla magistratura che si rivolge ma al pubblico televisivo: perché questo deve essere tenuto all’oscuro di alcune storie facilmente disponibili a pochi euro sugli scaffali delle librerie?
Il torto di Travaglio è quello di parlare in televisione a milioni di persone perché fino a quando si limita a scrivere poderosi volumi, nessuno ha nulla da obiettare: sono pochi gli Italiani che leggono e di certo il loro isolato sdegno non costituisce una minaccia per la nomenklatura.
Ma se Marco Travaglio parla in televisione come autore dei suoi libri, apriti cielo!
Stessa sorte per Michele Santoro: se lascia spazio in prima serata alle parole pronunciate in piazze gremite da Beppe Grillo, dal Palazzo d’Inverno piovono strali.
I più agguerriti diventano proprio gli uomini dell’opposizione, sorpresi dai telespettatori nell’inerzia più completa di fronte alle tante verità scomode: sono per primi loro, con il loro seguito di giornali d’area, ad invocare la censura preventiva sulla tv pubblica ed a ostentare solidarietà nei confronti di chi proprio non ne ha bisogno.
Perché la seconda carica dello Stato, per di più sotto l’ombrello protettivo del Cavaliere, disporrà o no degli strumenti necessari per far valere eventualmente le sue ragioni senza che in suo soccorso arrivino le scompaginate truppe democratiche, in ritirata strategica dalla società civile?
Siamo veramente all’anno zero, come efficacemente ha battezzato la sua trasmissione Michele Santoro.
Ormai a testimoniare contro il pensiero unico nell’Italia dei media normalizzati sono rimasti in tre: Marco Travaglio, Michele Santoro e Beppe Grillo.
E i loro più temibili avversari non sono, come si potrebbe pensare ingenuamente, gli esponenti della maggioranza parlamentare che si sta apprestando all’occupazione di tutti i gangli istituzionali: quelli sono antagonisti dichiarati con cui ognuno di loro si misura quotidianamente.
Contro questi valorosi testimoni di una democrazia che brancola nel buio, ci sono proprio gli esponenti di quell’opposizione che, sovvertendo le regole del gioco di uno strano maggioritario bipolare, ha rinunciato ad esistere molto tempo prima di subire il cappotto elettorale.
L’ultima trovata, quella del governo ombra, che ieri ha pure ottenuto il riconoscimento di Berlusconi con la famosa telefonata a Veltroni, escludendo dal valoroso consesso proprio l’alleato vincente Antonio Di Pietro, è l’ennesimo sberleffo rivolto a quegli elettori che appena un mese fa hanno concentrato il voto sul Partito Democratico contro lo spauracchio Berlusconi, agitato dal loft democratico (ormai è lampante) con l’obiettivo prioritario di togliere i voti alla Sinistra.
Quanto a Fabio Fazio, alla sua declamata dissociazione dall’intervento di Travaglio, beh è meglio stendere un velo pietoso; avendo adesso pienamente compreso come mai le gag della Litizzetto sul suo conto siano tanto efficaci.
A sua tempo, si sarà pure proclamato ammiratore di Enzo Biagi ma del compianto giornalista di certo non possiede né statura morale né coraggio intellettuale.
Gioca a presentarsi al pubblico televisivo come il classico vaso di coccio tra tanti vasi di ferro, una sorta di don Abbondio senza tonaca in casa Rai; purché sotto lucroso contratto, s’intende.