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domenica 19 agosto 2012

Scalfari furioso contro Zagrebelsky

Eugenio Scalfari, nel suo ultimo editoriale, arriva a prendersela addirittura con l'insigne costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, colpevole di aver invitato, con un intervento chiarissimo e oggettivamente ineccepibile su Repubblica di venerdì, il Capo dello Stato a fare un passo indietro nella guerra dichiarata alla Procura di Palermo, in seguito all'inaudito e senza precedenti conflitto di attribuzione sollevato contro i Pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia, da cui derivarono le stragi del 1992-93 con l'uccisione del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta ma forse anche la precedente ecatombe di Capaci, con il chilometro di autostrada fatto saltare al passaggio del corteo di auto in cui viaggiavano Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti di scorta.
E' vero che con l'età, specie se veneranda, si perdono i freni inibitori ma Scalfari ha l'ardire di  impartire insulse lezioni di diritto costituzionale non solo ad un ex presidente della Consulta ma soprattutto ad un indiscusso valentissimo giurista, lui che si è laureato in giurisprudenza nel 1946, avendo avuto al massimo dimestichezza con lo Statuto Albertino piuttosto che con la Costituzione Repubblicana (del 1948). 
Ma è forse proprio la sua vetusta e obsoleta preparazione universitaria, accanto ad una percezione di sè tanto smisurata da sembrare caricaturale, che lo induce erroneamente a riconoscere a Giorgio Napolitano i poteri di un monarca assoluto, da ancien régime.
Il tutto condito da argomentazioni speciose in cui evoca per l'ennesima volta un clima eversivo che congiurerebbe contro il Quirinale a cui lo stesso Zagrebelsky non solo colpevolmente non si sottrarrebbe ma di cui finirebbe per essere direttamente responsabile; senza dimenticare quelle forze politiche e quei giornali (leggi: Il Fatto Quotidiano) e l'uso che fanno delle sue dichiarazioni.
Scalfari giunge a tanto: ad additare presunti nemici del Presidente inserendoli in una sua fantomatica lista di proscrizione.
Siamo veramente messi male!
E poi, prendendo spunto da una recente missiva del Colle, riesce a confondere, ipocritamente, il predicare bene con il razzolare male.
Purtroppo per lui, quello che contano sono i comportamenti.
Ed è inutile che Napolitano faccia la bella figura di esortare i pm palermitani a fare piena luce sulle inchieste in corso se poi, per occultare le telefonate con Mancino che lui stesso deve evidentemente ritenere disdicevoli, arriva a compiere un atto di inaudità gravità, cui consegue la delegittimazione ipso facto di quegli stessi organi inquirenti.
Siamo tutti stanchi di quei continui vuoti e polverosi moniti cui, nella migliore tradizione italiana, non segue alcun comportamento coerente, beninteso non solo da parte sua. 
Ma ciò che di più riprovevole tenta di fare Scalfari è di negare l'esistenza della trattativa Stato-mafia, fingendo che non ci sia mai stata, nonostante parlino, molto più della ricostruzione degli storici, l'evidenza incontrovertibile di importanti sentenze giudiziarie definitive.
Per Scalfari, ma sembrano le parole di Marcello Dell'Utri, non c'è verità da conoscere: "Qual è dunque il reato che si cerca, la verità che si vuole conoscere? Deve essere un'altra e non questa". Oppure, prosegue, attribuendone l'analisi ad Antonio Ingroia "una trattativa svoltasi in una fase in cui la mafia era ridotta al lumicino e per tenerla in vita si invocava l'aiuto dello Stato".
Qui lo scantonamento di Scalfari diventa pericoloso: ma quando mai la mafia è stata ridotta al lumicino?
Il fatto che i capimafia da dentro il carcere spingessero per l'abolizione del 41 bis non vuole assolutamente dire che il loro potere si fosse indebolito né che indebolita fosse l'organizzazione criminale che continuavano a comandare.
E' tuttavia evidente che in una struttura tanto accentrata e gerarchizzata come Cosa nostra, che  dipende in tutto e per tutto dai boss, sia pure internati nelle patrie galere, la possibilità di questi di comunicare più facilmente con l'esterno andava al più presto ristabilita, anche al prezzo di alzare il livello della sfida criminale contro lo Stato e di scatenare un volume di fuoco senza precedenti, persino contro vittime innocenti.
Possibile che Scalfari prenda un abbaglio simile con tanta sciocca sicumera?
Ed anche il riferimento che fa a Giovanni Falcone non solo è di pessimo gusto ma è per certi versi inquietante. 
Cosa sta tentando di dirci? Forse che sia meglio per i magistrati palermitani rilasciare poche interviste, non addentrarsi nella "zona grigia" del coinvolgimento della politica, per poi comunque saltare in aria  su una bomba?
Dov'è finito lo Scalfari degli anni del giornalismo d'inchiesta ora che, in preda al cupio dissolvi, sta dilapidando miseramente un patrimonio di credibilità per difendere, non si sa bene come e perché, l'uomo Napolitano ma non certo l'istituzione che egli rappresenta?

La verità è che è ancora oggi in atto una lotta senza esclusione di colpi di una parte dello Stato, quella che trattò con i mafiosi ed essa stessa è stata infiltrata o è organica alla mafia, contro la parte sana che pretende finalmente verità e giustizia.
Ciò sta avvenendo nel corso di un passaggio politico epocale in cui il vecchio assetto della Seconda repubblica è collassato su se stesso in conseguenza della grave crisi finanziaria ed economica e dell'improvviso emergere di forze e movimenti nuovi che non ne possono più di una dittatura strisciante in cui ha finito per degradare il finto bipolarismo italiano.
Se il famigerato ABC, simbolo supremo di nullità ideologica e parassitismo politico, l'impresentabile trio Alfano-Bersani-Casini, non fosse stato costretto a venire allo scoperto,  appoggiando insieme e appassionatamente il governo di Mario Monti, ponendo fine a quello stucchevole teatrino quotidiano che li vedeva finti avversari con le loro penose schermaglie di rito da dare in pasto ad un elettorato ingenuo, stanco e disattento che la sera cerca in televisione solo intrattenimento a livello di "Scherzi a parte", molto probabilmente sarebbe stato possibile evitare lo scontro aperto con la magistratura ed arrivare ad una qualche forma di normalizzazione, contando sul frastuono della disinformazione di regime.
Ma l'accelerazione impressa alle indagini degli eroici pm siciliani, anche  grazie alle rivelazioni di Spatuzza e di Massimo Ciancimino, in aggiunta alla grave crisi politico-istituzionale con il discredito generale dei vecchi partiti e ai nuovi irridenti movimenti della società civile, in primis quello capeggiato da Beppe Grillo, fa temere per chi è rimasto o addirittura è andato al potere proprio a seguito di quella sanguinosa stagione, che una drammatica e definitiva resa dei conti presto ci sarà.
Ecco perché lo scontro è trasversale ai vecchi schieramenti; ecco perché l'anomalia Silvio Berlusconi ha finito per troppo tempo per camuffare una parte della verità, cioè il vero titanico scontro tra lo Stato democratico e un irriducibile Controstato politico-mafioso, i cui esponenti vestono evidentemente diverse maglie, non solo quella del Pdl.

venerdì 17 agosto 2012

Gustavo Zagrebelsky a Giorgio Napolitano: "Perché lo fai?"

Su Repubblica di oggi viene pubblicato, sicuramente facendo dispiacere ad Eugenio Scalfari, un appassionato intervento del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky che si appella al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affinché torni sui suoi passi e ritiri il decreto del 16 luglio con cui ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo per la vicenda delle intercettazioni telefoniche indirette di lui con Mancino e che Re Giorgio  pretende in tutti i modi vadano distrutte prima che la pubblica opinione ne apprenda il contenuto.

Con tutta la studiata cautela e la personale riflessione di un insigne giurista, Zagrebelsky gli fa capire che non solo personalmente in questo modo si è ficcato in un vicolo cieco ma ha messo in crisi l'intero assetto costituzionale costringendo la Corte Costituzionale ad un pronunciamento che, quale esso sia, finirà per modificare la Costituzione, contro la volontà ed il silenzio dei padri Costituenti. E sottolinea:
"Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?".

Tuttavia quello di Zagrebelsky non è solo un accorato appello ma un rimprovero bello e buono, vada anche per l'affettuoso, rivolto al Capo dello Stato per la sua condotta avventata. Infatti esordisce così (beninteso, con la garbata omissione di un 'non'):

"È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c'è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l'esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla."

Per favore, somministrate d'urgenza un calmante al corazziere di complemento Scalfari anche perché Zagrebelsky invita il Presidente a non lasciarsi "fuorviare dal coro dei pubblici consensi".



lunedì 16 luglio 2012

Il Quirinale contro la Procura di Palermo: una brutta pagina di storia

Si apprende in queste ore che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha firmato il decreto di incarico all'Avvocatura generale dello Stato per sollevare conflitto di attribuzione nei confronti della Procura generale di Palermo, per la nota vicenda delle telefonate intercorse e intercettate tra Napolitano stesso e Nicola Mancino, essendo state messe sotto controllo le utenze telefoniche di quest'ultimo, indagato dai pm siciliani per falsa testimonianza nell'ambito dell'inchiesta sulla presunta trattativa Stato mafia.
Per i cittadini onesti di questo Paese, l'atteggiamento di Napolitano è veramente incomprensibile.
Ma come??
Di fronte alla necessità di fare chiarezza sulla stagione delle stragi mafiose del 1992-93 e sul 'papello' che i boss mafiosi avrebbero concordato con gli apparati istituzionali, che cosa fa il Capo dello Stato?
Invece di compiacersene elogiando pubblicamente l'impegno profuso dai magistrati di Palermo per venire a capo dei troppi misteri e fare luce sulle tante zone d'ombra di quella stagione eversiva e di sangue che provocò numerosissime vittime innocenti (in primis, il sacrificio umano di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e delle loro scorte, a cui il popolo Italiano deve eterna riconoscenza) e magari fare in modo che possano continuare a lavorare, facendo loro sentire il più possibile la vicinanza dei vertici delle istituzioni, con la massima serenità, efficacia e celerità per individuare i mandanti occulti di quell'ecatombe, che cosa fa il primo cittadino della repubblica?
Ingombrantemente, si mette di traverso all'inchiesta palermitana, non solo non svelando spontaneamente il contenuto di quelle conversazioni che pure nelle settimane scorse ha affermato stizzosamente essere irrilevanti, ma addirittura appellandosi alle sue prerogative di irresponsabilità per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, scomodando a sproposito l'art. 90 della Costituzione.
In pratica si attesta sulla linea di difesa di Eugenio Scalfari che questi aveva spudoratamente esposto in un recente editoriale che, è il caso di ricordarlo ai lettori più distratti, nei giorni scorsi è stata oggetto di pubblico ludibrio da parte di molti osservatori ed esperti costituzionalisti, per essere palesemente un coacervo di castronerie sul piano logico e di giganteschi strafalcioni giuridici.
Infatti, dando un attimo per  buone le parole di Scalfari ma solo come esercizio di scuola, ovvero ragionando per assurdo, si arriverebbe alla conclusione impossibile che, qualora la primula rossa della mafia, Matteo Messina Denaro, decidesse di telefonare al Quirinale, gli ufficiali di polizia che magari ne ascoltano da tempo le conversazioni, dovrebbero immediatamente interrompere l'intercettazione stessa, quand'anche nel corso della telefonata pronunciasse minacce contro l'inquilino del Colle o svelasse le sue complicità o ancora il suo nascondiglio per essersi risolto a porre fine alla propria latitanza.
Tutto ciò nel malinteso intento di tutelare (?) l'irresponsabilità del presidente della Repubblica.
Una tale mostruosità si commenta da sé.
Ma ciò che più delude (o indigna) è la motivazione che Napolitano adduce a tale iniziativa: "evitare si pongano, nel suo [nda: del Presidente] silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell'occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la costituzione gli attribuisce".
Insomma, la classica foglia di fico: non lo faccio per me ma per il mio successore.
E doveva cogliere proprio l'occasione sbagliata per contornare, in punta di diritto, le proprie prerogative costituzionali?
E proprio quando alle viste per l'Italia democratica c'è il traguardo di riportare alla luce, vent'anni dopo, le nefandezze e le responsabilità del biennio stragista,  da cui ha preso forma l'attuale Seconda repubblica.
Mentre l'Italia si dibatte tra mille difficoltà, una brutta pagina di storia viene scritta oggi in cima al Colle: eppure lassù non c'è Berlusconi!

mercoledì 11 luglio 2012

Scalfari: ma che domenica bestiale in difesa del Colle

L'editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica di domenica scorsa corredato dalla sua aggiunta di ieri in cui circostanzia  a modo suo le accuse contro la Procura di Palermo, rea a suo dire di aver intercettato illegittimamente Giorgio Napolitano e poi di non averne subito distrutto i contenuti, è stato azzerato dalle numerosissime critiche degli addetti ai lavori in conseguenza degli enormi e diffusi strafalcioni giuridici che ne minano pressoché tutte le argomentazioni.
Neppure uno studentello, magari ancora in procinto di cimentarsi nello studio delle sudatissime procedure, avrebbe commesso un tal peccato, al tempo stesso, d'ingenuità, d'ignoranza e di presunzione. 
Eppure Scalfari, noncurante di accumulare in poche righe castronerie su castronerie in un percorso minato che certamente ha finito per non rendere un buon servizio al suo amato Presidente né al giornale che lo deve ospitare in virtù di antichi meriti (decisamente prescritti), sembra animato da una sola grande preoccupazione: che le telefonate tra Nicola Mancino e Giorgio Napolitano vengano al più presto distrutte, rinverdendo suo malgrado i fasti dell'epopea berlusconiana.
Insomma, da buon amico del Presidente della Repubblica, Scalfari lascia pensare che neanche lui è disposto a mettere la mano sul fuoco sulla esemplarità costituzionale delle intercessioni telefoniche del Colle a favore dell'indagato Mancino.
Se qualcuno tra gli Italiani si ostinasse ancora a pensare che quella del Quirinale è una casa di vetro nella quale l'attuale inquilino agisce in perfetta trasparenza e soprattutto in coerenza con il diluvio dei suoi vacui moniti e tracimanti esternazioni, ecco che è stato prontamente smentito.
Pare che sia l'Avvocatura dello Stato che il consigliere giuridico di Napolitano, Loris D'Ambrosio, protagonista lui stesso delle suddette performances via cavo, si starebbero muovendo, la prima, chiedendo chiarimenti alla Procura palermitana, il secondo, addirittura per ottenere l'acquisizione dell'intero fascicolo.
Insomma, invece di mettere tutto nero su bianco e far emergere alla luce del sole il contenuto di quelle conversazioni proprio per fare piazza pulita di tutte le illazioni costruite sul "nulla", come ha sdegnosamente precisato il Presidente, la macchina del Quirinale starebbe virando in tutt'altra direzione. 
Quanto a Scalfari, decisamente gli esami per lui non finiscono mai.
Per risparmargli altre brutte figure, possibile che a Piazza Indipendenza non ci si attrezzi finalmente a impartirgli lezioni private, passandogli appunti di diritto costituzionale e di procedura penale?

giovedì 21 giugno 2012

Repubblica e la difesa del Colle

Le rivelazioni che stanno uscendo grazie alle indagini della procura di Palermo sul patto mafia-stato che nel 1992 avrebbe tra l'altro portato alla strage di via D'Amelio, con l'uccisione del giudice Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta, sono di un'estrema gravità e qualsiasi cittadino italiano degno di questo nome avrebbe il diritto sacrosanto di pretendere, ad alta voce, la massima trasparenza a tutti i livelli istituzionali affinché sia fatta finalmente luce, con vent'anni di ritardo,  su una delle stagioni più oscure e terribili della nostra storia.
Soprattutto ci si aspetterebbe da parte degli attuali vertici istituzionali, in primis la presidenza della Repubblica, la massima collaborazione con quel manipolo di eroici magistrati che, avendolo giurato prima ancora che sopra la tomba dei colleghi alla propria stessa coscienza ed a tutti gli Italiani, si prodigano quotidianamente nell'indifferenza o nel silenzio complice della politica, combattendo una lotta impari ed a rischio del proprio estremo sacrificio, per venire a capo delle tante ombre che ancora si affollano su quelle tragiche vicende e ne occultano la verità e le gravissime responsabilità penali.
Purtroppo, nella costernazione di quanti hanno ancora a cuore questo Paese, non è così. E ad essi si risponde in modi evasivi ed arroganti.
Lo staff del presidente della Repubblica ha infatti definito come "risibili e irresponsabili illazioni" le rivelazioni del Fatto Quotidiano sulle pressioni esercitate dall'ex ministro Nicola Mancino contro i pubblici ministeri di Palermo, in prima linea nell'indagine sullo scellerato patto che, cedendo al ricatto mafioso, all'epoca avrebbe finito per barattare l'incolumità di alcuni politici per l'allentamento delle condizioni carcerarie dei boss mafiosi allora detenuti.
Meno grave ma ugualmente inquietante è che alcuni importanti quotidiani, dopo essere stati i primi ad averne dato nei giorni scorsi la notizia (sia pure a pagina 22 che, come ironizza il grandissimo Marco Travaglio, "dev'essere quella riservata agli scandali di Stato")  si affannino adesso a minimizzarne la portata, e per voce delle loro firme migliori, a mettere su una difesa del Colle così sbilenca e raffazzonata da lasciare allibiti.
Racconta, infatti, Eugenio Scalfari in un poco meditato intervento video, spendendosi a spada tratta per Giorgio Napolitano, che non sarebbe la prima volta che il Capo dello Stato interviene su un'inchiesta in corso quando la magistratura procede in ordine sparso e fa il caso del conflitto di competenza sollevato a suo tempo tra le procure di Salerno e Reggio Calabria.
Ma,  a parte le mille riserve su questo paragone, Scalfari fa finta di non sapere che sulla trattativa mafia-Stato del '92-93 non c'è alcun conflitto di competenza tra le procure di Palermo e Caltanissetta (che intanto sta indagando sulla strage di Via D'Amelio) e dunque nessuna necessità di coordinamento o normalizzazione, che dir si voglia.
Inoltre, implicitamente egli avalla l'inammissibile pratica per cui un imputato, quale è allo stato degli atti il privato cittadino Nicola Mancino,  possa chiedere riservatamente un intervento superiore sull'inchiesta in cui lui stesso è direttamente coinvolto abusando della conoscenza personale del Capo dello Stato.
Una mostruosa bestemmia logica prima ancora che giuridica.
Ed è per questo che Scalfari, mandato all'ammasso il buon senso, è costretto a spostare il focus della sua argomentazione sul governo Monti, usando le stesse argomentazioni che per anni hanno usato gli ascari di Berlusconi per sottrarlo politicamente all'assunzione di responsabilità sui suoi vizi pubblici e privati: chi attacca Napolitano per queste ragioni pretestuose (sic!), egli conclude, lo fa per indebolire il governo Monti e quindi il PD deve prendere le distanze da Antonio Di Pietro, promotore di un'indagine parlamentare sui fatti del biennio nero '92-93.
Ma è possibile che un quotidiano come Repubblica sia disposto a tale sacrificio culturale, intellettuale (e di lettori!), pur di difendere ciecamente il Quirinale, il governo dei tecnici e  quel che resta del PD?

domenica 17 giugno 2012

La lezione di giornalismo di Scalfari: le notizie non vanno nascoste, vanno date in modo sommario e quindi impreciso

Nei giorni scorsi abbiamo assistito all'ennesima figuraccia del ministro Elsa Fornero che, invece di lasciare, dimettendosi dalla carica così maldestramente ricoperta, cospargendosi il capo di cenere per aver ostinatamente fissato da mesi in 65mila contro ogni evidenza il numero degli esodati a fronte di un dato appena diramato dall'INPS che ne quantifica addirittura 6 volte tanti (390mila), ha deciso addirittura di raddoppiare, arrivando a chiedere le dimissioni del presidente dell'Inps, Antonio Mastropasqua, reo di aver fatto pubblicare le cifre reali del fenomeno: "E' grave l'episodio riguardante l'uscita dei numeri sull'entità degli esodati. Se l'Inps facesse parte di un settore privato, questo sarebbe un motivo per riconsiderare i vertici".
Invece di fare pubblica ammenda per la cantonata presa ha soggiunto: "Sono usciti dei documenti che contengono numeri parziali e non spiegati, e questa non è mai una bella cosa. Il ministero non ha mai voluto dire che i numeri non debbano essere dati: io dico soltanto che quelli sono parziali e non interpretati. E allora - ha proseguito -dare dei numeri così, su questioni che interessano molti italiani è molto improprio e deresponsabilizzante. Quindi questo è un episodio grave".
Non siamo i soli a ritenere, un po' come scriveva l'Economist ai tempi di Berlusconi, che il ministro Fornero sia unfit for office.
In soccorso del ministro inopinatamente scende in campo proprio Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica che nell'odierno domenicale, prima sembra prenderne le distanze: "[...]cifre il cui ordine di grandezza è comunque fortemente superiore a quanto finora ha previsto il governo"; ed ancora: "Ciò che il ministro dovrebbe fare ora con la massima urgenza è di chiarire e indicare cifre certe rinnovando l'impegno alla loro copertura nella data corrispondente allo scatto della 'tagliola'".
Poi sorprendentemente conclude: "Che la pubblicazione del documento Inps abbia acceso un incendio di rabbie aggiuntive è un fatto incontestabile che poteva essere evitato non nascondendo le notizie ma dandole in modo sommario e quindi impreciso."
Grande lezione di giornalismo del decano di Piazza Indipendenza: le notizie non vanno nascoste, piuttosto vanno date in modo sommario e impreciso.
A sostegno del ministro, Scalfari aveva in precedenza usato un argomento non solo sbagliato ma pericoloso.
A proposito della mozione di sfiducia personale presentata da Lega e Idv contro il ministro, egli sostiene: "La mozione non considera che una copertura preventiva di un debito dalle cifre ancora incerte iscrive quella posta passiva nella contabilità nazionale "sopra la linea", il che significa che va ad aumentare ulteriormente l'ammontare del già gigantesco debito pubblico."
A parte il fatto che da parte dello Stato riconoscere oggi un diritto che maturerà a suo tempo a favore di coloro che sono costretti dalle aziende a lasciare il lavoro in via anticipata mentre la riforma delle pensioni ne sposta in avanti di 5-7 anni la meta previdenziale, non solo è necessario ma è sacrosanto, per evitare di tenere centinaia di migliaia di famiglie sulla corda.
Ma forse Scalfari e il suo governo dei tecnici a queste quisquilie non ci badano, abituati come sono a vivere in mezzo agli agi.
C'è poi soprattutto una considerazione tecnica da fare, cioè che un impegno di spesa previsto per il medio-lungo termine non aumenta ipso facto l'attuale debito pubblico, come egli fa credere.
E ammesso e non concesso che ciò avvenga, il suo suggerimento rappresenterebbe l'ennesima misura da finanza creativa, proprio come ai tempi di Berlusconi e Tremonti:  nascondere le spese tra le pieghe di bilancio, tanto per ingannare la Merkel e l'UE.
Un ragionamento balzano che speriamo non giunga agli occhi dei tedeschi; i quali, non è un mistero, non nutrono grande considerazione per la nostra classe dirigente e che dei conti pubblici italiani finora hanno sempre diffidato.
Figuriamoci se leggono la difesa di Scalfari per la Fornero quando, senza troppi giri di parole, fa capire che il ministro, con la scusa della gradualità dell'esodo pensionistico,  ha fatto bene ad occultare le cifre!

domenica 11 marzo 2012

I 100 giorni del governo Monti: un grande avvenire dietro le spalle

Il governo degli pseudotecnici, quello che toglie ai poveri pur di non disturbare i ricchi, è arrivato al traguardo dei primi 100 giorni e già molti si interrogano su che cosa ne sarà in futuro, magari dopo le elezioni del 2013. 
Prima di guardare in avanti varrà forse la pena di girarsi indietro per capire che cosa ha combinato finora.
Sicuramente è riuscito a togliere parecchie castagne dal fuoco a Silvio Berlusconi che, tra una manovra di mezza estate, la lettera della BCE, gli scandali privati, le varie inchieste giudiziarie sulle mille e una cricca, gli attacchi finanziari ai suoi gioielli di famiglia, era giunto alla fine di ottobre in completo stallo e in grosso debito di credibilità internazionale, nel pieno di una tempesta finanziaria che aveva portato il rendimento dei titoli di stato italiani oltre la soglia psicologica del 7%, ad un passo del default con il famigerato spread sui bund tedeschi decennali stabilmente sopra i 500 punti.
Soprattutto è stato capace di varare una manovra lacrime e sangue che rappresenta il fiore all'occhiello per una destra tecnocratica e filoeuropea: in Europa nessun altro governo è riuscito a fare di più, tanto che l'Italia può oggi vantare (si fa per dire!) le regole previdenziali più severe del vecchio continente e gli stipendi tra i più bassi (al 23°posto tra 30 paesi OCSE).
Dopo questa partenza bruciante, trascorse le vacanze di fine anno, la guida del governo è stata assai più incerta e contraddittoria: sia la manovra delle liberalizzazioni che il decreto sulle semplificazioni, strombazzati come passaggi epocali, si sono rivelati ben poca cosa, confermando l'assoluta inadeguatezza dell'esecutivo guidato da Mario Monti non solo di proporre una necessaria redistribuzione del reddito, condizione necessaria per riavviare il motore dello sviluppo, ma semplicemente di modulare gli ulteriori sacrifici imposti ai cittadini in proporzione alla loro condizione economica.
Niente da fare, pagano sempre i soliti noti, lavoratori e pensionati, mentre pure le categorie che a chiacchiere erano state prese di mira come tassisti, notai, liberi professionisti, farmacisti, hanno potuto tirare il proverbiale respiro di sollievo.
Di imposta patrimoniale non è rimasta quasi traccia: la nuova Ici, cioè l'Imu, colpisce tutti, con un vero e proprio shock per i piccoli proprietari e le imprese agricole.
La cosiddetta minipatrimoniale sulle attività finanziarie è poi una autentica beffa: non il quotidiano dei bolscevichi, ma Il Sole 24 ore qualche giorno fa ha titolato che la stangata non è per tutti ma nel 2012 risparmia proprio i grandi patrimoni, dato che il bollo dell'1 per mille prevede un tetto di 1.200 euro. Con una imbarazzante curiosità:  a beneficiarne saranno pure i coniugi Monti...
Delle tre parole d'ordine rigore-equità-crescita, resta solo soletto il rigore, ma a questo punto trattasi di pura vessazione sociale.
E se lo spread è sceso fino a quota 300 lo si deve in massima parte alla gigantesca immissione di liquidità effettuata dalla BCE di Mario Draghi che in due tranches, il 22 dicembre e il 28 febbraio scorsi, ha immesso qualcosa come 1000 miliardi di euro nel sistema bancario europeo: per intenderci metà del debito pubblico italiano.
Con questi soldi presi in prestito al tasso simbolico dell'1% per tre anni, le banche hanno potuto acquistare i titoli di stato che ancora garantiscono un rendimento medio attorno al 4%: ecco spiegato il miracolo della discesa dello spread!
Nel frattempo, contrariamente ad ogni previsione  azzardata al momento delle sue dimissioni, adesso Berlusconi non solo non è fuori gioco ma è politicamente più forte, avendo recuperato in questi mesi  molte frecce al suo arco.
Come avrebbe potuto sperare di meglio quel freddo sabato di novembre quando salì al Quirinale per dimettersi tra i fischi e le scene di giubilo della folla, di ritrovarsi tre mesi dopo senza aver dovuto caricarsi personalmente della responsabilità di misure impopolari, lasciando che a farlo fossero i tecnici?
E adesso  pure con l'inopinata prescrizione sul processo Mills e, ciliegina sulla torta, con l'annullamento della condanna di 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa al suo fido scudiero Marcello Dell'Utri!
E' proprio tutto un altro clima ora, tant'è che lui e il suo delfino, quello con o senza quid (a voi la scelta!), possono sparare ancora una volta ad alzo zero contro i magistrati: eppur non chiamandoli pecorelle, nessuno si scompone più di tanto, meno ancora dentro il partito di Bersani.
Infatti, senza il Partito Democratico e il suo emerito segretario, tutto questo sarebbe stato materialmente impossibile.
Se non è restato un sogno del Cavaliere, è anche grazie al partito in cui militava il tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, quello che ha fatto fuori 13 ma forse 25 milioni di euro: sì quello che al ristorante dietro il Pantheon spendeva 100 euro a testa per l'antipasto e 180 euro per un piatto di spaghettini al caviale, tutto in conto al partito, senza che nessuno si sia mai accorto di nulla. E che intervistato da Servizio Pubblico di Michele Santoro si domanda incredulo: "Dove sono finiti i 181 dei 214 milioni di euro che ho amministrato. 181 li abbiamo usati tutti per pagare il personale e per pagare i telefonini??".
Ma è anche grazie al segretario Pierluigi Bersani che, intervistato da Repubblica venerdì scorso, rivendica la riforma delle pensioni con queste parole"Quando mi fermano al supermercato- perché io vado al supermercato - le persone si lamentano per la riforma della previdenza. Dicono 'Segretario, noi andremo in pensione quattro anni dopo'. Io, nel rispondere ci metto la mia di faccia, e credo di dare così un contributo alla discesa dello spread".
E sulla TAV  è ancora una volta ultimativo: "Il se non è più in discussione. Non c'è più spazio per posizioni ambigue che con la scusa del dialogo possano mettere in forse l'opera. Si può invece discutere il come".
Per il democratico Bersani l'opera va fatta, il dialogo su questo punto è inutile.
Che poi la sollecitazione non solo provenga dalle popolazioni della Val di Susa (e oltre!) ma da più di trecento docenti universitari, ricercatori e professionisti è cosa che proprio non lo riguarda.
In fondo un'opera pubblica da oltre 20 miliardi di euro, pronta forse nel 2030, mentre il Paese è alla canna del gas, che vuoi che sia?
Fra l'altro come non essere ottimisti vista e considerata l'attenzione certosina che i suoi colleghi di partito, vedi i casi Lusi, Penati e compagnia gaudente, hanno per il denaro pubblico?
Lasciateci però ancora credere che di fronte ai cittadini non ci si possa intestardire su un megaprogetto senza prima essersi rimboccati le maniche (vi ricordate la mitica camicia di Bersani nel manifesto elettorale?) e essersi confrontati a viso aperto con loro.
Il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, nel suo odierno editoriale freme alla sola idea che si possa aprire un confronto pubblico sul tema e si domanda ironicamente se ci sia forse una "Repubblica referendaria" da creare o un "Palazzo d'Inverno da invadere".
Ma la risposta è molto più semplice: c'è una intera classe dirigente, di destra e di sinistra, incompetente, corrotta e infingarda, da mandare a casa.
A stretto giro di urne. 

sabato 24 dicembre 2011

Lo spread che non scende: il bluff del governo Monti

La manovra del governo Monti, un confuso accrocchio di tasse destinate a colpire esclusivamente pensioni, lavoro e redditi bassi, ha avuto nella settimana di Natale il via libero definitivo dal Senato. 
La Casta l'ha votata compatta, anche se con qualche ulteriore defezione, facendo finta di guardare da un'altra parte; anzi, senza ritegno, di lamentarsene con i propri elettori.
E' dovuto intervenire lo stesso Mario Monti a svelare il doppio gioco: «Vorrei dire ai cittadini che l`appoggio che questo Governo sta ricevendo è molto più grande di quello che i partiti lasciano credere o dichiarano».
Insomma il capo del governo non ci sta a fare il capro espiatorio di una situazione che si sta avvitando su se stessa e che, anche grazie ai suoi uffici, sta diventando di giorno in giorno più difficile.
Lo scenario in queste due ultime settimane si è fatto infatti ancora più scuro e inquietante.
La manovra del preside Monti e di quei professoroni è appositamente studiata per far versare lacrime e sangue ai soliti noti: lavoratori, pensionati, famiglie a basso reddito.
Non c'è un solo provvedimento che riesca semplicemente a fare il solletico ai ricchi: viene il sospetto che tutte le misure siano state studiate proprio per non disturbare più di tanto il manovratore, cioé la nostra avida classe dirigente.
Un esempio? La tassa sulle attività finanziarie.
E' stata congegnata dai tecnici ministeriali come un'imposta di bollo con aliquota pari all'1 per mille nel 2012 e all'1,5 per mille nel 2013. Ma attenzione: nel 2012, oltre al limite minimo di 34,2 euro, è previsto un tetto massimo di 1.200 euro.
Traduzione: se, da morto di fame, hai titoli per 1'000 euro paghi di bollo il 3,42%; ma se hai in banca 10 milioni ne paghi solo 1'200 euro, cioè lo 0,01%. Alla faccia dell'equità.
E del conflitto d'interessi: raccontano le cronache che il superministro Corrado Passera possiede, titolo più titolo meno, solo in stock options per essere stato amministratore delegato di Intesa San Paolo, 7 milioni di azioni; al prezzo di ieri, antivigilia di Natale, fanno  la bella cifra di 9.170.000 euro.
E di bollo paga solo il massimo stabilito: i famosi 1'200 euro ovvero lo 0,013% del gruzzolo accumulato. Decisamente conveniente: un risparmio di circa 8'000 euro!
Quanto all'asta sulle frequenze televisive, tutti hanno potuto vedere con quanto imbarazzo e quale circospezione ha promesso di intervenire, incalzato da Fabio Fazio domenica scorsa nella puntata di Che tempo che fa.

E sull'impegno assunto che dopo la fase 1, questa del rigore, si passerà alla fase 2 della crescita, si tratta della classica leggenda metropolitana, di cui è lastricata la storia d'Italia, almeno  da vent'anni a questa parte.
Anche perché una manovra che sia severa e oculatamente iniqua, come quella varata da Mario Monti, non solo è moralmente e politicamente inaccettabile ma, a dispetto della nutrita pattuglia dei benpensanti che ne colgono le magnifiche sorti e progressive, economicamente insostenibile in quanto gravemente recessiva.
Non è un caso che l'Istat, dopo aver esitato a lungo, abbia comunicato che il terzo trimestre del 2011 si è chiuso con un Pil a -0,2%: ovvero, grazie alle due-tre manovrine di Tremonti, già dall'estate scorsa siamo entrati in recessione.
Immaginate adesso come si possa chiudere il 2011, dopo che il collegio dei docenti ha deliberato di accanirsi sul fu ceto medio.
Ecco perché il famigerato spread non scende: se all'insediamento di Monti stava a 518 punti, ieri a manovra approvata, è rimasto a lungo a quota 515 per poi ritracciare comunque sopra i 500.
Ma non ci avevano detto che andando in pensione a 70 anni e con quattro centesimi di vitalizio, o non andandoci per niente immolati sul posto di lavoro, lo spread sarebbe velocemente sceso e gli Italiani (non la Casta!) avrebbero vissuto finalmente felici e contenti?
Panzane o meglio la solita bugia pietosa per far inghiottire la pillola amara a milioni di Italiani.
Che poi questa non sia una medicina ma si riveli un veleno letale e rischi addirittura di far stramazzare il nostro paese è un dettaglio che i media si guardano bene dal far trapelare.
Stamattina Massimo Giannini parla di circolo vizioso tra il debito pubblico che non si scalfisce e un Pil che tracolla; purtroppo tutto ciò era ampiamente prevedibile, non bisognava essere un pozzo di scienza per pronosticarlo da mesi.
Così fa bene Scalfari, freschissimo di figuraccia con le sue fasulle previsioni da 'tecnico', a tentare di farcele dimenticare girando per un po' alla larga dall'attualità economico finanziaria per interrogarsi, molto più innocuamente e soavemente, sul senso della vita con il cardinale Martini.
Fa male, invece, il suo vicedirettore Massimo Giannini  quando attribuisce la disfatta di Monti alle incertezze di Eurolandia (ripetendo il leitmotiv di Berlusconi di tutta l'estate) ma soprattutto al quadro politico instabile e alla fragilità di un governo sostenuto, come dice lui, da "azionisti riluttanti".
Si tratta di un grossolano abbaglio.
Mai nella storia repubblicana un governo ha potuto contare su numeri in Parlamento così larghi, nonostante diffusi mal di pancia.
Il fatto è che, grazie ad un Pd del tutto irrilevante, le misure adottate da Monti sono le stesse che avrebbe adottato Berlusconi se fosse restato in sella: antipopolari e recessive.
Perciò i mercati non si fidano: come scommettere su un Paese, acquistandogli i titoli del debito pubblico, quando il suo Pil è in caduta libera proprio grazie al governo Monti?
Se Bersani nel frattempo non si fosse ritagliato il ruolo di comparsa, restando assente dal dibattito politico e intervenendo a giochi fatti, sospinto sulla scena solo dai mugugni del partito persino su una questione cruciale come  l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, probabilmente si sarebbe potuto fare una manovra che, a parità di saldi, avrebbe potuto essere non solo equa ma di stimolo per l'economia.
Costringendo finalmente a pagare evasori fiscali e quanti vivono ben al di sopra dei propri meriti.
Pure l'intervento correttivo sulle pensioni d'oro (quelle dai 200'000 euro annui in su)  promesso dal ministro del Welfare Elsa Fornero è stato alla fine ridimensionato: dal 25% di contributo annunciato al 15% deliberato.
Insomma, mentre i problemi finanziari restano intatti e quelli economici, abbandonati a se stessi, si complicano con conseguenze forse irrimediabili, si insiste a parlare di flessibilità del mercato del lavoro.
Un paese allo stremo, senza una politica industriale, con un equilibrio sociale sempre più precario, con servizi pubblici allo sfascio, collegamenti ferroviari che spaccano in due il paese, si permette però il lusso di acquistare dagli USA tra i 15-20 miliardi di cacciabombardieri d'attacco, rifinanziare le missioni militari all'estero, firmare il contratto con la Francia per l'avvio dei lavori per la TAV impegnandosi come prima tranche per 2,7 miliardi.
Roba da matti, come non dice in questo caso l'ineffabile Pierluigi Bersani.
Buon Natale.

lunedì 12 dicembre 2011

Le previsioni 'azzeccatissime' di Eugenio Scalfari: FTSE MIB sotto del 3,60%!

I lettori di Repubblica si saranno sicuramente accorti che il suo fondatore, Eugenio Scalfari, sta attraversando un periodo assai fervido e fecondo, insomma una seconda giovinezza. Dando il meglio di sé proprio in coincidenza con la crisi politica italiana e la tempesta finanziaria che si è abbattuta sul nostro paese.
Oltre ad analizzare dal suo consueto osservatorio domenicale la crisi politica italiana dispensando consigli e ammonimenti a coloro che ne sono e ne restano i protagonisti, ha iniziato a tessere le lodi del governo Monti prima ancora che il professore lasciasse la sua scrivania all'università Bocconi.
Come i lettori di questo blog sanno,  già il 10 novembre la corazzata mediatica del gruppo De Benedetti aveva preso il largo invocando il suo incarico per intercessione del presidente Napolitano e sparando ad alzo zero contro chiunque, fosse pure Antonio Di Pietro, avesse voluto eccepire alcunché.
Il 27 novembre Scalfari scendeva direttamente in campo non mandandole a dire a quanti a sinistra (ma anche sul fronte opposto) restavano perplessi sull'opportunità politica di un governo tecnico senza un passaggio elettorale che ne ratificasse l'imprevisto insediamento: "Questo è lo schema del governo istituzionale e costituzionale. Chi non capisce che esso non confisca affatto la democrazia e non umilia affatto il Parlamento, al quale anzi affida piena centralità svincolandolo anche dalla sudditanza ai voleri del "premier" (com'è accaduto nell'appena trascorso decennio berlusconiano) e potenziando il suo diritto-dovere di controllare il governo e la pubblica amministrazione; chi non capisce queste lapalissiane verità è in palese malafede oppure mi permetto di dire che è un perfetto imbecille."
Parole talmente sopra le righe da costringere tre giorni fa persino il curatore della sua opera omnia in Mondadori, che sta lavorando alla stesura di un Meridiano a lui dedicato, Angelo Cannatà, a prenderne le distanze indirizzandogli una lettera aperta su Il Fatto Quotidiano: "Non va bene. L’intellettuale che ho apprezzato leggendo [...] non può aver pensato davvero che quanti usano una chiave ermeneutica diversa dalla sua, siano “perfetti imbecilli”.
Parole gettate al vento, perché non solo Scalfari non si è rimangiato la voce dal sen fuggita ma, nell'editoriale di ieri il cui titolo eloquentemente recita I due Mario l'Europa l'hanno salvata, ha cantato il Magnificat per il tandem Draghi-Monti, pronosticando già per la giornata di oggi un andamento dei mercati euforico, ergendosi addirittura a termometro degli stessi.
Infatti scrive che dopo la riunione della BCE del 7 dicembre e il successivo Consiglio dei capi di governo UE, "il mio ottimismo si è rafforzato. Lo dichiaro qui perché, oltre ad essere un giornalista, sono anche un risparmiatore, un consumatore, un elettore, sicché il mutamento delle mie aspettative potrebbe anche rappresentare un "test" di analoghi mutamenti sociali. Del resto i mercati di venerdì l'hanno già resi visibili ed è probabile che i mercati di domani emettano un giudizio ancora più esplicito per quanto riguarda lo "spread", l'andamento delle Borse e il rendimento dei debiti sovrani." 
Detto fatto! Oggi, a mezz'ora dalla chiusura, l'indice FTSE della Borsa di Milano accusa un calo del 3,39% in un contesto europeo tutto  negativo con le borse di Francoforte, Londra e Parigi che registrano pesanti ribassi, inferiori sia pur di poco a quelli di Piazza Affari; e il famigerato spread Btp-bund tornato pericolosamente sopra i 450 punti.
Eh Scalfari, come la mettiamo adesso con questo inaspettato "umore nerissimo dei mercati"? E con i media che hanno giudicato nel complesso deludente la Tregiorni europea tra Francoforte e Bruxelles?
Possibile che siano tutti imbecilli, persino i tanto osannati mercati?

Ma in fondo non ci voleva tanto a capire che il vertice europeo si era concluso, se non con un nulla di fatto, ben al di sotto delle aspettative. A parte il 'piccolo' particolare dell'Inghilterra che ha fatto le valigie da Eurolandia, peraltro rispettando i pronostici dei bookmakers, resta il fatto che la sovranità fiscale dell'Europa è di là da venire (se ne riparlerà di nuovo più concretamente nel marzo prossimo) e il tutto resta aggrappato ad un comunicato finale dei capi di governo quantomai fumoso e zeppo di bizantinismi.
Nel frattempo la tempesta finanziaria è lungi dall'essersi placata.
Si sta, come d'autunno, sugli alberi, le foglie.
L'Europa targata Merkel, con la fissazione dei conti in ordine, si avvia a condannare i propri membri ad una severa recessione, avendo in scarso peso l'indiscutibile verità che il risanamento finanziario è impossibile senza crescita economica; anzi ne rappresenta la principale controindicazione.
Eppure la Grande Depressione degli anni Trenta avrebbe dovuto insegnare qualcosa! Ma nella plumbea atmosfera dei vertici europei a guida tedesca la grande lezione di John Maynard Keynes è stata immolata sull'altare del più bieco monetarismo.
Così mentre a Francoforte Mario Draghi ha il suo bel da fare per indurre a più miti consigli i membri del direttorio della BCE; Mario Monti, per legittimarsi agli occhi dei tedeschi, impone agli Italiani una pesante stangata fatta tutta di misure antipopolari, dal fortissimo impatto recessivo.
Per giunta di scarsissimo livello intellettuale.
Proprio non ci voleva un professore della Bocconi per aumentare il prezzo dei carburanti, l'Iva, raddoppiare l'Ici, deindicizzare le pensioni, allungare bruscamente l'età  pensionabile, tagliare i trattamenti pensionistici. 
E al tempo stesso assegnare gratis le frequenze TV liberate dal digitale terrestre cancellando i sicuri lauti proventi di un'asta pubblica, rinunciare a priori ai proventi di un'imposta patrimoniale, riscudare i capitali all'estero con un ridicolo 1,5%, rinviare alle calende greche i tagli ai costi della politica.
Lo stesso Scalfari, pur avendo sponsorizzato il governo Monti ben prima della prima ora, è costretto ad ammettere che "dopo il bollino del rigore che ha recuperato la nostra credibilità nelle sedi internazionali" sul fronte dello stimolo della domanda "Monti  ci ha lasciato a bocca asciutta". Che è un po' come mettere le mani avanti di fronte al crescente e diffuso malcontento sociale.
Ma come abbiamo potuto osservare con le previsioni fasulle di Scalfari, i cosiddetti 'tecnici' sono capaci di dire e di fare tutto e l'esatto contrario, perché le questioni prima di essere tecniche e economiche sono profondamente politiche.
Ecco perché restiamo contrari al finto governo tecnico che fa rientrare dalla finestra quello che la politica ha, solo apparentemente, messo fuori dalla porta.
          

sabato 6 marzo 2010

Fuori dalla Costituzione del 1948

Che stessimo vacillando follemente sull’orlo del baratro lo sapevamo da tempo. Che, di fronte alla straordinaria pericolosità della sfida berlusconiana, non potessimo contare sugli uomini giusti, dentro le istituzioni ma anche nei partiti di opposizione, pure con questo, negli anni, avevamo dovuto fare i conti.
Ma che al Quirinale fosse capitata la persona sbagliata al momento sbagliato, non tutti purtroppo, ancor oggi, in pieno day after, mostrano di accorgersi.
A cominciare dal Partito democratico e dal giornale che, ormai da tempo ne ha sposato, di più, ne ha formulato, la linea politica: la Repubblica.
Che in questi anni, sotto gli auspici del suo fondatore, ha condotto la più inutile e sterile battaglia politica contro Silvio Berlusconi, esempio lampante di come sia sempre sbagliato ingaggiare un confronto di natura squisitamente politica su un piano puramente soggettivo, privo di mordente ideologico ma basato esclusivamente su rilievi personali.
E’ così potuto succedere che, dalle sue colonne, è stato aspramente criticato l’uomo politico Berlusconi (vi ricordate l’inutile tormentone estivo delle dieci insulse domande scabrose del caso Noemi?) ma si è lasciato campo libero, rendendolo indenne da qualsiasi seria critica e riflessione, al berlusconismo, il letale virus pandemico della società italiana, in grado di farla collassare in pochi anni con la farneticante e violenta politica del fare che ha fatto strame della legalità, cioè delle regole e dei principi di uno stato democratico.
Con un pericoloso corollario: si è esaltata la figura del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, soltanto perché di area Pd, quale custode illuminato della sovranità costituzionale, nonostante i gravissimi errori che ne hanno funestato sistematicamente il mandato, a cominciare dalla promulgazione fatta, nel luglio 2008, a tempo di record del lodo Alfano, primo solenne attentato alla nostra Carta.
Errore a suo tempo denunciato clamorosamente, prima ancora che fosse compiuto, da decine di insigni costituzionalisti e, poi, sancito inoppugnabilmente dalla bocciatura della Corte Costituzionale nell’ottobre scorso, nonostante le continue intimidazioni a cui venne sottoposta in quei giorni.
Già ce l’immaginiamo l’editoriale di Eugenio Scalfari di domani, il quale sicuramente si esibirà in una serie di arzigogoli verbali pur di negare l’ennesimo svarione del Presidente della Repubblica per aver controfirmato un decreto interpretativo della legge elettorale ad uso e consumo del partito del premier, mentre la questione della riammissione della sua lista alle prossime Regionali resta ancora sub judice.
Atto che ci pone evidentemente fuori dal solco democratico: si cambiano le regole del gioco mentre la partita elettorale è già in corso e la squadra del premier si è già fatta un clamoroso autogol.
Pare già di leggere come la penna più tronfia di Piazza Indipendenza difenderà domani Napolitano:
"Ringraziare dobbiamo il rigore morale e l’austera fermezza del Capo dello Stato che, solitario al tavolo di lavoro, si attardava fino a notte inoltrata, dopo una giornata di impietosa resistenza alle cupe mire del Cavaliere, per arginare la sua debordante furia demolitrice e, con abile e superbo piglio, pari solo alla sua forza d’animo ed al suo amore sconfinato verso la nostra carta fondamentale, sola stella polare del suo firmamento, poneva fine alle inusitate onde telluriche che attentavano all’integrità dell’edificio costituzionale, apponendo tosto la firma in calce al decreto invocato dalla canaglia, così evitando l’abisso e risparmiandoci più dolorose e perigliose giornate…".
Fatto sta che, ampollosità e bizantinismi a parte e vuote dissertazioni che volentieri lasciamo ai soloni ed ai politologi à la page, nella giornata di venerdì 5 marzo 2010, siamo usciti dall’alveo della democrazia costituzionale, per addentraci nelle spesse, imperscrutabili nebbie di un ignoto far west.

martedì 19 gennaio 2010

Anche il Colle interviene alle celebrazioni craxiane

Che pure il presidente della Repubblica si sia unito allo scandaloso coro di voci che tentano di riabilitare Bettino Craxi facendolo passare per padre della patria, martire della giustizia italiana, costretto all’esilio da magistrati spietati, è davvero troppo.
Perché stiamo parlando di un condannato in forma definitiva per reati sicuramente infamanti per chiunque, a maggior ragione per chi ha rivestito la carica di Presidente del Consiglio per quasi quattro anni.
Pertanto il discorso che Giorgio Napolitano fa nella lettera inviata alla vedova del leader socialista, suona stonato e appare oggettivamente quanto mai inopportuno e, quel che è peggio, ambiguo.

Ma non si è sempre detto che il Presidente della Repubblica deve avere un ruolo super partes e che deve rappresentare l’intera comunità nazionale?
In che modo Giorgio Napolitano rappresenta tutti gli Italiani se scende in campo su un tema tanto controverso con un intervento politicamente deprecabile, cogliendo simbolicamente proprio la ricorrenza del decennale craxiano, per esternare valutazioni di cui, se è libero interprete come privato cittadino, dovrebbe marcare la distanza come inquilino del Quirinale?
Che parli in questa occasione come Presidente della Repubblica tende addirittura a sottolinearlo, qualora non ce ne fossimo accorti:

"Per la funzione che esercito al vertice dello Stato, mi pongo, cara Signora, dal solo punto di vista dell'interesse delle istituzioni repubblicane, che suggerisce di cogliere anche l'occasione di una ricorrenza carica - oltre che di dolorose memorie personali - di diversi e controversi significati storici, per favorire una più serena e condivisa considerazione del difficile cammino della democrazia italiana nel primo cinquantennio repubblicano.E' stato parte di quel cammino l'esplodere della crisi del sistema dei partiti che aveva retto fino ai primi anni '90 lo svolgimento della dialettica politica e di governo nel quadro della Costituzione. E ne è stato parte il susseguirsi, in un drammatico biennio, di indagini giudiziarie e di processi, che condussero, tra l'altro, all'incriminazione e ad una duplice condanna definitiva in sede penale dell'on. Bettino Craxi, già Presidente del Consiglio dal 1983 al 1987. Fino all'epilogo, il cui ricordo è ancora motivo di turbamento, della malattia e della morte in solitudine, lontano dall'Italia, dell'ex Presidente del Consiglio, dopo che egli decise di lasciare il paese mentre erano ancora in pieno svolgimento i procedimenti giudiziari nei suoi confronti."

E gli Italiani che sono stati taglieggiati dalla politica di Craxi e degli altri protagonisti di Tangentopoli e che si ritrovano ancor oggi un debito pubblico enorme, a cagione del quale sono ormai vent’anni (dalla famosa finanziaria dei 100.000 miliardi di Amato del 1992), che tirano la cinghia aspettando un’alba che non arriva mai, chi li rappresenta? Non certo Giorgio Napolitano.

Pessimo anche il richiamo che egli fa all’inchiesta condotta dal pool di Milano, facendo passare Bettino Craxi come il capro espiatorio di una macchina giudiziaria accecata che avrebbe persino violato il principio del diritto ad un processo equo e che si sarebbe accanita con lui con "una durezza senza eguali".

“Ma era ormai in pieno sviluppo la vasta indagine già da mesi avviata dalla Procura di Milano e da altre. E dall'insieme dei partiti e dei loro leader non era venuto tempestivamente un comune pieno riconoscimento delle storture da correggere, nè una conseguente svolta rinnovatrice sul piano delle norme, delle regole e del costume. In quel vuoto politico trovò, sempre di più, spazio, sostegno mediatico e consenso l'azione giudiziaria, con un conseguente brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia. L'on. Craxi, dimessosi da segretario del PSI, fu investito da molteplici contestazioni di reato. Senza mettere in questione l'esito dei procedimenti che lo riguardarono, è un fatto che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza eguali sulla sua persona. Nè si può peraltro dimenticare che la Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo - nell'esaminare il ricorso contro una delle sentenze definitive di condanna dell'on. Craxi - ritenne, con decisione del 2002, che, pur nel rispetto delle norme italiane allora vigenti, fosse stato violato il "diritto ad un processo equo" per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea."

L’agiografo Eugenio Scalfari che non manca un’occasione per santificare il presidente Napolitano anche in questo ennesimo brutto incidente di percorso, cerca con un suo tronfio arzigogolo verbale di giustificare questa lettera imprudente, tutta improntata a descrivere gli aspetti positivi del leader socialista e che quasi ignora le malefatte di Tangentopoli, richiamando la "pietas".
Non si rende conto che in tal modo, parlando di un atto assunto dal Capo dello Stato, rasenta addirittura il ridicolo.
"La lettera è ampia e si può dividere in due parti: la prima si occupa della politica di Craxi nei tre anni di presidenza del Consiglio; la seconda, assai più sommaria, della fase che è stata battezzata "Tangentopoli". La diversa attenzione dedicata ai due argomenti è pienamente comprensibile: si voleva in questa lettera commemorare e privilegiare gli aspetti positivi e soltanto sfiorarne quelli negativi che però non potevano esser taciuti. Anche questo criterio adottato dal nostro Presidente è pienamente accettabile; fa parte di una "pietas" che non è soltanto una privata virtù ma un elemento costitutivo d'una democrazia dove convivono valutazioni diverse e talvolta non condivise né condivisibili, sulle quali la "pietas" soffonde una virtuosa tolleranza."
Queste ultime pompose parole di Scalfari riescono al massimo a suscitare ilarità e ci fanno capire a che punto di degrado morale è giunta la nostra classe dirigente.
Nessuna meraviglia per gli ex lettori di Repubblica se il suo fondatore, dopo aver cercato di arrampicarsi sugli specchi sostenendo che la pietas pubblica non è l’oblio, così concluda l’arringa a difesa dell’inquilino del Colle:
"Detto questo, si proceda pure alla toponomastica nei Comuni che nella loro libera capacità di decidere vogliano intestare a Craxi piazze e giardini."
Stiamo parlando di un pregiudicato latitante, un satrapo della politica che, tanto per dirne una, spendeva appena 100 milioni al mese per finanziare l’emittente televisiva della sua amica a cui faceva fra l’altro mille altri regali importanti.
Quanto al presidente Napolitano, dopo le mille deludenti sortite, attendiamo serenamente la scadenza del suo mandato.

lunedì 21 settembre 2009

Una domanda alla Casta: ancora quanti morti per l'Afghanistan?

Si fa sempre più fatica a parlare di politica.
Perché quello che ci propinano da settimane i media, è tutt’altro.
E' un teatrino da basso impero dove il concetto stesso di democrazia viene stravolto sotto una cappa di segreti inconfessabili, avvertimenti, ricatti incrociati, e tutto imputridisce.
All’indomani del vertice con l’esterrefatto premier spagnolo Zapatero e di quell’incredibile conferenza stampa conclusiva, si è detto che Silvio Berlusconi appare più debole anche sulla scena internazionale proprio perché ricattabile.
Ma si tende a sottovalutare quale formidabile potere di ricatto lui stesso possieda e che lo rende di fatto inamovibile, anche qualora la Corte Costituzionale dovesse bocciare il lodo Alfano.
La nomina di Vittorio Feltri alla direzione del giornale di famiglia, Il Giornale, nel luglio scorso ha segnato per il Cavaliere l’inizio della campagna di autunno, con i risultati che tutti possono vedere: dopo il fango gettato addosso a Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, giornale della Conferenza episcopale, è stata la volta di Gianfranco Fini, destinatario di un chiaro avvertimento rivoltogli direttamente dalla prima firma del quotidiano a cui l’ex leader di AN non ha potuto che reagire con la querela.
Ma se il Pdl brucia, il Pd agonizza.
La campagna congressuale volge alla stretta finale con la già scontata affermazione di Pierluigi Bersani, candidato di Massimo D’Alema.
Dario Franceschini, segretario uscente, non ha i numeri per mettere in discussione questo risultato, con buona pace dell’ipersconfitto Walter Veltroni. E Ignazio Marino, l’unico dei tre che vanta una vera piattaforma politica, è troppo in ritardo per poter impensierire i duellanti.
La cosa paradossale è, comunque, che la lotta tra i due vada avanti senza nessuna reale divergenza politica: non li contrappongono differenze di programma; il loro antagonismo è alimentato solo dall’appartenenza a cordate diverse.
Ci si prepara dunque a celebrare un congresso senza affrontare nessuno dei nodi politici che hanno provocato il declino elettorale in questi anni dei Ds prima e del Pd poi.
Abbandonata in partenza l’ipotesi di proporre un modello di sviluppo per la società italiana alternativo a quello del centrodestra, ci si scontra solo su uomini e organigrammi.
Uno scempio del genere non era mai accaduto a sinistra: è il segno più evidente che tra il Partito democratico e il partito-azienda del Cavaliere, anche in questo caso, ci sono affinità sorprendenti.
Purtroppo, la vita istituzionale del nostro paese ormai va avanti non per la spinta delle grandi tradizioni culturali e politiche sorte con la Resistenza ma sulla base di un gioco al massacro costruito su personalismi e torbide trame.
Il comune cittadino viene abbandonato a se stesso, stritolato nelle sue aspettative e nei suoi problemi quotidiani da una lotta di potere che di democratico mantiene solo le forme.

Che una democrazia sospesa come la nostra possa poi essere di modello per altri paesi è una pietosa bugia.
Dispiace molto che altri sei soldati italiani abbiano dovuto sacrificare la propria vita soltanto per consentire all’Italia di accomodarsi su uno strapuntino al tavolo dei Grandi.
Alle loro famiglie va tutto il nostro cordoglio e la solidarietà.
E’ giunto, però, il momento che la Casta, al gran completo, si assuma tutta la responsabilità della spedizione militare in Afghanistan e, quindi, delle conseguenze nefaste di quella decisione.

Il partito di Repubblica, quello che detta di giorno in giorno la linea politica del Pd, si schiera apertamente per il proseguimento militare della missione italiana; il suo ideologo, Eugenio Scalfari, nel suo ultimo editoriale, la giustifica con una serie di argomentazioni che definire bislacche è eufemistico. Ripetute, però, ossessivamente dai media grazie al sostegno politico che ne danno all'unisono centrodestra e centrosinistra, appaiono ad un’opinione pubblica rassegnata come inscalfibili certezze.
Ne passiamo in rassegna qualcuna.
Per Scalfari discutere se quella afgana sia per l’Italia ancora una missione di pace o di guerra è solo un "rebus lessicale" (sic!), perché "le truppe Usa e Nato hanno lo stesso compito di combattere i terroristi e aiutare i civili a rientrare nella normalità della vita quotidiana. Una duplice missione di guerra e di pace. Che cosa c’è da chiarire?".
C’è solo da chiarire che quando le truppe Usa e quelle Nato agiscono sullo stesso terreno, non è facile distinguere chi opera in missione di pace e chi fa la guerra guerreggiata.
I bombardamenti dall’alto che colpiscono la popolazione civile sono un intervento di guerra o di pace?
Enduring Freedom degli Usa e Peace Keeping della Nato sono, si o no, due facce della stessa medaglia?
Già basterebbe questo a demolire l’utilità di un intervento che, nella confusione di sigle tra Nato e Usa, ci mette contro proprio la popolazione civile, che in linea di principio dovremmo soccorrere: una missione di pace che si appoggia sulle truppe Usa diventa giocoforza una missione di guerra.
Ma per la nostra Costituzione, questo non è possibile: o la costituzione materiale di Scalfari è un’altra?

Seconda leggenda metropolitana: discutere del ritiro delle truppe espone i nostri soldati ad un rischio maggiore perché i terroristi concentrerebbero gli attacchi su di loro.
Forse che i nostri 21 ragazzi caduti negli ultimi 5 anni su quelle montagne sono stati protetti dal fatto che l’Italia sarebbe rimasta a tempo indeterminato in quell’inferno?
Ci ammaestra poi Scalfari: "Il ritiro d’una forza militare da un teatro di operazioni non si annuncia mai; se si deve fare si fa e lo si dice dopo che il ritiro è avvenuto".
A parte il fatto che ciò non è vero (basti pensare il ritiro preannunciato da mesi dal presidente Barack Obama dei marines dall’Iraq), non bisognerebbe discuterne in qualche forma e sede ufficiale (non alla buvette di Montecitorio!)?
Ma Scalfari si avventura sconsideratamente in un terreno minato quando accosta la strage di Kabul con l’attentato di Via Rasella del 1944 ed il successivo eccidio delle Fosse Ardeatine.
E’ chiaro che non deve essersi reso conto che per difendere i bombardamenti Usa "mirati a colpire covi di terroristi" ma che causano molte vittime nella popolazione civile, negando che siano una forma di rappresaglia come lo fu, orrenda, quella nazifascista, egli avvicina incautamente i talebani ai nostri partigiani.
Se il decano dei nostri giornalisti prende un simile abbaglio, assiso comodamente alla scrivania del suo studio, è comprensibile che la martoriata popolazione civile afgana, sotto i martellanti bombardamenti Usa e Nato e le continue incursioni dei Talebani, possa essere un po' più confusa e vedere negli occupanti occidentali i principali nemici da cui difendersi.
E così i nostri ragazzi si ritrovano ad essere vittime inconsapevoli di un gioco pericolosissimo e molto più grande di loro.
Sarebbe il caso di andar via al più presto da quell’inferno difendendo, nei fatti e non con ipocrita retorica, i nostri militari e le loro famiglie.
A meno che non si convenga con Benito Mussolini quando, entrando in guerra nel giugno del 1940 a fianco di Hitler, dichiarò: "Mi servono alcune migliaia di morti per sedermi con pari dignità al tavolo della pace".

lunedì 13 luglio 2009

La mossa di Grillo manda in tilt la nomenklatura democratica

Fine settimana interessante quello appena concluso per la politica di casa nostra.
Dopo la chiusura del G8 a L’Aquila, aspettavamo impazienti il commento di Eugenio Scalfari a conclusione di una settimana in cui i media hanno fatto a gara a vendere la falsa impressione che quello di Berlusconi è stato un inatteso successo personale.
La famosa tregua invocata dal presidente Napolitano per il G8 è stata non soltanto rispettata fino in fondo ma ha dato il via ad una vera e propria pubblicistica agiografica nei confronti di Silvio Berlusconi che ne esce fuori politicamente rinforzato.
Nessuno si è spinto a parlare di successo politico del G8, dati i risultati assai deludenti, ma ciò non è certo stata colpa del governo italiano.
Anche se non si può neppure dire che l’esito del summit sia stato migliore delle aspettative per merito del Cavaliere; per vari opinionisti, il suo successo riguarderebbe l’aspetto organizzativo dell’evento.
Su questa scia, Eugenio Scalfari ha preparato una sviolinata a Berlusconi a dir poco imbarazzante nel suo editoriale di ieri, intitolato non a caso "Il meritato successo di un abile anfitrione":
"Berlusconi ha avuto successo, ha ricevuto complimenti da tutti, ha evitato con abilità i guai che incombevano sul suo capo e di questo gli va dato atto. Per che cosa è stato complimentato? Per il suo ruolo, magistralmente ricoperto, di padrone di casa. Se lo è meritato. E’ un compito che sa gestire molto bene come dimostrò nell’analogo meeting di Pratica di Mare: alloggiamento perfetto, cibo eccellente, sicurezza garantita, intrattenimento rilassante".
Forse Scalfari si dimentica che i complimenti al padrone di casa da parte degli ospiti sono di prassi e quanto al presunto successo organizzativo, magari sottovaluta la possibilità che un paese moderno come l’Italia possieda uomini e know how necessari per organizzare decentemente una riunione internazionale, sia pure al massimo livello.
Per bocciare Berlusconi, il padre di Repubblica forse si aspettava che il presidente Obama fosse rimasto senza alloggio o che il pesce, alla tavola dei Grandi, non fosse fresco… Ridicolo!
Da un giornalista di lungo corso come lui, pronto a rinfacciare ossessivamente, per settimane, al Cavaliere le bugie pietose del caso Noemi, ci si aspetterebbe maggiore acutezza: non un improvvisato e maleodorante mix di provincialismo e dabbenaggine piccolo borghese.

L’altra grande novità del momento è la discesa in campo di Beppe Grillo per le primarie del PD: vero coup de théâtre, ha sorpreso tutti persino gran parte dei suoi sostenitori.
Noi di Pausilypon non vogliamo giudicare a priori questa scelta che sparigliando i vecchi giochi politici ha sicuramente il pregio di creare qualche grattacapo ai farisei.
Sta di fatto che doversela vedere con gente come Fassino, Veltroni, D’Alema, Bersani è da stomaci forti; ma sappiamo che Beppe Grillo ama le sfide difficili.
Per capire quanto la nomenklatura non sia disposta ad arretrare neppure di un millimetro dalla lucrosa rendita di posizione in cui vive da anni, in assoluta inerzia, e di quanto poco sia interessata ad un reale dibattito democratico all’interno del PD, può bastare la prima nervosa reazione dei vertici all’annuncio di Beppe Grillo.
Citiamo per tutti l’intervento, tra lo stralunato e l’arrogante, del povero Piero Fassino:
"Penso che quella di Grillo sia una boutade, la interpreto come una delle tante provocazioni a cui ci ha abituato un uomo di spettacolo" e ancora: "Un partito non è un taxi sul quale si sale e si scende, è una cosa seria. Il partito con un congresso deve prendere scelte impegnative. Le cose devono essere chiare, ci si iscrive a un partito e ci si candida a guidarlo quando se ne condividono gli obiettivi. Grillo invece ha manifestato ostilità nei confronti del Pd e dei suoi dirigenti. Nessuno è preoccupato della candidatura di Grillo. Ma ci sono delle regole, c'è una fase congressuale alla quale partecipano gli iscritti, poi la seconda fase prevede le primarie".
Se un dirigente del partito democratico parla come l’Azzeccagarbugli di manzoniana memoria tradendo la grave preoccupazione per una candidatura che, in un partito battezzato democratico, dovrebbe essere un atto dovuto vista l’importanza assunta nella società civile dai grillini e per la certezza di arricchire il dibattito congressuale con idee nuove e autenticamente popolari, vuol dire proprio che siamo arrivati al punto di dover scacciare i mercanti dal tempio.
E’ chiaro che persone che vivono nei privilegi, con appannaggi mensili di decine di migliaia di euro passando il tempo tra dichiarazioni ai giornali, occasioni mondane, votazioni in parlamento su indicazione dei capigruppo, talk show vari, oppure scrivendo libri o articoli di dubbio valore per scaricare sugli altri la propria invincibile noia, con il plusvalore di non dovere rendere conto a nessuno del proprio operato, men che meno al proprio elettorato (che li ha dovuti eleggere per forza, stante la legge elettorale porcata), il fenomeno Beppe Grillo è come fumo negli occhi.
In questo senso, pur restando perplessi per una scelta che non ci convince fino in fondo, speriamo che il suo sacrificio politico possa almeno servire a mandare a casa una classe dirigente che non ha più nulla da proporre alla propria base, se non reiterare la propria sfrenata ambizione.
Ma già come provocazione, a giudicare dalle prime reazioni dentro il PD, la mossa di Grillo ha colpito nel segno, mostrando a tutti, il volto arcigno della nomenklatura.

domenica 14 giugno 2009

Anche Scalfari perde la pazienza: Veltroni e D'Alema, go home!

In queste ultime ore, a dati elettorali ormai archiviati, tutti i commentatori si sono affrettati a scrivere il proprio pezzo, dimostrando una convergenza di opinioni persino sorprendente.
Il verdetto è stato unanime: gli elettori hanno bocciato entrambi i due colossi, Pdl e Pd.
Un’emorragia di voti che, in termini assoluti (le percentuali spesso travisano la realtà), raggiunge quasi i 3 milioni di consensi in meno per il Pdl e i 4 milioni addirittura per il Pd: una Waterloo.
A sinistra saremmo tentati di chiamarla Walterloo, data la pesante ipoteca dell’ex segretario Walter Veltroni sul risultato del Partito democratico, malgrado l’abilità con cui l’attuale leader Dario Franceschini si è mosso in questa campagna elettorale.
Il commento che più colpisce è quello domenicale di Eugenio Scalfari che oggi fa un’analisi impietosa dell’esito elettorale per il Partito democratico, di cui sembra rimasto l’unico vero ideologo, essendo tutti i suoi dirigenti affaccendati in liti da cortile.
Ma questa volta, abbandonati i toni conciliativi, spara a zero contro i maggiorenti del partito; ne citiamo il passo più significativo:
"Se l'opposizione non fosse così fortemente debilitata avremmo almeno un aggancio robusto per riportare ordine e chiarezza. Purtroppo anch'essa ha perso credibilità anche se la campagna elettorale condotta dal segretario Franceschini è riuscita almeno a contenere le perdite salvando il salvabile. Sono molti ora a chiedere in che modo si possa e si debba costruire un partito che ancora non c'è, che è ancora un'ipotesi di lavoro e fatica a decollare per debolezza dei motori e insufficiente portanza.
Ci sono almeno tre esigenze generalmente avvertite: la prima è quella di radicare il partito nel territorio, la seconda è di selezionare una classe dirigente nuova, la terza riguarda la vecchia nomenclatura composta da quelli che guidarono i vari spezzoni confluiti nel Pd. I membri di quella nomenclatura non sono affatto da ostracizzare; rappresentano tuttora un deposito di esperienze, memorie, valori. Ma dovrebbero riporre ambizioni e pretese rassegnandosi ad un ruolo che resta peraltro di notevole importanza: ruolo di padri e di zii, ruolo di saggezza e incoraggiamento, non di comando e di intervento.
Quando Veltroni si dimise, con lui fece un passo indietro l'intero vecchio gruppo dirigente e questo fu l'aspetto positivo di quella drammatica ma ormai necessaria decisione. Sembra tuttavia che ora quel collettivo passo indietro sia rimesso in discussione e si riaccendano tra gli zii sentimenti di rivalsa e nuovi fuochi di battaglia."
E conclude:
"Controvoglia non so, ma certo il tornare a gara di tutta la vecchia nomenclatura sbarra la strada al necessario rinnovamento e riaccende eterne dispute che un corpo sano e robusto potrebbe sopportare ma un corpo debilitato non tollera rischiando la sua stessa sopravvivenza."
Finalmente anche il fondatore di Repubblica lancia strali contro quella che da tempo chiamiamo la nomenklatura democratica, rea di farci vivere in questa tristissima condizione.
Quella in cui, per fare solo un esempio di stringente attualità, il Presidente del Consiglio denuncia pubblicamente l’esistenza un piano eversivo contro di lui e minaccia apertamente gli industriali di non fare pubblicità sui media cosiddetti disfattisti.
Tutto ciò mentre è in corso di approvazione in Parlamento il ddl sulle intercettazioni che non solo rende impraticabili le indagini della magistratura su gravissime fattispecie di reato ma che imbavaglia la stampa e, tanto per convincere i più scettici sull’instaurazione di un regime, cerca di normalizzare persino la rete impedendo la libertà di espressione in blog, social network e portali informativi, imponendo una serie di vincoli burocratici e di sanzioni pecuniarie, come se ne possono trovare solo nei sistemi autoritari.
Insomma, dopo aver depenalizzato il falso in bilancio e deresponsabilizzato sul piano penale le Alte cariche, diffamato con il ministro Brunetta i dipendenti pubblici, ridotta alla canna del gas la scuola, si cerca adesso di attaccare frontalmemente giornalisti e magistrati, mentre tutto attorno l’economia agonizza.
Che i vertici del Partito democratico, corresponsabili non fosse altro che per ignavia di questo stato di cose, debbano fare un passo indietro per dare vita, subito dopo la prossima domenica dei ballottaggi, ad un percorso congressuale rapido dove si discuta non più sulle persone ma finalmente di politica, sembra talmente scontato da sembrare una precisazione superflua.
Eppure, dell’auspicato passo indietro della vecchia nomenklatura non si può essere per niente certi: lo conferma Massimo D’Alema che, nella trasmissione In 1/2 ora ospite oggi dell'Annunziata, pur convenendo sulla necessità di andare al congresso quanto prima, si è mostrato piccato dell’invito del fondatore di Repubblica di limitarsi ad un’opera di saggezza e incoraggiamento.
Anzi, pur ribadendo di tirarsi fuori da una lotta al vertice, ha però voluto precisare: "Una candidatura come la mia avrebbe senso in una sorta di emergenza nazionale. Non credo, però, che siamo alla necessità di richiamare la vecchia guardia per salvare il salvabile".
Ottimista sulla situazione italiana o ai blocchi di partenza per aggiudicarsi di nuovo la leadership dei democratici, magari dopo uno scontro al calor bianco proprio con il mai rassegnato Veltroni?
Gli elettori del Pd hanno compreso da tempo che al peggio non c’è mai fine… si rassegni anche Scalfari!

sabato 6 giugno 2009

Le anime belle al voto

Eugenio Scalfari nell’editoriale di oggi su Repubblica, in anticipo sull’abituale appuntamento domenicale data l’apertura dei seggi elettorali già dal pomeriggio, ripercorre per grandi linee quasi un secolo di storia elettorale italiana, e dopo aver teorizzato che "Le persone politicamente mature sanno che in un sistema democratico occorre raccogliere i consensi attorno alla forza politica che rappresenti il meno peggio nel panorama dei partiti in campo", trae questa affrettata conclusione: "La sinistra coltiva il culto della testimonianza, ma quando si trasferisce quel culto nell’azione politica il risultato è appunto la rinuncia ad una sovranità efficace per far posto al narcisismo dell’anima bella, pura e dura."
In parole povere, Scalfari rivolgendosi agli elettori di sinistra fa propria, pur dichiarando di negarla, l’idea del voto utile ultimamente richiamata affannosamente da Dario Franceschini, quest’ultimo preoccupatissimo per i sondaggi attuali che danno il Pd in seria difficoltà.
E’ nient’altro che la riedizione dell’invito a suo tempo espresso da Indro Montanelli di andare a votare turandosi il naso.
Quello che il fondatore di Repubblica non ci spiega, però, è perché gli elettori di sinistra dovrebbero ancora votare per un simbolo senza storia che al massimo rappresenta politici bolliti come D’Alema, Fassino, Rutelli, Veltroni, Bettini, ecc., gente che ci ha portato con la propria mediocrità e tanto opportunismo personale a questo disastro politico. Per giunta, dopo che proprio quel popolo di sinistra in ormai numerose tornate elettorali ha fatto loro recapitare un messaggio inequivocabile: la vostra ambigua politica non ha sbocchi, tornatevene a casa!
Franceschini in questi ultimi tre mesi ha fatto di tutto per farci dimenticare chi siede nel direttivo del suo partito a cui, in mancanza di un mandato congressuale, è tenuto comunque a rispondere.
Ma l’altro ieri, Veltroni ha ricordato a tutti con il suo appello al voto che dentro il Pd la nomenklatura ha ancora i pieni poteri e che l’attuale segretario democratico, pur con le migliori intenzioni, è soltanto una comparsa.
E poi non è stato lo stesso Franceschini a ribadire che il suo mandato terminerà improrogabilmente ad ottobre?
Quindi, c’è poco da stare allegri: l’elettore democratico, se anima bella, pura e dura (e in maggioranza pensiamo che lo sia!) ha diverse possibilità nella cabina elettorale per far cambiare direzione alla politica italiana, tranne quella che Scalfari gli suggerisce.
Noi di Pausilypon riteniamo che insieme all’Italia dei Valori, soltanto se a sinistra del Pd si creerà uno spazio politico nuovo con il contributo di Sinistra e Libertà a Rifondazione Comunista potrà finalmente scattare la sospirata controffensiva alla pericolosa deriva berlusconiana.
Non possiamo immaginare se le due aggregazioni politiche riusciranno a superare la fatidica soglia del 4% prevista per le Europee: è un fatto che se definiranno insieme un’area attorno al 5-6% il test elettorale potrà comunque considerarsi superato.
Mentre decisivo, a livello amministrativo, sarà il peso conquistato dalle liste Cinque Stelle di Beppe Grillo: è da qui che potrebbe scatenarsi un’onda sismica senza precedenti per i futuri assetti della sinistra italiana.
Staremo a vedere. Intanto anime belle, pure e dure, andiamo a votare…

lunedì 25 maggio 2009

Nulla di scandaloso nel "respingimento" di questo Pd

La politica italiana è arrivata ad un livello di degrado intellettuale (quello morale è superato da tempo!), come probabilmente non si era mai verificato nella storia repubblicana.
Non si era mai vista tanta povertà di idee e una così forte omologazione nella proposta politica da parte dei due grandi contenitori politici, PD e PDL, che, riflessi l’uno nell’altro, per attirare le simpatie di coloro che ancora resistono a guardarli, hanno imboccato decisamente la strada del reality show, sicuri di replicarne le fortune.
Repubblica, lancia in resta, si spinge a rinnovare i fasti di Cronaca Vera, con le famose dieci domande al premier su Noemi e famiglia.
Per capire quale sia la potenza di fuoco messa in campo da questa corazzata editoriale, basta rendersi conto che ormai nei media nazionali da quattro giorni a questa parte non si parla di altro ed il centrosinistra si uniforma alla politica scandalistica del gruppo De Benedetti, rilanciando per bocca dei suoi dirigenti, il questionario di D’Avanzo & c.
Tutti gli altri grandi temi, dalla crisi economica sempre più grave alla questione ammortizzatori sociali, dalla giustizia in stato catatonico al nuovo sviluppo economico verde, dai tagli indecenti a scuola e università alla ricostruzione in Abruzzo ancora da progettare, tutto, ma proprio tutto, è sparito sotto i colpi dell’ultima intervista del quotidiano di piazza Indipendenza, udite udite, al personaggio del momento: l’ex ragazzo di Noemi...
Che Repubblica ieri gli abbia dedicato oltre la prima pagina ben due pagine interne con tanto di foto a colori e riproduzione della lettera che la ragazza gli scrisse prima di Natale, ci fa rabbrividire: alla faccia del giornalismo d’inchiesta, siamo caduti nella morbosità stile Cogne!
Certamente, nessuno può accusarci di essere stati mai morbidi con Silvio Berlusconi che, lo ribadiamo, non avrebbe mai dovuto salire a Palazzo Chigi se la nostra fosse stata una vera democrazia; perché le leggi, prima ancora di un’opposizione presentabile, glielo avrebbero dovuto impedire.
Ma questo è il paese in cui l’ex segretario del Partito democratico, Walter Veltroni appena acclamato vincitore delle primarie del 2007, tese la ciambella di salvataggio al Cavaliere, in caduta libera nei sondaggi e nel credito politico, dichiarando di volere concordare le riforme istituzionali proprio con lui, scaricando a stretto giro di stampa Prodi e i partiti della sua maggioranza e portando il Paese, inopinatamente, alle elezioni anticipate dopo appena 1 anno e mezzo di governo!
Questo è il paese in cui è tuttora in corso una durissima lotta di potere all’interno della casta dei politici, ma non in nome di principi costituzionali da salvaguardare o di interessi dei cittadini da difendere; unicamente allo scopo di una più ricca spartizione delle poltrone, un redde rationem tra potentati di varia matrice.
Il povero Dario Franceschini, che in questi mesi ha dimostrato di essere enormemente più abile di Veltroni, è suo malgrado espressione di quel gruppo dirigente che oggi si nasconde alle sue spalle: anzi trama nel dimenticatoio, nella prospettiva di un rilancio in grande stile.
Diverso sarebbe potuto essere il suo destino se sul suo nome si fosse coagulato un nuovo consenso nell’ambito di un congresso vero, che la nomenklatura non ha invece voluto celebrare, negandogli un mandato diverso.
Votare per il Partito democratico alla prossima tornata elettorale è, per l’elettore di centrosinistra, un po’ come gettarsi la zappa sui piedi: sai che soddisfazione a rivedere in primo piano i Fassino, D’Alema, Veltroni, Violante, Finocchiaro, i Bettini, cioè coloro che hanno permesso dopo pochi mesi a Silvio Berlusconi di tornare a Palazzo Chigi con le chiavi del portone!
Coloro che hanno tifato per la doppia scalata Bnl-Antonveneta e hanno favorito l’ostracismo contro Clementina Forleo e, contemporaneamente, contro Luigi de Magistris, titolare dell’inchiesta Why Not, colpevoli solo di aver fatto rispettare la legge.
Per fortuna i successivi pronunciamenti della magistratura ci hanno restituito adesso l’immagine specchiata e fulgida di questi due valorosi magistrati e la vergogna di una classe politica che ha scomodato il Csm pur di bloccarli.
Al procuratore di Salerno Luigi Apicella sono giunti persino a togliergli lo stipendio: un provvedimento del genere non sembra sia stato mai preso, neppure contro magistrati collusi con la mafia!
Eugenio Scalfari, maître à penser del Partito democratico, nel suo ultimo editoriale di ieri si dimentica di tutte queste vicende e, proprio come se non fosse successo niente, si ostina a pensare che il significato delle Europee andrà valutato attraverso la misura del distacco che ci sarà tra Partito democratico e Pdl.
Ci racconta la solita favoletta: elettori delusi del centrosinistra, se non volete rafforzare Silvio Berlusconi, votate Partito democratico!
Purtroppo per lui, è vero esattamente il contrario: è stato proprio il Partito democratico di Veltroni, quello che l’anno scorso perse clamorosamente raggiungendo il 33% dei voti, in questo primo anno di legislatura a lasciare campo libero a Silvio Berlusconi ed al suo enorme conflitto di interessi.
Soltanto indebolendo la stampella del Cavaliere, questo inguardabile Partito democratico, nonostante il recente make-up a cui lo ha sottoposto il bravo Franceschini, si potrà fare piazza pulita di un gruppo di potere che domina il centrosinistra da quasi vent’anni e che ha permesso all’uomo di Arcore di regnare per oltre un decennio e farsi con tutta tranquillità tante leggi ad personam ed, in ultimo, il lodo Alfano, vero buco nero della nostro assetto Costituzionale.
Accusare Di Pietro, delle cui ambiguità ideologiche certo noi non gli facciamo sconto, di spalleggiare il Cavaliere semplicemente perché critica le perplessità, cioè le vischiosità del PD, nell’opporvisi fieramente, è un’autentica castroneria!
Purtroppo Scalfari fa finta di non comprendere che il successo berlusconiano del 2008 è dipeso in misura soverchiante proprio dal fatto che la classe dirigente del Pd, rinnegate le proprie origini e la sua presunta diversità morale, abbia indossato gli stessi abiti dei lacchè di Berlusconi, diventandone troppo spesso una pessima controfigura, cioè mal destra.
Per sentire ancora una volta Piero Fassino ragionare come fanno Maroni e La Russa, beh è decisamente meglio cercarsi i propri rappresentanti altrove: magari nel variopinto arcipelago di sinistra o nelle liste civiche di Beppe Grillo; o proprio nell’Idv di Antonio Di Pietro, della cui fiera opposizione al Cavaliere gli va oggettivamente reso merito.
Un’opposizione che trova più congeniale rinfacciare a Silvio Berlusconi le sue burrascose vicende extraconiugali, piuttosto che affondare il coltello sulla scandalosa vicenda Mills o sulla gravità della situazione economica o, ancora, sui dissennati tagli alla spesa pubblica decisi da Tremonti, è destinata all’ennesimo naufragio.
Prendendo in prestito le parole di Fassino, per gli elettori di centrosinistra, non c’è niente di scandaloso nel respingimento di questo Pd. Anzi.