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domenica 22 febbraio 2009

Il Pd e.. il congresso che non c'è!

Prima di commentare la resa dei conti in corso nel Partito Democratico, il cui destino nonostante l’avvicendamento tra Walter Veltroni e Dario Franceschini appare segnato, aspettavamo il giudizio che ne avrebbe dato dalle colonne di Repubblica quello che, per certi versi, è stato il suo ideologo oltre ad esserne uno dei più potenti ed accaniti supporter, Eugenio Scalfari.
Dietro questi sedici mesi di navigazione tempestosa di Walter Veltroni, c’è sempre stato lui a suggerirgli strategie, tattiche, e perché no, a rivolgergli anche qualche amorevole rimbrotto.
Ci aspettavamo quindi che, un tempo nella buona sorte adesso nella cattiva, il grande vecchio di piazza Indipendenza volesse anche lui, al pari di Veltroni, chiedere scusa per i tanti errori compiuti in tutto questo tempo diventando la cassa di risonanza del pensiero debole veltroniano, facendo assumere al suo giornale una fisionomia tutta diversa da quella delle origini, tanto da allontanarlo sempre più da molti affezionati lettori.
Ma non è stato così.
Nel suo odierno domenicale, precisa che l’impressione che Veltroni non ce l’abbia fatta a portare a termine la sua impresa, sia in qualche modo fuorviata dalle titolazioni che i giornali hanno dato al suo discorso d’addio. Che, sì, riflettono i contenuti del suo commiato ma non le sue effettive colpe che, secondo il famoso giornalista, si ridurrebbero ad un unico errore; l’aver cercato ad oltranza di mediare tra le diverse anime del partito senza far pesare fino in fondo il valore della sua leadership, costruita su tre milioni e mezzo di consensi: "Veltroni ha impiegato gran parte del suo tempo a cercare punti di sintesi che erano piuttosto cuciture fatte col filo grosso, con la conseguenza che quei vari pezzi e quelle varie ispirazioni e provenienze sono rimaste in piedi senza dar vita ad una cultura nuova e unitaria."
Ci aspettavamo da Eugenio Scalfari un’analisi più acuta e attenta delle immani pecche che la guida democratica ha mostrato da subito. Attribuire a Veltroni quale unico errore quello di aver indugiato troppo nella mediazione tra "laici e cattolici, socialisti e moderati, tolleranti e intransigenti, puri e duri e pragmatici" è davvero poca cosa e dimostra come anche dalle parti di piazza Indipendenza la confusione regni sovrana.
D’altra parte, in tutti questi mesi non una volta Scalfari ha rimproverato Veltroni per i suoi tentennamenti, né per il suo incessante mediare tra i vari capibastone; al contrario, ha sposato in pieno questa linea politica ondivaga e priva di respiro.
Perché il vero nodo della questione è che, sin dal giorno del suo insediamento, Walter Veltroni ha rinunciato a sostenere il governo Prodi e, dopo la clamorosa disfatta elettorale dell’anno scorso, a fare opposizione al governo autoritario dell’uomo di Arcore.
Se l’è presa da subito con i verdi, con la sinistra, con Di Pietro (pur avendo stretto un’alleanza di ferro con lui), ma mai contro Berlusconi, salvo punzecchiarlo sterilmente ma di continuo per le sue riprovevoli gaffe.
Inopinatamente, quando il Cavaliere era ormai alle corde, nel novembre 2007, incapace com’era di recuperare credito tra i suoi (siamo al tempo del teatrino evocato da Gianfranco Fini), Veltroni ebbe la folle idea di rimetterlo in piedi annunciando, urbi et orbi, di voler costruire con lui le nuove regole del gioco, sbarazzandosi di punto in bianco dei propri alleati mentre Romano Prodi stava ancora saldo in sella a Palazzo Chigi.
Fu quella una vera e propria congiura di Palazzo, che sotto le mentite spoglie del ministro Clemente Mastella, silurò improvvisamente l’esperienza dell’Unione per proclamare unilateralmente la presunta vocazione maggioritaria del Pd.
Fu l’inizio della fine. Seguirono mesi difficilissimi che consegnarono incredibilmente il Paese ad un governo delle destre reazionario, incapace di dare sia pure elementari risposte alla grave crisi economica che si stava affacciando da oltre Atlantico.
Se ci fosse stata una chiara opposizione, molto presto l’armata berlusconiana avrebbe dovuto prenderne atto, forse capitolando o scendendo a più miti consigli su tante questioni scottanti.
Ma guardiamo all’oggi.
E’ chiaro che, con la caduta di Veltroni, viene bocciata tutta la nomenklatura del suo partito (i Fassino, la Finocchiaro, ecc. ieri all’assemblea nazionale sembravano di colpo invecchiati, ridotti a pezzi di modernariato) "delegittimata e spazzata via tutta insieme".
Così come è di tutta evidenza che il compito di Dario Franceschini sia divenuto quasi impossibile, senza un congresso che possa decretare a caratteri cubitali la fine del veltronismo, o meglio del veltrusconismo.
Conforta che il nuovo giovane leader, sin dal suo primo discorso, abbia voluto mostrare una qualche discontinuità con il suo predecessore; certamente, non avendo nulla da perdere, egli può permettersi una libertà intellettuale e di azione decisamente superiori.
D’altra parte, fare peggio di Veltroni è praticamente impossibile.
Già sarebbe molto se riuscisse a traghettare il Pd da una vergognosa non opposizione di questi mesi ad una più modesta quasi opposizione.
Ma non illudiamoci: finché non sarà spazzata via la vecchia nomenklatura, le speranze di avere un partito diverso si avvicinano a zero, nonostante tutta la buona volontà del nuovo segretario.

venerdì 13 febbraio 2009

Politica schizofrenica

Sono stati giorni difficili.
Giorni in cui la politica si è impadronita di temi delicati come quello dell’etica, del senso ultimo della vita umana, per farne merce di scambio, filo conduttore dell’ennesimo spot elettorale.
Spettacolo avvilente che ancora una volta ha visto in prima fila il presidente del consiglio, tuttavia ben attorniato da un’accolita di personaggi minori che hanno provato pure a rubargli la scena.
Senza riuscirci, però; perché sotto le luci della ribalta il mattatore è restato indiscutibilmente lui.
Ha usato, come grimaldello per scardinare la Costituzione, una questione tanto delicata che le cronache ci hanno sbattuto in faccia ossessivamente in questi giorni senza pudore alcuno: un gran colpo basso; uno scempio atroce per Eugenio Scalfari. Come dargli torto?
Il fatto è che anche coloro che gridano allo scandalo, che invocano il rispetto della carta costituzionale a cui il premier deve necessariamente piegarsi senza minacciare sfracelli, tengono in piedi questo spettacolo indecoroso.
Perché se Berlusconi è quello che è, non si può poi pensare di stringere con lui patti di ferro alla chetichella, come è successo recentemente con la legge elettorale per le prossime Europee, di comune accordo approvata in un ramo del parlamento da Pd e Pdl; per non parlare poi della legge sul federalismo fiscale, vero buco nero della nostra legislazione.
Insomma, se Berlusconi è interlocutore affidabile per il partito democratico tanto da concepire insieme a lui alcune leggi di portata costituzionale (anche se formalmente non costituzionali), non si capisce perché diventi alcuni giorni dopo improvvisamente il golpista che vuole fare a pezzettini la nostra carta fondamentale.
Un po’ di coerenza: ha ragione Beppe Grillo quando afferma che l’uomo di Arcore è sempre coerente a se stesso. Dunque segue una strategia ben precisa sia quando vara il lodo Alfano, sia quando definisce sovietica la nostra Costituzione.
Dice e disdice, finendo sempre per raggiungere i propri obiettivi, non demordendo mai; al contrario, rilanciando con maggiore veemenza quando si imbatte imprevedibilmente in qualche autorevole no.
Ma il partito democratico ed il suo leader Veltroni sembra proprio che questa cosa non l’abbiano ancora capita.
Un giorno ci raccontano la favola dell’imprenditore che ha il pallino della politica con cui si può pacatamente dialogare anche dei massimi sistemi; un altro giorno ce lo rappresentano come il lupo cattivo che banchetta con la Costituzione: pura schizofrenia.

martedì 3 febbraio 2009

Un'altra legge ad personam: la SalvaVeltroni!

Proseguono le leggi ad personam del duo Veltrusconi: dopo la legge Alfano, ecco che di soppiatto dal cilindro del tandem politico meno credibile della Seconda Repubblica, esce fuori la legge SalvaVeltroni.
Sì, quella legge che decreta lo sbarramento al 4% alle prossime Europee; una cosa inopportuna e per giunta fuori luogo.
Inopportuna, perché nel disastro economico in cui siamo precipitati, venire a sapere che maggioranza e opposizione si occupano ancora di legge elettorale, è uno schiaffo a tutti coloro che in questi mesi stanno patendo i rigori di un gelido inverno di recessione.
Nel Palazzo si discute amabilmente di legge elettorale e questi strani poli, inspiegabilmente, vanno pure d’amore e d’accordo!
Decisione fuori luogo, perché non è certo a Strasburgo, sede del Parlamento europeo, che si può pensare di eliminare la frammentazione elettorale, stante la necessaria presenza di rappresentanze politiche di tantissimi paesi.
L’obiettivo, neppure tanto velato, è tutto interno: ovvero quello di cancellare definitivamente qualsiasi forma di vera opposizione, tanto a destra quanto a sinistra dei due colossi d’argilla.
Soprattutto a sinistra, vista la penosa condizione in cui versa il Pd ad opera del sempre più stralunato Walter Veltroni, il quale di giorno critica goffamente il cavaliere sulle questioni più insulse e la sera, quasi clandestinamente, stringe con lui patti di ferro per far fuori il dissenso in tutte le sue forme.
Sorprende come il leader del Pd resti impassibile alla valanga di critiche che da tutte le parti ne mettono in dubbio le qualità politiche e ne hanno minato irreversibilmente il carisma; e che la politica sia scesa tanto in basso da abbandonare il Paese alle proprie difficoltà per badare esclusivamente a se stessa.
Intendiamoci: il problema non è quello di fissare o meno una soglia di sbarramento per i partiti minori. Questo è sicuramente legittimo farlo (non necessariamente opportuno!), a patto che si sia sviluppato su una questione così delicata (è in gioco il diritto alla rappresentanza politica) un ampio dibattito nella società.
Nessuno contesta, cioè, che, alla fine di un lungo percorso parlamentare, la politica decida di nuovo sulla legge elettorale: ma lo deve fare alla luce del sole, dopo un dibattito chiaro ed aperto con la pubblica opinione e, soprattutto, dopo aver dato le risposte che i cittadini invocano inutilmente in campo economico.
Tanto più che la legge elettorale varata per le politiche scorse era stata considerata unanimemente un pasticcio (la famosa porcata secondo il senatore leghista Calderoli).
Dispiace che anche Eugenio Scalfari si spinga a dire che Veltroni sarebbe riuscito nel compito di portare a casa un buon risultato: cioè la soglia di sbarramento al 4% contro la pretesa berlusconiana del 5%.
E’ semplicemente ridicolo riconoscergliene un merito, vista la pochezza dell'esito e tenuto conto che questa legge è stata concordata tra maggioranza e opposizione quasi di soppiatto, prendendo spunto dal famigerato porcellum.
Nel pieno di una crisi economica senza precedenti, un disegno di legge del genere non doveva neppure arrivare all'ordine del giorno dei lavori parlamentari; tanto più a macchina elettorale per le Europee già avviata.
Ignorare questa lampante evidenza, vuol dire proprio aver smarrito la via maestra e procedere a tentoni tra i propri dogmatismi, badando esclusivamente al tornaconto personale.
Significa soprattutto infischiarsene di quello che dice la gente, irritata all’inverosimile da una classe politica di inetti, che vive allegramente alle sue spalle ed a cui non risponde più concretamente.
A questo punto, l’unica risposta da dare al regime messo in piedi senza tanto clamore dalla strana coppia Veltroni - Berlusconi è disertare le urne: siamo tutti stanchi di firmare inutili cambiali in bianco.

domenica 25 gennaio 2009

Sempre più giù, il Pd scivola pure sul federalismo

"Questa è una decisione giusta di una forza responsabile, ma questo atteggiamento potrà modificarsi nella futura lettura se non saranno chiariti alcuni nodi" (1). Queste le parole del segretario del Pd, Walter Veltroni, dopo l’approvazione da parte del Senato del federalismo fiscale, provvedimento che ora passerà alla Camera.
L’astensione del Pd in aula è stato il fatto politico di maggiore rilevanza in questo passaggio parlamentare che ridisegna il sistema di finanza pubblica degli enti locali; ma in commissione il Pd aveva approvato insieme al centrodestra tutti i principali articoli della riforma.
Insomma, ancora una volta l’opposizione si allinea al centrodestra nel votare una legge che rompe il patto di solidarietà tra le diverse italie per sancire un federalismo al buio le cui conseguenze sia sul piano dei costi che dell’erogazione dei servizi ai cittadini sono tutte da definire.
Cioè, il Partito democratico ha votato un provvedimento di grande portata senza rendersi conto né se esso produrrà dei risparmi fiscali per il contribuente (sembrerebbe esattamente il contrario) né se creerà disparità di trattamento tra abitanti di parti diverse della penisola nelle prestazioni erogate dagli enti locali.
Eugenio Scalfari, nell'odierno domenicale, solleva a riguardo gravissime perplessità: "Voglio sperare che i piemontesi, i lombardi, i veneti del Partito democratico non dimentichino la storia del nostro paese e il contenuto che i loro avi dettero alla sua unità."
Culturalmente parlando, Veltroni firma l’ennesima débâcle della sinistra italiana senza neppure accertarsi di quali potrebbero essere gli effetti perversi di questa riforma, nonostante mezzo partito avrebbe preferito votare contro.
Se l’ opposizione di questo finto bipolarismo non si preoccupa delle possibili conseguenze della rottura del patto di solidarietà tra gli Italiani, vuol dire proprio che ha subito una mutazione genetica, tale da non avere più nulla a che vedere né con la tradizione socialista e comunista né con il cattolicesimo sociale.
Insomma dalle ceneri delle due matrici culturali più importanti della storia d’Italia è uscito fuori un partito che rinnega entrambe senza peraltro proporre alcun modello politico alternativo.
Fa cascare le braccia la risposta che Veltroni dà all’ex Udc Follini, ora dentro il Pd, che aveva bollato come irresponsabile l’astensione decisa nel voto finale al Senato: "Il nostro profilo riformista consiste anche in questo. Noi siamo un’opposizione responsabile" (2).
No, la verità è che l’oligarchia all’interno del Pd sta conducendo una battaglia di resistenza politica che non ha nulla a che vedere con i bisogni dell’elettorato che si arroga di rappresentare.
E' un fatto che in tanti mesi, senza avere impegni particolari, la leadership democratica non sia riuscita a formulare neppure uno straccio di proposta di riforma su un qualsivoglia campo della vita pubblica.
Un’inerzia paurosa, il vertice democratico resta alla finestra confidando nella crisi economica ed in attesa che il centrodestra vari un qualche provvedimento per avere la possibilità o di criticarlo in modo sgangherato (giusto per farsi un po’ di pubblicità) o di accodarcisi dietro in nome di un malinteso senso di responsabilità: "Il Pd ha sbriciolato il cliché berlusconiano dell’opposizione riottosa e incapace di riforme" (3) , conclude non a caso la capogruppo Anna Finocchiaro.
Si capisce a questo punto perché il Partito democratico stia letteralmente precipitando nei sondaggi (23%?) e per quale motivo stia spingendo per una nuova legge elettorale per le Europee con soglia di sbarramento al 4-5% in modo da fare fuori quello che resta di autentica opposizione nel panorama politico italiano.
Il messaggio è chiaro: anche se ci considerate dei buoni a nulla, siete comunque costretti a votarci!
(1) (2) (3): Corriere della Sera del 23/01/09, pagg. 5-6

domenica 31 agosto 2008

I capitani coraggiosi "soccorrono" Alitalia

Gli sviluppi della vicenda Alitalia sono per certi versi esemplari per comprendere fino in fondo come la nostra classe imprenditoriale concepisca due variabili fondamentali del liberismo economico: il rischio d'impresa ed il profitto.
Per i nostri veteroimprenditori, quest’ultimo viene prima di ogni altra cosa ed a questo principio generale la società civile deve ciecamente sottostare.
Il primo, cioè la particolare alea a cui ogni attività umana è soggetta ed alla quale, pertanto, neppure l’attività dell’imprenditore può sfuggire, deve essere azzerato. In uno slogan: minimo rischio, massimo profitto.
Il problema è che il profitto imprenditoriale trova la sua giustificazione teorica proprio nel fatto che, una volta remunerati tutti gli altri fattori della produzione, è necessario ricompensare l’imprenditore del particolare rischio sopportato per aver messo in piedi l’attività aziendale.
In altri termini la spiegazione del profitto è fatta risalire dalla scienza economica proprio alla caratteristica rischiosità dell’attività imprenditoriale: no risk, no profit.
La nostra classe imprenditoriale, nella sua componente più nobile è cresciuta invece nella convinzione che, forse per diritto di stirpe, deve massimizzare il profitto senza rischiare quasi nulla. Non è un caso che il capitalismo di casa nostra è un capitalismo familiare, premoderno, fondato sull’idea che l’imprenditorialità si trasmetta di generazione in generazione, senza nessun merito individuale, semplicemente per diritto ereditario.
Purtroppo questo è il desolante ritratto dei nostri capitani d’industria, con poche eccezioni, finchè non scendiamo di livello dimensionale ed andiamo a studiare la piccola e media impresa.
Qui le cose cambiano radicalmente perché, generalmente, la piccola e media impresa è abituata storicamente a fare da sola ed a confrontarsi senza rete sul mercato, rischiando in diretta e non in differita come troppo spesso fa la grande industria familistica.
Pertanto, pur se culturalmente la piccola media impresa mostra spesso di non esserne consapevole, di fatto gli interessi delle sorelle maggiori non hanno nulla a che vedere con quelli del nostro vasto e capillare tessuto imprenditoriale di realtà dimensionalmente più piccole ma molto più vivaci e dinamiche.
Il governo Berlusconi fa propri gli interessi della grande impresa che, a chiacchiere, invoca il libero mercato ma, nei fatti, chiede continuamente l’intervento pubblico per azzerare il proprio rischio d’investimento; lo slogan è semplice: privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Ecco che i cosiddetti capitani coraggiosi, così felicemente battezzati da un nostro famoso politico del PD ai tempi della famigerata scalata Telecom, sono molto più prudenti di quanto la politica (di destra ma anche di sinistra!) non voglia far credere.
Entrare in Alitalia? Certo, ma a patto che ne vengano scorporate tutte le passività e che rimanga per i difficili palati dei nostri finanzieri d'assalto soltanto il succo: naturalmente, per gli enormi debiti ci penserà lo Stato, cioè tutti i contribuenti a cui, continuamente, si ripete invece che, per mille altre necessità, non c’è un euro in cassa.
Eugenio Scalfari definisce la soluzione trovata per Alitalia un imbroglio, ancora più subdolo perché viene camuffato da intervento teso a difenderne l’italianità, cosa che invece è nei fatti già data per persa: “[…] sarà una svendita preceduta da un imbroglio. Le perdite allo Stato (cioè a tutti noi) i profitti ai privati, nazionali e stranieri. Un imbroglio che camuffa una svendita.”
Una lezione per tutti: per risanare la cosa pubblica, nulla di più sbagliato che affidarsi ad un grande imprenditore.

mercoledì 27 agosto 2008

Bipolarismo mite? No, grazie!

Aldo Schiavone nell’editoriale di sabato scorso su la Repubblica delinea per la sinistra italiana nel prossimo futuro “una grande occasione per entrare in scena da protagonista”.
Sarebbero le contraddizioni del liberismo a costringerla, oseremmo dire quasi suo malgrado, a ritornare alla ribalta della politica. Verissimo.
Poi, però, conclude goffamente: “E c’è bisogno di una sinistra forte, per un bipolarismo mite”.
Qualcuno ci spieghi per favore cosa sia questo preteso bipolarismo mite.
Ma, innanzitutto, che senso abbia parlare ancora di bipolarismo in un’Italia frantumata, in cui è venuta a mancare la percezione collettiva di comunità ed ognuno, come minuscola scheggia impazzita, bada esclusivamente al proprio orticello ignorando la necessità di un contesto condiviso di regole ed infischiandosene molto spesso del cosiddetto bene comune.
Ritenere che in questa implosione sociale il ruolo dei media sia stato marginale è un errore imperdonabile in cui Schiavone incorre quando afferma: “E’ in errore, e di molto, chi pensa che l’Italia di questi anni si sia “berlusconizzata” a causa delle televisioni o delle strategie mediatiche. A pensare così, si scambia la causa con l’effetto. Non è Berlusconi che ha ridotto l’Italia a somiglianza delle sue televisioni. E’ l’Italia “privatizzata” dall’ondata della modernizzazione che ha identificato in Berlusconi il suo principe naturale, il quale, dal canto suo, non ha inventato niente:[…]”.
Minimizzare il ruolo dei media nell’evoluzione della società rischia di essere un errore fatale, perché la modernità è stata declinata proprio in ragione di quella che ne è stata la sua rappresentazione mediatica. E purtroppo quest’ultima è stata affidata quasi esclusivamente ai formidabili interessi del colosso editoriale berlusconiano, secondo una logica privatistica che nulla ha a che vedere con l’interesse pubblico.
E’ stata una vera e propria Caporetto culturale.
La gente si è così dovuta confrontare con fenomeni epocali come la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione capitalistica in completa balia dei suoi poderosi effetti, avendo come unica guida il tam tam dei mass media, in assenza di istituzioni preposte a fornire ai cittadini quantomeno alcuni essenziali strumenti di orientamento se non una vera e propria rete di protezione.
E’ facile capire come l’onda d’urto della modernizzazione, coniugata con il mercatismo e l’idea del denaro quale unico feticcio del nostro tempo, in mancanza di forme adeguate di ammortizzatori sociali e culturali, abbia finito per disarticolare il tessuto sociale mandando in frantumi la stessa idea di comunità.
Come se qualcuno si fosse potuto illudere cha da tanto disimpegno delle nostre istituzioni sarebbe derivata, chissà per quale prodigio, una società più ricca, sicura, solidale, equa, inclusiva, con una nuova sensibilità al recupero degli equilibri naturali.
Purtroppo niente di tutto questo è avvenuto e la politica, rinchiusa gelosamente nella propria confortevole campana di vetro, ne porta evidenti responsabilità.
Non basta, quindi, il bipolarismo a governare una complessità che degrada rapidamente nella frammentazione; figuriamoci se può bastare poi il cosiddetto bipolarismo mite che, non a caso, è stata proprio la scommessa politica portata avanti finora da Veltroni: con quali risultati deludenti, è sotto gli occhi di tutti.
Perché la semplificazione bipolarista forse può servire a mantenere in piedi il teatrino del Palazzo ancora per qualche tempo ma mina alle fondamenta il concetto stesso di comunità nazionale.
Non ci potrà mai essere una società forte (che è idea molto più avanzata di auspicare una sinistra forte nell’attuale Stato debole) se la politica non recupera la propria innata vocazione a mediare i processi sociali facendoli riemergere dal colpevole oblìo in cui sono stati fatti precipitare e li sottoponga al vaglio dell’istituzione parlamentare per osservarli, indagarli, indirizzarli.
Occorre, quindi, rilanciare una politica che, pur nella necessaria ricerca di una sintesi, sappia però guardare alle grandi correnti di pensiero che attraversano la società, al nuovo protagonismo delle comunità locali, per restituire ai cittadini, nessuno escluso, la consapevolezza di contare qualcosa.
Tentare semplicemente di concentrare tutto in due soli contenitori elettorali su cui mettere un tappo ed un'etichetta quasi identica (PD -PDL), facendoli comunicare secondo le convenienze politiche del momento, è molto pericoloso, se non altro perché la rapidità e la durezza dei cambiamenti in atto richiedono la massima partecipazione dei cittadini alle scelte difficili che incombono sul nostro futuro.
Una politica semplificata fa forse tirare un sospiro di sollievo al duo Veltroni Berlusconi, che restano così, tronfi, al centro della scena, ma non soddisfa quel bisogno di democrazia che proprio la modernizzazione capitalista porta con sé, non solo nelle nuove economie emergenti (vedi il caso cinese) ma, in forme sia pure diverse, persino nella vecchia Europa.
Più soffia il vento della modernizzazione, più occorrono istituzioni che abbiano la forza democratica di governarlo, di assecondarlo ma anche di resistergli.
Ad esempio, un obiettivo da subito perseguibile, prima ancora che si apra la stagione delle riforme istituzionali, è ridare smalto all’amministrazione pubblica, riconoscendone il ruolo cruciale in questo difficile passaggio storico.
Le istituzioni, sia a livello nazionale che locale, i singoli organi dell’amministrazione pubblica centrale e periferica, in quanto portatori di interessi collettivi, devono essere messi nelle condizioni di funzionare in linea con le aspettative dei cittadini che, a fronte di una pressione fiscale elevata, esigono giustamente qualità dei servizi, efficacia ed efficienza dell’azione pubblica.
La politica deve cioè assicurare le risorse alla pubblica amministrazione affinché essa possa assolvere i propri compiti con puntualità e trasparenza; al tempo stesso, si deve astenere da tutti quei comportamenti che ne configurino una sorta di tutela feudale, come oggi troppo spesso accade.
Ecco il grande scenario che la sinistra deve disegnare per il futuro e per il quale può apertamente chiedere il consenso e legittimarlo con un prevedibile successo elettorale: costruire un modello di società forte, non solo a garanzia dei deboli ma di tutti i cittadini, basato sul rispetto delle regole da parte di chiunque.
Giustizia, legalità, efficienza della pubblica amministrazione, valorizzazione della dimensione pubblica della vita collettiva, sono obiettivi da perseguire all’unisono per non subire passivamente le forze dell’economia ma, al contrario, per interagirvi positivamente.
Costruire un nuovo paradigma, dunque, che abbia il suo nucleo fondante proprio nel recupero della funzione pubblica come presidio democratico dei cambiamenti sociali: è questa la sfida da cogliere per fondare una nuova sinistra.
Se pure il moderato Eugenio Scalfari, nel suo editoriale di domenica riconosce “la scomparsa della politica come attività regolatrice della convivenza e la sua degradazione a pura funzione di sostegno degli interessi forti”, si comprende quanto sia di drammatica attualità il ritorno ad un’idea alta di politica.
Altro che bipolarismo mite!
Ci vuole, piuttosto, una società fortemente integrata con le sue istituzioni, che ritrovi nella legge lo strumento per ridefinirsi ed irradiare erga omnes la forza rigenerante della propria democrazia.

domenica 15 giugno 2008

La strigliatina di Scalfari a Veltroni

Gran brutto periodo quello che attraversa la democrazia italiana al giro di boa del solstizio d’estate. La crisi politico-istituzionale, lungi dall’imboccare l’uscita dal tunnel con l’avvio della XVI legislatura, si sta pericolosamente avvitando su se stessa.
Il rimedio, ovvero il governo del centrodestra, si sta rivelando peggiore del male, cioè le difficoltà di governare l’Italia nel pieno della prima vera crisi economica internazionale nell’epoca della globalizzazione.
Parlare di emergenza democratica, come dicono alcuni, forse non è fuori luogo.
I primi atti del governo di centrodestra confermano le peggiori aspettative, intrisi come sono di quel brodo di coltura in cui sono nati e si sviluppano alcuni movimenti politici con tendenze reazionarie.
La militarizzazione della politica che sta avvenendo da due mesi a questa parte, dopo una campagna elettorale orchestrata ad arte sui temi della sicurezza e dell’ordine pubblico, solleticando mai del tutto sopiti istinti xenofobi tra i cittadini, sta arrivando ad un punto di svolta.
Mandare l’esercito per le strade inevitabilmente prefigura il passaggio dallo stato di diritto ad uno di tipo autoritario, dove la sovranità non risiede più nel popolo ma nella classe dirigente; la quale, piuttosto che scendere in piazza per confrontarsi a viso aperto con i cittadini (o sudditi?), si chiude a riccio, asserragliandosi in un fortino militarmente presidiato.
Quello delle mimetiche sotto casa è pure uno scivolone sul piano della comunicazione che ci avvicina pericolosamente alle atmosfere inquietanti di certa America latina.
Il solo pensare che turisti stranieri in visita nelle nostre città d’arte possano imbattersi in convogli militari in perlustrazione fa semplicemente accapponare la pelle.
L’odierno editoriale su la Repubblica di Eugenio Scalfari mette in evidenza l’accelerazione drammatica che stanno prendendo gli eventi: a partire dal modo in cui si è approcciata l’emergenza rifiuti in Campania facendone una questione prettamente di ordine pubblico, al decreto legge poi rivisto in disegno di legge sulle intercettazioni, alla questione nucleare (aggiungiamo noi), vi è il tentativo di sottrarre al controllo dell’opinione pubblica questioni di fondamentale importanza per la crescita economica e sociale del nostro Paese.
Parlare di interventi da parte dell’esecutivo velleitari o, peggio, come dice incautamente a proposito dei militari spediti per strada il capogruppo del PD Anna Finocchiaro, buoni “a compiacere la vanità del ministro della Difesa”, significa non avere minimamente compreso la gravità dello stato di salute della nostra democrazia al cui capezzale, come osserva giustamente Scalfari, non può essere lasciato solo il nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Nonostante l’analisi scalfariana sia per una volta del tutto condivisibile, non possiamo non osservare che se siamo caduti così in basso molte delle responsabilità vanno attribuite proprio alle reiterate iniziative sbagliate prese dai dirigenti del Partito Democratico in questi mesi, spesso con il beneplacito proprio del fondatore di Repubblica che oggi, lui per primo, dovrebbe recitare il mea culpa.
Scelte sciagurate che da mesi denunciamo e che, a dispetto delle magnifiche sorti e progressive additate da Walter Veltroni con suggestioni hollywoodiane, hanno contribuito a portarci in poche settimane a qualcosa che appare ora eufemistico definire dittatura dolce.
Lo ha finalmente capito anche Eugenio Scalfari che, forse giudicando la misura colma, arriva a fare una bella lavata di testa al supponente Walter che da mesi insiste nel tenere aperto, o meglio, spalancato, il dialogo con Silvio Berlusconi.
Si chiede giustamente Scalfari come sia possibile affrontare con il cavaliere il tema impervio delle riforme istituzionali quando, contemporaneamente, egli sta smontando pezzo a pezzo lo Stato di diritto.
Ecco alcuni passi del suo editoriale tra i più significativi: "La luna di miele di Berlusconi è ancora in pieno corso con l'opinione pubblica e con la maggior parte dei giornali ma è già svanita in larga misura con il Partito democratico. Salvo un punto fondamentale, più volte ribadito da Veltroni: il dialogo deve invece continuare sulle riforme istituzionali e costituzionali.
E' evidente che questa "riserva di dialogo" condiziona inevitabilmente il tono complessivo dell'opposizione".
E , preoccupato, si interroga: "Quale dialogo si può fare nel momento in cui viene militarizzato il Paese nei settori più sensibili della democrazia?" .
Con il prevedibile corollario: “Il Partito democratico ha un solo strumento per impedire questa deriva: decidere che non c'è più possibilità di dialogo sulle riforme per mancanza dell'oggetto. Se lo Stato viene smantellato giorno per giorno e identificato con il corpo del Re, su che cosa deve dialogare il Pd? E' qui ed ora che il dialogo va fatto, la militarizzazione va bloccata."
Aspettavamo da tempo lo smarcamento dello staff di Repubblica da un’opposizione ormai prona ai bisogni del Cavaliere, che ambisce solo ad aggiungere il proprio nome sui titoli di coda del film da lui diretto.
L’incontro di qualche giorno fa alle otto di mattina a Montecitorio tra il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta e Veltroni, forse confidando con l’alzataccia di evitare sguardi indiscreti, potrebbe benissimo essere tratto da una pellicola di un grande del nostro cinema come il compianto regista Dino Risi.
Come è chiaro, quella di Scalfari più che una netta presa di distanze si configura come una solenne bocciatura della linea politica a scartamento ridotto intrapresa un anno fa dal gruppo dirigente del Partito democratico.
Ciò dovrebbe comunque servire a Walter Veltroni (finora inossidabile alle critiche) a decidere rapidamente cosa sia adesso più opportuno fare, non solo per il bene del suo partito ma per il futuro del Paese.
Non c’è più tempo da perdere.

mercoledì 16 aprile 2008

La vittoria del Cavaliere tra falsi presentimenti e titoli patetici

Alcuni quotidiani on-line di oggi, per informare i lettori sulla reazione dello sconfitto Veltroni circa la risoluzione presa da Berlusconi di eleggere sia il presidente della Camera che quello del Senato pescando nelle file del suo partito, ovvero senza lasciare nulla all’opposizione, riportano titoli così gridati:
“Veltroni attacca: brutto inizio sulle camere” o “Veltroni attacca: brutto inizio”.
Che pena… come si faccia a prendere sul serio titoli di questo genere è veramente surreale!
Ma come? Dopo mesi in cui la strana coppia ha fatto la stessa campagna elettorale, adesso il leader PD, dopo aver resuscitato Berlusconi, ci vorrebbe far credere, con il beneplacito della stampa di regime, che il Partito Democratico farà un’opposizione dura e puntigliosa…
Ma non avete visto lunedì sera come gongolava Fassino nel salotto di Vespa dall’alto del suo 33%, incurante del fatto gravissimo di aver consegnato (e chissà per quanti anni!) l’Italia su di un piatto d’argento al Cavaliere?
Certo, faceva bene a tradire un po’ di emozione: in fondo il tandem Berlusconi-Veltroni aveva raggiunto il suo primario obiettivo, cioè quello di buttare fuori dal Parlamento la Sinistra italiana.
Come ha detto magnificamente il bravissimo Maurizio Crozza ieri sera a Ballarò, quello che non è riuscito a Licio Gelli e alla Cia in cinquant'anni è riuscito a Veltroni in soli sei mesi.
Sappiamo bene dov’è andata a finire la tanto strombazzata rimonta che Eugenio Scalfari preannunciava, non più tardi di due settimane fa, scrivendo nel domenicale del 30 marzo: “Ho un presentimento: il centrosinistra vincerà sia alla Camera sia al Senato.”
D’accordo, va sicuramente rispettata la strategia politica veltroniana, cioè di segare il ramo in cui per decenni è rimasto aggrappato, anche se dal nostro punto di vista, la sua scelta non può essere in alcun modo condivisibile.
Ma per favore, risparmiateci i toni e i titoli da operetta: non siate patetici!

lunedì 18 febbraio 2008

PD e PDL, due colossi dai piedi d'argilla

I tempi sono senza dubbio difficili. Il fallimento dell’esperienza del centrosinistra dopo soli 20 mesi di governo sui 60 possibili la dice lunga sull’umore plumbeo che regna in Italia.
Il fatto che si sia chiuso un ciclo politico prima ancora che avesse sviluppato i suoi effetti lascia un grande sconforto un po’ in tutti, sia in chi aveva scommesso su Prodi capo del governo, sia in chi nell’elettorato con simpatie di destra, al di là del fuoco di sbarramento prodotto da Berlusconi & c., avrebbe voluto bocciare il governo dell’Unione sul terreno dell’economia e non sulla politica estera (crisi del febbraio 2007) o, peggio, sulla vicenda familiare di Mastella.
Per i conservatori, sarebbe bastato un terzo anno di legislatura per mettere la parola fine alla proposta politica del centrosinistra per parecchi anni; invece, così si lascia ai politici di quello schieramento l’alibi di un governo crollato sotto i colpi traditori di forze centriste capeggiate da Dini e Mastella.
In un momento molto delicato per la politica ed economia internazionale, anche a seguito della tempesta bancaria che sta scuotendo da mesi i mercati finanziari mondiali, le elezioni anticipate aggiungono problema a problema senza che se ne veda in alcun modo una via d’uscita.
E’ iniziata la campagna elettorale che si disputerà con il porcellum, pur sapendo in anticipo che la legge con cui si andrà per la seconda volta a votare presenta profili di incostituzionalità tali da mettere a rischio la ratifica dei risultati del voto, chiunque dovesse vincere.
Nel frattempo si è scatenata la bagarre comunicativa tra Veltroni e Berlusconi che, insieme ai propri luogotenenti, occupano da giorni pressoché tutto lo spazio mediatico disponibile.
Sono bastate le prime due puntate di Porta a Porta d’inizio settimana per mettere al tappeto chiunque segua ancora con un minimo di interesse le vicende politiche italiane.
Apprendiamo da Veltroni che la guerra in Afganistan condotta dall’Italia insieme alla Nato ha la stessa importanza della lotta alla mafia; ma il leader del partito democratico dimentica di dire che la prima sta andando avanti con micidiali bombardamenti aerei mentre la seconda si fa con le attività investigative, magari proprio avvalendosi delle intercettazioni.
Inoltre Veltroni ci ha avvertito in diretta TV che le intercettazioni non vanno rese di dominio pubblico (quindi pubblicate dalla stampa) fino alla celebrazione dei processi.
Almeno in questo caso, qualcuno gli dovrebbe spiegare (magari il suo nuovo alleato, Antonio Di Pietro) che senza il controllo dell’opinione pubblica le intercettazioni telefoniche, comunque messe a conoscenza delle parti processuali, diverrebbero materia di pressioni e ricatti, con il rischio concreto di inquinamento delle prove.
Perché, come dice Marco Travaglio, se non fossero state pubblicate quelle della doppia scalata Bnl - Antonveneta, i furbetti del quartierino sarebbero ancora nelle condizioni di fare altre “bravate” e il governatore Fazio siederebbe comodamente dietro la sua scrivania di Palazzo Koch.
Che poi l’Italia sia in Afganistan in missione di pace mentre il suo alleato americano insiste nel mettere a ferro e fuoco quella sfortunata terra chiedendoci un ulteriore coinvolgimento nelle operazioni militari, resta uno di quei misteri la cui comprensione è alla portata solo di menti superiori, magari proprio di quella del leader del Partito Democratico che, beato lui, ha tutto chiaro in testa.
Sui temi economici, usando gli stessi toni da televendita per i quali Berlusconi è insuperabile, Veltroni promette meno tasse e più asili nido.
Chissà perché ma quando dice così il pensiero va diretto al bravissimo Antonio Albanese alias Cetto La Qualunque con il suo surreale e prosaico “cchiu' pilu pi' tutti”.
Intanto Berlusconi promette che, tornato a Palazzo Chigi, non metterà ancora le mani in tasca agli italiani (come a dire, non diminuirà le tasse...) e non li terrorizzerà (dice proprio così!) con la lotta all’evasione fiscale; anzi, toglierà l’Ici.
Insomma, a tv spenta, Veltroni e Berlusconi nei vari interventi televisivi dicono più o meno le stesse cose: più che leader di due partiti in piena competizione tra di loro sembrano esponenti dello stesso partito che si sfidano sotto lo stesso tetto in una personalissima tenzone.
Non solo c’è convergenza tra le piattaforme politiche tra Partito Democratico e Partito della Libertà (ma si chiama veramente così il partito del Cavaliere?) ma, a furia di incontrarsi in vertici a due, sembra quasi che le loro forme di comunicazione si siano contaminate e reciprocamente omologate.
E’ come se lo stile di Berlusconi avesse finito per contagiare anche Veltroni che, se non altro per mancanza di originalità, rischia di perdere nettamente il confronto a distanza; ma un po’ di Veltroni c’è pure nel nuovo stile berlusconiano, più controllato del passato, meno propenso a promesse da marinaio.
Anche se i due continuano a mostrare sotto le telecamere temperamenti molto differenti: il primo straripante e istrionico, finge (lo speriamo!) di credersi l’unto del signore; il secondo, nei modi più colloquiale ma assai supponente in quello che dice, indugia frequentemente in toni ecumenici (la gag di Maurizio Crozza sul “ma anche” veltroniano è perfetta).
Insomma, un messia contro un santone, ovvero lo scontro politico più improbabile e lontano dai bisogni della gente comune che, annoiata e irritata, li vede pronunciare una sequela di vuoti slogan e sterili promesse, senza indicare a quale nuovo modello di società intendano riferirsi: insomma, la stessa minestra democristiana, per giunta riscaldata.
Di ciò si incomincia a preoccupare lo stesso Eugenio Scalfari che, nell’editoriale di ieri, cerca di trovare a tutti i costi delle differenze tra i due; una bella impresa che, nonostante il suo eloquio e la sua cultura, questa volta non gli riesce. Tant’è che è costretto, pur di operare un distinguo, a scendere sul piano della mera propaganda: “Berlusconi propone il ritorno al già visto, Veltroni vuole che tutto cambi nei programmi e nelle persone” ma si guarda bene dal precisare il senso concreto di queste parole, utili al suo pupillo solo per infarcire il prossimo discorso elettorale.
E’ facile prevedere che il Cavalier Silvio e l’americano de Roma Walter, così facendo, finiranno per pestarsi i piedi, sovrapponendo in parte la loro base elettorale e rischiando di lasciare scoperti spazi di consenso grandi come praterie dove potranno scorrazzare, a destra, l’Udc di Casini e la Rosa Bianca di Tabacci; a sinistra, evidentemente, la Sinistra Arcobaleno di Bertinotti.
Ma questo rassemblement, lungi dall’aprire nuovi scenari all’indomani delle elezioni politiche li costringerà, a causa della loro reciproca debolezza, ad una qualche forma di coabitazione.
Per i due colossi dai piedi d’argilla, l’ipotesi di grande coalizione, versione riveduta e corretta del “governo di larghe intese”, potrebbe diventare la sola strada percorribile: una vera iattura per il nostro Paese.
A meno che la forza iconoclasta di Beppe Grillo non scompagini, più di quanto non abbia già fatto in questi pochi mesi, la politica italiana...

lunedì 31 dicembre 2007

2007, l'anno della casta

Nell’editoriale di fine anno, Eugenio Scalfari descrive da par suo l’anno che si chiude all’insegna della disaffezione generale nei confronti della politica.
Ad onore del vero, non cita direttamente la parola politica, omettendola quasi per pudore; ma è chiaro che anche per lui non sia molto facile archiviare un anno avaro di soddisfazioni per gli Italiani che guardano alla vita pubblica.
Sommessamente, affronta il tema alla larga e parla di distacco considerandolo un fenomeno di costume piuttosto che una degenerazione del nostro sistema politico; inizia così:
“Il 2007 si chiude. E' stato l'anno del distacco. Se vogliamo sintetizzarne l'elemento dominante rispetto a tutti gli altri, questo si impone per la sua coralità, al Sud come al Nord, tra gli uomini e tra le donne, tra i giovani e i vecchi: distacco, indifferenza, riflusso.
Insicurezza. Precarietà psicologica prima ancora che professionale.
Sensazione di impoverimento, in basso come in alto. Perdita di senso. Quando una società si ripiega su se stessa e si rifugia nel suo privato, scompare uno dei suoi requisiti essenziali che è appunto quello della socievolezza. Subentra solitudine. La scelta di fare da sé alla lunga non paga se non c'è più lo sfondo pubblico entro il quale collocare il proprio talento e la propria intraprendenza.
L'anno che sta per chiudersi è stato terribile da questo punto di vista, ma ci consegna almeno quest'insegnamento: la dimensione privata distaccata da quella pubblica non produce ricchezza morale né materiale.
Siamo diventati amorali e asociali. Fiori finti invece che fiori freschi, senza profumo, senza polline, senza miele.”
La mancanza dello sfondo pubblico non è altro che la Caporetto della politica; sì perché, anche se Scalfari non lo dice, il 2007 è stato l’anno della casta, l’anno in cui i cittadini di ogni colore politico si sono resi conto di quale distanza siderale li separi dalla classe politica.
La sensazione sconfortante che fotografa l’anno che si chiude è che, spente le luci dei vari teatrini televisivi dove apparentemente se ne dicono di tutti i colori, i politici riconquistino d’un colpo la consapevolezza della propria identità di classe e difendano innanzitutto i loro privilegi in modo solidale e trasversale.
A rischio di essere tacciati di qualunquismo, la verità è che il riflusso che vede Scalfari non è altro che il comportamento riflesso di un’opinione pubblica che patisce pesantemente una crisi di rappresentatività, in un contesto economico sociale costellato di problemi da cui non riesce più a venir fuori soltanto con le proprie forze.
L’arena televisiva dei politici gladiatori in azione nei vari talk show ha stancato e non basta più a sopire un diffuso risentimento verso una classe dirigente tanto dispendiosa quanto il più delle volte inadempiente.
Per un Beppe Grillo che ha coraggiosamente raccolto il testimone di questo disagio di massa, ci sono molti altri cittadini che hanno gettato alle ortiche l’innata passione politica e si sono rifugiati nel privato per sconforto o protesta.
E’ giunto ora il momento di tornare o provare a parlare alla gente un linguaggio autentico, che rifugga l’applauso facile o lo share ma che sia in grado di formulare risposte sincere e chiare.
Poi ci si potrà pure dividere sulle tante questioni sul tappeto; ma è importante che i politici non recitino più a soggetto dando la sensazione di essere solo dei bravi imbonitori: lo stile da televendita ha fatto il suo tempo.
Chi decide di fare attività politica deve sapere che gli impegni che prende con i propri elettori non li può barattare per qualche poltrona più comoda o dimenticarli all’improvviso, soggiogato da qualche personalità carismatica; men che meno deve cedere alla tentazione del quieto buon vivere.
Faccia tosta e parlantina a stretto giro mediatico non fanno un politico, al massimo ne compongono la sua brutta copia.
Su questioni come legalità, giustizia sociale, sicurezza del lavoro e dei luoghi di lavoro, gestione delle forze dell’ordine, sviluppo ecosostenibile, politica estera, non si può continuamente arretrare rispetto agli obiettivi fissati in campagna elettorale, così che di un programma iniziale di quasi trecento pagine, se ne traducano in pratica sì e no dieci.
E’ senz’altro vero che la politica come arte di governare la società perseguendo il bene comune è anche arte della mediazione ma ciò deve avvenire, con tutti i limiti del caso, alla luce del sole come sintesi superiore di interessi diversi, chiaramente rappresentati nei luoghi costituzionalmente deputati al confronto democratico, cioè nelle aule parlamentari.
Non si può accettare che le riforme istituzionali vengano appaltate a singole personalità politiche in confronti vis à vis, lontani dalla ribalta mediatica e persino dal Parlamento che così viene svuotato di qualsiasi autorità.
Come ha detto recentemente lo scrittore Antonio Tabucchi, interpellato da Michele Santoro, questo sembra “il sistema di un catering: cioè si prepara il cibo fuori e poi si consuma nel Transatlantico dove viene siglato”.
Ma questa è la politica che rinnega se stessa. E davanti ai cittadini in questo finale di anno resta purtroppo soltanto la casta.

lunedì 24 dicembre 2007

Gli "omaggi" natalizi di Scalfari alla Forleo

Nel sermone natalizio di domenica 23, Eugenio Scalfari attacca a fondo il giudice di Milano Clementina Forleo (1):
“Una magistratura che ricama sgorbi sulle sue toghe aggrappandosi al cavillo della norma senza capacità né voglia di coglierne la sostanza. Magistratura pubblicitaria, così dovrebbe chiamarsi la parte ormai largamente diffusa che insegue la propria visibilità non meno dei Diliberto e dei Mastella.
La vicenda Forleo è il sintomo palese di questa devastazione pubblicitaria che sta sconvolgendo l'Ordine giudiziario e, con esso, il corretto esercizio della giurisdizione. Ho grande rispetto per Franco Cordero, nostro esimio collaboratore, e capisco anche le motivazioni giuridiche che l'hanno indotto a difendere il Gip milanese.
Secondo me quel Gip andrebbe censurato dal Csm non per la procedura che ha seguito ma per l'esibizione di volta in volta vittimistica e sguaiata, con la quale ha invaso teleschermi e giornali. Disdicevole. Aberrante per un magistrato. Falcone, tanto per dire, non ha mai usato quel metodo né lo usarono il magistrato Alessandrini, l'avvocato Giorgio Ambrosoli e tutti coloro che del mondo della giustizia caddero sotto il piombo del terrorismo o della mafia.”
Grande Scalfari! Non ne fa più una questione di rispetto delle procedure o di improprietà dell’attività giudiziaria del gip di Milano.
Come potrebbe d’altronde?
Il giurista Franco Cordero bolla le motivazioni che hanno spinto il Csm a chiedere il trasferimento della Forleo come del tutto inconsistenti e paralogiche; nella trasmissione di Michele Santoro di giovedì scorso, l’insigne studioso dice testualmente: “L’atto d’accusa nei confronti della dottoressa Forleo è fondato su argomenti che valgono pochissimo; potrei anche usare parole più brutali e dire che non valgono niente.”
Per questo il fondatore di Repubblica è costretto a fare marcia indietro sul merito delle accuse e la mette folcloristicamente sul piano della presunta sguaiatezza del giudice Clementina Forleo nelle sue ripetute invasioni mediatiche: sarebbe questo il vero motivo, per Scalfari, della necessità di una censura da parte del Csm.
Un’assurdità che si commenta da sola.
Ma per dimostrare la validità del suo bel ragionamento egli cita uomini di legge come Falcone, Alessandrini e Ambrosoli che non hanno inseguito la visibilità mediatica e che sono caduti sotto i colpi di mafia e terrorismo.
Purtroppo Scalfari non si rende conto che è proprio da quella illustre ed eroica esperienza che discende la necessità per magistrati come Clementina Forleo e Luigi De Magistris di gridare ai quattro venti il boicottaggio patito e l’isolamento in cui sono caduti ad opera delle istituzioni da quando si sono trovati tra le mani inchieste scottanti: una sorta di polizza assicurativa sulla vita fondata semplicemente sulla propria visibilità mediatica.
Purtroppo è questa la situazione in cui si trovano ad operare i magistrati più coraggiosi in un’Italia dominata dalle consorterie e incupita da una scia di sangue che ha intimidito i tutori della legge per decenni e su cui non è mai stata fatta luce fino in fondo.
Come è possibile che un navigato giornalista come Scalfari non si renda conto di quale pesante eredità ci sia tramandata dai mille misteri italiani ancora insoluti?
La devastazione pubblicitaria di cui egli blatera è purtroppo l’inevitabile conseguenza di quel clima e della guerra, questa sì rovinosa perché senza esclusione di colpi, che la politica con rare eccezioni ha apertamente dichiarato alla magistratura dall’epoca di Mani pulite.
Eppure il grande giornalista non sembra si sia scandalizzato quando a seguito della ormai famosa ordinanza del Gip Forleo l’onorevole Massimo D’Alema così sguaiatamente commentava (cfr. citazione di Marco Travaglio in Anno Zero del 20 u.s.)": “Che monnezza, che schifo la magistratura si comporta in modo inaccettabile; forse li abbiamo difesi troppo questi magistrati ma ora dobbiamo reagire. E’ una violazione della legge perpetrata dagli stessi magistrati. Siamo ancora uno stato di diritto? Non vedo alcuna ragione di giustizia, deve esserci sotto dell’altro… io ho qualche idea, prima o poi bisogna tirarla fuori”; oppure quando diceva: “Siamo fuori dallo stato di diritto. E’ pazzesco: quel Gip fa cattiva letteratura, crocifigge un cittadino, fa saltare per aria il sistema democratico. Perché questa vecchia immondizia rispunta fuori proprio ora?”
Quello in cui vive il fondatore di Repubblica probabilmente non è lo stesso paese in cui tutti noi siamo costretti a vivere sotto la cappa di formidabili poteri occulti, in un intreccio perverso di politica, affari e criminalità, che caratterizza senza soluzione di continuità periodi importanti di vita repubblicana.
E poi finiamola una buona volta col minimizzare quanto avvenuto tra la primavera e l’estate di due anni fa: quello fu il tentativo, abortito solo perché inopinatamente emerso alla luce del sole, di due scalate bancarie parallele ma entrambe illegali che si sostennero vicendevolmente grazie al tifo fazioso delle due principali forze politiche di allora.
Ce n’è abbastanza, al di là delle risultanze giudiziarie, per mandare a casa l’intera classe dirigente di quei due partiti.
E invece no, gli sciagurati protagonisti di quella stagione sono ancora lì a fare il bello ed il cattivo tempo, a dettare ancora l’agenda politica del nostro Paese.
Ecco perché, caro Scalfari, la gente come dice Lei, è schifata: perché già sa che, gattopardescamente, niente cambierà né alla Rai né in qualunque altro presidio pubblico occupato militarmente dalla politica.
E quella telefonata intercettata tra Agostino Saccà e Silvio Berlusconi sarà pure stomachevole ma è tutt’altro che sorprendente o inaspettata, al di là dell’opinione che si ha dei protagonisti: al bando l’ipocrisia, fotografa in modalità macro l’ordinario degrado morale della nostra classe dirigente.
Malauguratamente non si intravede all’orizzonte niente che possa toglierci rapidamente dalle sabbie mobili in cui il nostro sistema politico istituzionale è precipitato da tempo.
L’altra sera ad Annozero, in una meritoria puntata in cui Michele Santoro ha finalmente rivelato al grande pubblico televisivo come sembrino pretestuose ed inconsistenti le carte del Csm contro la Forleo, abbiamo potuto sentire la cosiddetta nuova politica rappresentata dal leader della Sinistra Giovanile criticare aspramente l’ordinanza emessa nel luglio scorso dal giudice Clementina Forleo, usando le stesse logore argomentazioni a suo tempo usate dai difensori e luogotenenti di Berlusconi: davvero un pugno nello stomaco per chi crede che i giovani possano rappresentare l’asso nella manica di un paese che, giustamente, al di là dell’Atlantico viene visto triste ed immobile.
Perché dei replicanti di D’Alema, Fassino, Mastella, ma anche degli emuli in erba di Berlusconi e Fini, questo paese non solo non sente la necessità ma addirittura ne teme lo shock anafilattico.
Ciò non toglie che la nostra democrazia ha un bisogno vitale di ricostruire efficaci processi di selezione della propria classe dirigente: magari fosse solo questione di legge elettorale!
E’ un intero sistema di reclutamento delle forze migliori, di nuovi talenti, di energie ideali che va ricostruito dalle fondamenta.
Che cosa possa innescare questo processo virtuoso è difficile dirlo: forse la rabbia montante tra i cittadini indignati dallo schifo della vita pubblica, proprio quello sottolineato dal predicozzo dell’antivigilia di Natale su Repubblica, può segnare l’alba di una nuova Italia.
Ma, allo stato delle cose, più che una speranza questo è piuttosto un pio desiderio.
(1): la Repubblica.it del 23/12/2007

venerdì 7 dicembre 2007

Repubblica dà il benservito a Bertinotti

Attacco senza precedenti di Eugenio Scalfari contro il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Non ha atteso come suo solito la domenica per infliggerci le sue petulanti prediche.
Questa volta senza tanti giri di parole ha costruito senza se e senza ma (come ama arbitrariamente e con un pizzico di beffarda ironia attribuire al pensiero politico del leader di Rifondazione) un intero pezzo contro Bertinotti.
E’ un affondo senza precedenti: raramente si è visto sulla stampa qualcosa del genere.
Forse mai dalle colonne di uno dei massimi quotidiani italiani.
E’ un giudizio senza appello che tradisce una ruggine sicuramente non nata ieri; per uno che si autoprofessa di cultura liberale, non è proprio il massimo dei risultati lanciare una sorta di avvertimento a mezzo stampa alla terza carica dello Stato alla cui elezione, è chiaro, a distanza di un anno e mezzo Scalfari ancora non si è rassegnato: o si dimette o deve tacere.
Pare impossibile, ma al lettore lo fa intendere chiaramente! Ecco la perla scalfariana [1]:
"Quanto alla crisi istituzionale, è evidente che essa deve essere immediatamente ricomposta. Sulla carta ci sono due modi di affrontarla: le dimissioni di Bertinotti dalla presidenza della Camera oppure una sua stagione di stretto riserbo politico nei limiti d'uno scrupoloso esercizio del suo ruolo istituzionale. La prima soluzione - quella delle dimissioni - è di gran lunga la peggiore. Aggraverebbe drammaticamente la crisi anziché risolverla; forse sarebbe possibile in un Paese diverso e in una diversa situazione. La seconda dunque è in realtà la sola strada, ma deve avere rilievo pubblico, deve essere esplicita e non implicita.
Non si deve certamente chiedere a Bertinotti ciò che nessun politico è disposto a dare, non gli si può chiedere di smentire se stesso. Ma si ha ragione di chiedergli che dica che d'ora in avanti non farà più esternazioni politiche visto che esse provocano disagio e contrasti accrescendo la confusione.[…]Mai come in questa occasione l'arbitro non può giocare in campo con i giocatori, né nella forma né nella sostanza. Perciò si turi le orecchie, si bendi gli occhi e abbia di mira esclusivamente la corretta applicazione del regolamento parlamentare.”
Che un giornalista, sia pure il fondatore di un giornale diventato nei fatti un organo di partito, arrivi ad usare parole così sprezzanti e dure nei confronti di una carica istituzionale, al di là del merito delle questioni sollevate, è l’ennesima grave anomalia della democrazia italiana.
Ormai la vita istituzionale del nostro Paese non si svolge più nei luoghi deputati dalla Costituzione a tale funzione ma molto più incisivamente nelle direzioni dei media che, fino a prova contraria, non sono propriamente incarichi elettivi.
Contribuendo, tra l’altro, alla paralisi politica e a quel caos istituzionale che è sotto gli occhi di tutti.