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sabato 2 giugno 2012

Più l'informazione si accanisce contro Grillo, più il Movimento 5 Stelle conquista consensi

Il boom di Beppe Grillo e del Movimento 5 Stelle ha mandato in tilt non solo i palazzi della politica, dove la Casta è acquartierata da decenni in mezzo ai privilegi (non ultimo la scorta che li accompagna, persino quando vanno a fare la spesa all'Ikea, vero senatrice Finocchiaro?), ma le redazioni dei giornali che stanno veramente impazzendo per scaraventare contro il Beppe nazionale, tutto ciò che può passare mediaticamente per distruggerne l'irresistibile ascesa verso la più che probabile vittoria alle elezioni politiche della prossima primavera.
Perché già adesso i sondaggi danno il suo movimento in vista del 24-25%, bruciando sullo scatto persino il Pd, e diventando forse la prima forza politica in Italia, per giunta senza essere un partito, senza un soldo di finanziamento pubblico e senza un briciolo di presenza in televisione.
Un passaggio d'epoca, fino a qualche giorno fa roba da libro dei sogni.
Insomma, all'improvviso nel firmamento della politica italiana è nata una stella, o meglio ne sono nate 5!
E c'è da scommettere che di qui ad un anno, bomba o non bomba (come giustamente denuncia il suo leader sul noto refrain di Antonello Venditti), per il Movimento 5 Stelle sarà l'apoteosi, in barba alla Casta ed a quanti si augurano che con qualche attentato sanguinoso si possa bloccare la legittima e democratica aspirazione degli Italiani ad avere finalmente voce in capitolo nelle scelte collettive, senza la pelosa e asfissiante intermediazione dei partiti.
Per questo i due maggiori quotidiani nazionali fanno a gara nel tentare di fare le pulci alla vittoria di Grillo.
E' partito lancia in resta Repubblica, insinuando, già la sera stessa della vittoria di Federico Pizzarotti a Parma, che il giovane neosindaco avesse preso da subito le distanze dal proprio leader.
Come? Con un'intervista in cui vengono riportate le sue prime adrenaliniche dichiarazioni da vincitore inatteso, fatte passare come vera e propria dichiarazione d'intenti, degna di un consumato uomo politico.
Tanto è bastato per creare un caso, su cui altri giornali si sono fiondati a corpo morto, con l'Unità che addirittura titolava perfidamente solo due giorni dopo l'exploit elettorale: "Pizzarotti-Grillo, c'eravamo tanto amati..."
Puro sciacallaggio mediatico, a confronto del quale i mitici panini del Tg1 di Minzolini sembrano l'audace colpo dei soliti ignoti.
Ma il gioco di dividere subito i vincitori è stato così scoperto e precipitoso che soltanto qualche lettore distratto avrebbe potuto abboccare.
E' poi intervenuto lo stesso Pizzarotti a smantellare tutto il castello di carta così faticosamente costruito a Piazza Indipendenza.
Non paga del magro risultato,  Repubblica ha tentato di strumentalizzare il defenestramento avvenuto prima delle Comunali di tal Tavolazzi, accusato da Grillo di promuovere una fronda interna e che poi, una volta messo alla porta, sarebbe voluto rientrare in partita cercando di ottenere dal neosindaco grillino addirittura la poltrona di direttore generale del comune di Parma.
Va da sè che, al di là del merito della sua espulsione, è quanto meno deprecabile che chi è stato mandato via dal portone principale della politica, rientri dalla finestra sotto le mentite spoglie di tecnico.
Ma tanto è bastato perché  i seguaci di Scalfari titolassero che Beppe Grillo era nientedimeno il mandante di una "fatwa" nei suoi confronti, la seconda consecutiva (secondo loro!) dopo il monito da lui stesso lanciato contro la partecipazione dei suoi candidati ai talk show televisivi.
Sì, avete capito bene: Repubblica rinfaccia al leader del Movimento 5S di aver dichiarato contro il Tavolazzi peggio di un ostracismo, una condanna per capirci come quella a suo tempo emanata dal regime iraniano degli ayatollah contro lo scrittore Salman Rushdie, controverso autore dei "Versetti satanici".
A quale livello di imbarbarimento intellettuale deve scendere il secondo quotidiano italiano (particolare non trascurabile, che riceve sostanziosi finanziamenti pubblici), per portare avanti una violentissima quanto inusitata e ingiustificata campagna di stampa contro Grillo, è sotto gli occhi di tutti.
Non vogliamo pensare che  pure da parte della proprietà e direzione di quel giornale il successo elettorale di Beppe Grillo possa essere vissuto con angoscia come una seria minaccia a quel sistema gelatinoso di cui troppi e spesso occulti poteri hanni beneficiato in questi anni, intrecciando relazioni pericolose con la Casta.

Ma il massimo del tragicomico è stato raggiunto dal Corriere della Sera che, nell'edizione Corriere TV,  fa sapere che Beppe Grillo ripete nei comizi, udite udite, le stesse battute; e per dimostrarlo riporta un video ripreso dal comizio finale di Parma del 18 maggio e da quello di Garbagnate di due giorni prima. Nel collage presentato, accostando ossessivamente frammenti di immagini dei due interventi verrebbe immortalata la sua colpa.
Un autentico autogol del Corriere che, per voler parlare alla pancia del Paese screditando la figura pubblica di Grillo, finisce per lanciargli un formidabile  assist.
Infatti che un leader politico dica le stesse cose parlando a platee diverse non solo non è disdicevole ma è addirittura auspicabile, anzi in un paese normale dovrebbe essere la regola.
Meravigliarsi di ciò fino al punto  da ritenere che Grillo venga così colto in fallo, significa ammettere che i giornalisti del Corriere sono abituati a politici che di fronte agli imprenditori dicono una cosa, ai commercianti un'altra, ai pensionati un'altra ancora e quando si trovano davanti agli operai chiudono il cerchio sparlando dei primi; insomma degli autentici voltagabbana pronti a menare per il naso gli ingenui cittadini.
E come mai stesso zelo e anologa osservazione non sono riservati all'ABC della politica, il trio Alfano-Bersani-Casini e Casta cantante?
Forse che costoro sono talmente noiosi e incomprensibili che nessuno sarebbe disposto gratuitamente  a subirne le contorsioni verbali che, a seconda delle circostanze, oscillano tra il criptico, il vuoto e lo sgrammaticato.
Un  caso da scuola è poi il linguaggio di Pierluigi Bersani, come già altre volte abbiamo notato, che riesce a parlare per ore senza dire assolutamente nulla, ponendo l'accento su parole vuote e  brandendo come armi roboanti affermazioni veramente senza né capo né coda, un volo pindarico oltre il surreale.
Sintatticamente i suoi discorsi pubblici sono un vero percorso minato: i famosi anacoluti del segretario del PD si trasformano, nelle irresistibili gag di Maurizio Crozza, in autentici tormentoni: Ragassssi, non siam qui a toglier le macchie dal manto dei giaguari...
Ma l'infortunio del Corriere della Sera è stato in qualche modo riscattato dalla bella intervista che Gian Antonio Stella fa a Beppe Grillo, pubblicata ieri su 'Sette', l'inserto settimanale del quotidiano di via Solferino. Leggetela, è interessantissima.
E a proposito di riforme costituzionali ecco come conclude Grillo:
"Beh, siamo stati scottati: il Parlamento deve avere l'obbligo di discutere delle leggi popolari che vengono presentate. L'obbligo. E poi il referendum senza quorum. Due o tre cose. Per arricchire una Costituzione che è già meravigliosa per conto suo ma non prevede lo spazio  necessario per i cittadini".
E questa sarebbe antipolitica? Magari subito!

giovedì 22 marzo 2012

Articolo 18: I sondaggi farlocchi per scatenare la guerra fra poveri

Repubblica, il quotidiano di Eugenio Scalfari diretto da Ezio Mauro, ha da sempre tifato per la soluzione 'tecnica' al default del governo Berlusconi, prima ancora che questo subisse i contraccolpi internazionali della crisi di credibilità personale del suo leader e di quella finanziaria venuta da oltreoceano.
Così ben prima che si insediasse un nuovo governo le sue firme più note avevano caldeggiato la soluzione Monti, mostrando una sintonia sorprendente con le scelte che successivamente avrebbe fatto il Colle, in qualche modo anticipandole.
Così, al varo del governo del preside della Bocconi ne ha entusiasticamente decantato la competenza e la sobrietà, finendo non di rado per scadere in toni propagandistici al limite del farsesco: Monti che va alle Scuderie del Quirinale per una mostra con la moglie e, udite udite, paga il biglietto.
Che pronuncia uscendo dall'albergo battute esilaranti tipo 'Visto che bella giornata?'; che indossa un loden blu,  compassato come il suo proprietario e altre simili amenità.
Per non parlare di come la manovra lacrime e sangue di dicembre si sia trasfigurata a piazza Indipendenza come passo decisivo per restare in Europa, prova di maturità che gli Italiani hanno affrontato con dedizione e superato a pieni voti.
Non parliamo poi delle liberalizzazioni strombazzate come fossero la rivoluzione copernicana mentre già nelle prime intenzioni del governo sono state derubricate a necessaria imbellettatura di una manovra economica altrimenti classista, di stampo chiaramente neoconservatore.
E adesso che l'obiettivo principale del governo dei bocconiani è stato finalmente svelato, ovvero togliere qualunque tutela sociale ai lavoratori dipendenti per fare del mercato del lavoro un gigantesco far west da dare in pasto alle multinazionali, il tentativo è quello di spalleggiare il governo dei tecnici cercando di spostare l'attenzione da un'altra parte, meglio se nel frattempo si riesce pure a scatenare nella gente gli istinti peggiori.
E internet si presta alla grande a questo scopo: cosa c'è di meglio, infatti, che proporre sondaggi senza alcun valore statistico, funzionali però a inculcare il verbo montiano?
Così il quesito per gli internauti non è se si sia d'accordo o meno con le modifiche all'articolo 18 decise dal governo, come a qualsiasi persona di buon senso, non ai giornalisti di Repubblica, verrebbe in mente di chiedere.
No,  la domanda del sondaggio farlocco che campeggia sull'apertura dell'edizione on line è la seguente:

"La riforma dell'articolo 18 non si applicherà ai dipendenti pubblici, un bacino di tre milioni e 400mila lavoratori. L'ufficialità è arrivata ieri, dopo una giornata di polemiche. Voi che ne pensate?"
E queste sono le possibili risposte:
" - Sono d'accordo: se il datore di lavoro è lo Stato, al lavoratore deve essere garantita un'altra via d'uscita
 - Penso che sia giusto testare le nuove norme, per poi estenderle ai dipendenti pubblici
 - Sono contrario: non si possono fare differenze tra lavoratori, le norme andrebbero estese a tutti"

Il quesito è così stonato e off line che, al più, può suscitare ilarità se non mirasse scopertamente a scatenare una gigantesca guerra fra poveri con i dipendenti pubblici usati, ancora un volta dai tempi del ministro Brunetta,  da parafulmine. 
Il classico diversivo per alzare intanto un polverone mediatico a salvaguardia dei tecnici (ormai si fa per dire), sviando da tutt'altra parte l'inevitabile risentimento popolare.
W Monti! Dalli al dipendente! Abbasso gli statali!
Sono queste le parole d'ordine su cui sembra  attestarsi, con poche voci dissonanti, la linea editoriale del quotidiano mentre la riforma dei tecnici disegna un mercato di lavoro da stato di polizia.
Come sia possibile che ci si sia ridotti a questo, finendo per sposare le peggiori abitudini dei quotidiani di casa Berlusconi, è materia su cui nel centrosinistra qualcuno prima o poi dovrà pure interrogarsi.

domenica 19 febbraio 2012

E Walter Veltroni getta a mare pure l'articolo 18!

Che Walter Veltroni sia una spina nel fianco del PD è noto da tempo.
Che le sue posizioni ormai non abbiano più niente a che fare non solo con la sinistra ma, in generale, con il pensiero socialdemocratico è dimostrato da mille episodi, a partire dalla sua gravissima e inoppugnabile responsabilità nella caduta del governo Prodi nel 2008 e dalla vittoria sul piatto d'argento che offrì a Silvio Berlusconi con la 'vocazione maggioritaria del Pd' che fece implodere in pochi giorni la coalizione di centrosinistra.
Ma si ricordano pure il suo sogno nel cassetto  dell'incarico da conferire in una futuribile sua squadra di governo alla moglie di Berlusconi, Veronica Lario; la strenua tenacia con cui strinse un patto elettorale con i radicali; l'addirittura folgorante ammirazione per Massimo Calearo, presidente di Federmeccanica, che volle in lista a tutti  i costi con il risultato che questi nel 2009, appena un anno dopo la sua nomina a deputato nel Pd, lasciò il partito dichiarando di non essere mai stato di sinistra. E nel famoso voto di sfiducia al governo Berlusconi il 14 dicembre 2010, fece addirittura compagnia a Scilipoti nella pattuglia dei pseudo Responsabili per sostenere il Cavaliere.
E' un fatto che quando Veltroni decise di dimettersi da segretario il 17 febbraio 2009, a seguito dell'ennesimo rovescio elettorale, nessuno lo rimpianse neppure per un istante.
Anzi, non furono pochi quelli che gli rimproverarono di non aver fatto seguire alle parole i fatti, mantenendo la promessa di recarsi in Africa a dare sollievo alle popolazioni flagellate dalla povertà e dall'Aids.
Così, ormai sono anni, ce lo ritroviamo a Roma, dentro il Partito democratico a seminar zizzania con posizioni di destra, spesso ultraconservatrici.
Che quindi anche sul tentativo del governo Monti di abolire l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, abbia deciso di lasciargli carta bianca, nessuno se ne può meravigliare.
Sentite cosa risponde a Curzio Maltese nell'intervista su Repubblica di oggi che gli chiede se non sia eccessivo definire riformismo la politica del preside della Bocconi:
"No. Sono bastati tre mesi per capire che non si tornerà indietro. Circola nel Pd, ancor più nel Pdl, l'idea che questo sia solo un governo d'emergenza, una parentesi dopo la quale si tornerà ai riti e ai giochi della seconda repubblica o peggio della prima. Qualcuno dà giudizi tali da rischiare il paradosso di consegnare al centro o al nuovo centro destra il lavoro del governo. È un errore grave. Questo governo tecnico ha fatto in tre mesi più di quanto governi politici abbiano fatto in anni. Ha dimostrato non solo di voler risanare i conti, ma di voler cambiare molto del paese e vi sta riuscendo, con il consenso dei cittadini e dell'opinione pubblica internazionale. La copertina di Time o l'ovazione al Parlamento europeo sono un tributo ad un paese che solo qualche mese fa era guidato da Berlusconi e deriso".
Poi Curzio Maltese gli chiede di esplicitare il suo pensiero circa la posizione del governo sull'articolo 18 e così replica:
"Sono d'accordo col non fermarsi di fronte ai santuari del no che hanno paralizzato l'Italia per decenni. Il nostro è un paese rissoso e immobile e perciò a rischio. Credo che finora il governo Monti stia realizzando una sintesi fra il rigore dei governi Ciampi e Amato e il riformismo del primo governo Prodi".
E al giornalista che lo invita a non essere reticente, se ne esce fuori con una delle sue mitiche suggestioni:
"Totem e tabù si intitolava un libro di Freud. Ed è perfetto per definire gran parte del discorso pubblico in Italia. Bisogna cambiare un mercato del lavoro che continua a emarginare drammaticamente i giovani, i precari, le donne e il Sud. Ci vogliono più diritti per chi non ne ha nessuno. Questa è oggi una vera battaglia di sinistra".
Se l'ex segretario del Partito democratico dice cose del genere, senza una pubblica abiura o perlomeno la reprimenda dei vertici del partito, è la prova provata che il mondo del lavoro è ormai abbandonato a se stesso, con i politici del finto bipolarismo all'italiana pronti a girare le spalle e ad abbandonare la nave in piena tempesta.
E' utile tenerlo a mente per quando, prima o poi, la Casta chiederà a lavoratori e pensionati il voto in nome del Pd. 


martedì 14 febbraio 2012

Se Atene piange, Roma non ride

Repubblica di domenica scorsa ci ha rivelato che, alla vigilia del viaggio americano, il premier Mario Monti in un faccia a faccia con il segretario generale della CGIL Susanna Camusso avrebbe raggiunto un accordo per una sospensione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per i precari e per una interpretazione ufficiale meno rigida del principio di giusta causa da parte dei tribunali del lavoro.
Questo incontro, che si sarebbe svolto secondo il quotidiano di Piazza Indipendenza in "territorio neutrale" e che sarebbe dovuto restare segreto, getta un'ulteriore ombra sul funzionamento della nostra democrazia, dove sempre più spesso le decisioni che contano vengono prese fuori dalle sedi istituzionali, in vertici a quattr'occhi,  possibilmente lontano da sguardi indiscreti.
Anche se, come in questo caso, i protagonisti prontamente smentiscono con una inusuale nota diramata congiuntamente da Palazzo Chigi e dalla Cgil;  ma il vicedirettore Massimo Giannini conferma la veridicità della notizia.
Insomma i palazzi della politica sempre più spesso si limitano a registrare quanto viene deciso altrove rivestendo  un ruolo di pura (sia pure elegante) tappezzeria, di fatto retrocessi a semplici organismi burocratici che intervengono successivamente per apporre i crismi necessari all'emanazione dei provvedimenti legislativi.
E' un fenomeno noto da tempo e sicuramente inquietante che contribuisce alla crescente e ormai generale disaffezione per la politica, in un'Italia dei poteri forti, delle lobbies, delle logge segrete, delle varie P2 - P3- P4.
Ancora più preoccupante in tempi come i nostri in cui il cosiddetto governo dei tecnici, uscito dal cilindro del presidente Napolitano, si regge su una alleanza inedita tra PD e PDL che in un sistema bipolare, a vent'anni dall'ingresso nel maggioritario, suona come una autentica bestemmia.
Precisazione necessaria soprattutto per rispondere a quanti, tra  politici e opinionisti, approssimandosi un'intesa ritenuta imminente tra  Bersani e Berlusconi sulla nuova legge elettorale, continuano a declamare le presunte virtù del sistema maggioritario che permetterebbe ai cittadini di scegliersi il premier: purtroppo questa tesi è smentita inoppugnabilmente proprio dalla nomina dell'outsider Mario Monti a capo del governo.
Questi leader politici sono così poco credibili e a mal partito (è proprio il caso di dirlo), che risulterebbe comico, se non fosse per altri versi tragico, sentirli difendere la politica del preside della Bocconi, partendo da posizioni ideologiche apparentemente opposte: domenica sera è stato il turno di Angelino Alfano, ospite su RaiTre di Fabio Fazio.
Ma assistere alle peregrinazioni verbali, flagellate da continui anacoluti, del suo omologo Pierluigi Bersani non è più confortante.
Tuttavia, in un logoro gioco dei ruoli, ciascuno di loro nelle continue comparsate televisive ancora ha l'impudenza di ammiccare al proprio elettorato di riferimento (se mai ancora ne vanta uno).
Quando, però sono costretti, in base all'agenda politica, ad accordarsi di persona,  per non esacerbare gli animi già esasperati dei loro sparuti sostenitori, optano per soluzioni estreme, come ad esempio appuntamenti al buio, magari in un tunnel sotterraneo. 
Già è successo nel sottosuolo di Roma tra Palazzo Giustiniani e Palazzo Madama  per il varo del governo di Mr. Monti.
Che questo strano andazzo segni se non la fine sicuramente la sospensione della democrazia  è opinione largamente diffusa: con l'Italia non messa meglio politicamente della Grecia dove l'omologo di Monti si chiama  Luca Papademos, uomo della BCE, e ha fatto varare, davanti ad un paese in rivolta, l'ennesima insopportabile manovra di austerity.
Purtroppo, i paesi dell'Europa mediterranea stanno subendo il ricatto delle banche che, dopo aver provocato la più grossa crisi finanziaria dell'età moderna, invece di renderne conto, anche sul piano penale, ai cittadini e alle istituzioni del proprio paese, le hanno occupate con la complicità della politica, infischiandosene altamente della sovranità popolare.
Così mentre la Grecia brucia, i giornali titolano schizofrenicamente che "le borse e i mercati respirano", poiché il Parlamento di Atene, con la pistola puntata alla tempia dalla troika europea (BCE, FMI, UE), ha mandato giù l'ennesimo boccone amaro tra pesanti tagli al salario minimo, licenziamenti e ticket sulla sanità.
Nel frattempo, il governo Monti, che soltanto due mesi fa aveva  approvato la sua prima manovra antipopolare (l'ennesima del 2011), si accinge adesso con incontri alla chetichella  a varare una riforma del mercato del lavoro destinata ad affondare i colpi nella carne martoriata del lavoro dipendente.
Nessuna sorpresa: è tutto sommato normale che in una democrazia sospesa, commissariata da un ex consulente della banca d'affari americana Goldman Sachs e fresco di ritorno da un viaggio trionfale negli States, il governo sospenda l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Come abbiamo più volte ripetuto, la sospensione di tale articolo non ha alcuna spiegazione economica ma è un intervento squisitamente politico con cui suggellare, anche sul piano  simbolico, il passaggio epocale da una repubblica fondata sul lavoro a uno stato oligarchico dominato dalle banche.
In altre parole, la presunta enfatizzata 'modernità' del mercato del lavoro, per effetto del venir meno della tutela del reintegro obbligato in caso di licenziamento discriminatorio, consiste proprio nel lanciare alle multinazionali un esplicito messaggio di resa del nostro welfare al far west imposto dalla globalizzazione.
Di ciò Monti non ha fatto mistero: "per come viene applicato in Italia l'articolo 18 sconsiglia l'arrivo di capitali stranieri e anche di capitali italiani" ha dichiarato in una recente apparizione a RepubblicaTv.
Eppure, oltre alla inconsistenza di un qualche nesso logico, non c'è alcuna evidenza empirica che l'abolizione di tale tutela possa generare un solo posto di lavoro in più.
E anche sul piano numerico, l'applicazione dell'articolo 18 è assolutamente insignificante: secondo dati della Cgil, negli ultimi 5 anni di 31.000 cause contro i licenziamenti illegittimi solo l'1 per cento si è conclusa con il reintegro nel posto di lavoro.
Ma allora quale la ragione di tanto accanimento?
"Ce lo chiedono le multinazionali" fanno capire Monti e Fornero, confermando che nell'Italia commissariata dai tecnici contano molto di più le grandi concentrazioni finanziarie che la sovranità popolare, quand'anche, come in questo caso, la loro richiesta manchi di qualunque presupposto scientifico se non il riflesso condizionato di un capitalismo primordiale, da animal spirits.
E' accettabile che il presunto governo dei tecnici ponga mano ad un epocale arretramento del diritto del lavoro senza che la collettività venga direttamente investita della questione?
Questione che, al di là delle mere valutazioni di carattere economico, resta comunque  intrisa di profondi significati ideali, storici, di conquista sociale e di innumerevoli riferimenti costituzionali.
Infine, è ammissibile che si faccia carta straccia di due successive consultazioni referendarie che ancora nel 2000 e nel 2003 hanno sancito il rifiuto popolare a prendere in considerazione questo argomento?
Ma il solo doverci porre simili interrogativi è sintomatico del fatto che se Atene piange, Roma non ride.

PS (15 febbraio 2012 h. 14.30): Il Fatto Quotidiano del 14 febbraio, a pagina 9, conferma la ricostruzione di Massimo Giannini avendo saputo da fonte qualificatissima che all'incontro tra Mario Monti e Susanna Camusso era presente proprio il direttore di Repubblica, Ezio Mauro.
In un sol colpo, doppio sbugiardamento per il premier e il numero 1 della Cgil!
A questo punto, almeno un altro paio di domande sono d'obbligo: perché la Presidenza del Consiglio e il primo sindacato italiano si espongono così tanto nel negare l'incontro? Perché Repubblica dà addirittura per fatto un accordo di massima, commettendo un'evidente scorrettezza nei confronti della Camusso in mancanza di evidenze documentali? 

sabato 24 dicembre 2011

Lo spread che non scende: il bluff del governo Monti

La manovra del governo Monti, un confuso accrocchio di tasse destinate a colpire esclusivamente pensioni, lavoro e redditi bassi, ha avuto nella settimana di Natale il via libero definitivo dal Senato. 
La Casta l'ha votata compatta, anche se con qualche ulteriore defezione, facendo finta di guardare da un'altra parte; anzi, senza ritegno, di lamentarsene con i propri elettori.
E' dovuto intervenire lo stesso Mario Monti a svelare il doppio gioco: «Vorrei dire ai cittadini che l`appoggio che questo Governo sta ricevendo è molto più grande di quello che i partiti lasciano credere o dichiarano».
Insomma il capo del governo non ci sta a fare il capro espiatorio di una situazione che si sta avvitando su se stessa e che, anche grazie ai suoi uffici, sta diventando di giorno in giorno più difficile.
Lo scenario in queste due ultime settimane si è fatto infatti ancora più scuro e inquietante.
La manovra del preside Monti e di quei professoroni è appositamente studiata per far versare lacrime e sangue ai soliti noti: lavoratori, pensionati, famiglie a basso reddito.
Non c'è un solo provvedimento che riesca semplicemente a fare il solletico ai ricchi: viene il sospetto che tutte le misure siano state studiate proprio per non disturbare più di tanto il manovratore, cioé la nostra avida classe dirigente.
Un esempio? La tassa sulle attività finanziarie.
E' stata congegnata dai tecnici ministeriali come un'imposta di bollo con aliquota pari all'1 per mille nel 2012 e all'1,5 per mille nel 2013. Ma attenzione: nel 2012, oltre al limite minimo di 34,2 euro, è previsto un tetto massimo di 1.200 euro.
Traduzione: se, da morto di fame, hai titoli per 1'000 euro paghi di bollo il 3,42%; ma se hai in banca 10 milioni ne paghi solo 1'200 euro, cioè lo 0,01%. Alla faccia dell'equità.
E del conflitto d'interessi: raccontano le cronache che il superministro Corrado Passera possiede, titolo più titolo meno, solo in stock options per essere stato amministratore delegato di Intesa San Paolo, 7 milioni di azioni; al prezzo di ieri, antivigilia di Natale, fanno  la bella cifra di 9.170.000 euro.
E di bollo paga solo il massimo stabilito: i famosi 1'200 euro ovvero lo 0,013% del gruzzolo accumulato. Decisamente conveniente: un risparmio di circa 8'000 euro!
Quanto all'asta sulle frequenze televisive, tutti hanno potuto vedere con quanto imbarazzo e quale circospezione ha promesso di intervenire, incalzato da Fabio Fazio domenica scorsa nella puntata di Che tempo che fa.

E sull'impegno assunto che dopo la fase 1, questa del rigore, si passerà alla fase 2 della crescita, si tratta della classica leggenda metropolitana, di cui è lastricata la storia d'Italia, almeno  da vent'anni a questa parte.
Anche perché una manovra che sia severa e oculatamente iniqua, come quella varata da Mario Monti, non solo è moralmente e politicamente inaccettabile ma, a dispetto della nutrita pattuglia dei benpensanti che ne colgono le magnifiche sorti e progressive, economicamente insostenibile in quanto gravemente recessiva.
Non è un caso che l'Istat, dopo aver esitato a lungo, abbia comunicato che il terzo trimestre del 2011 si è chiuso con un Pil a -0,2%: ovvero, grazie alle due-tre manovrine di Tremonti, già dall'estate scorsa siamo entrati in recessione.
Immaginate adesso come si possa chiudere il 2011, dopo che il collegio dei docenti ha deliberato di accanirsi sul fu ceto medio.
Ecco perché il famigerato spread non scende: se all'insediamento di Monti stava a 518 punti, ieri a manovra approvata, è rimasto a lungo a quota 515 per poi ritracciare comunque sopra i 500.
Ma non ci avevano detto che andando in pensione a 70 anni e con quattro centesimi di vitalizio, o non andandoci per niente immolati sul posto di lavoro, lo spread sarebbe velocemente sceso e gli Italiani (non la Casta!) avrebbero vissuto finalmente felici e contenti?
Panzane o meglio la solita bugia pietosa per far inghiottire la pillola amara a milioni di Italiani.
Che poi questa non sia una medicina ma si riveli un veleno letale e rischi addirittura di far stramazzare il nostro paese è un dettaglio che i media si guardano bene dal far trapelare.
Stamattina Massimo Giannini parla di circolo vizioso tra il debito pubblico che non si scalfisce e un Pil che tracolla; purtroppo tutto ciò era ampiamente prevedibile, non bisognava essere un pozzo di scienza per pronosticarlo da mesi.
Così fa bene Scalfari, freschissimo di figuraccia con le sue fasulle previsioni da 'tecnico', a tentare di farcele dimenticare girando per un po' alla larga dall'attualità economico finanziaria per interrogarsi, molto più innocuamente e soavemente, sul senso della vita con il cardinale Martini.
Fa male, invece, il suo vicedirettore Massimo Giannini  quando attribuisce la disfatta di Monti alle incertezze di Eurolandia (ripetendo il leitmotiv di Berlusconi di tutta l'estate) ma soprattutto al quadro politico instabile e alla fragilità di un governo sostenuto, come dice lui, da "azionisti riluttanti".
Si tratta di un grossolano abbaglio.
Mai nella storia repubblicana un governo ha potuto contare su numeri in Parlamento così larghi, nonostante diffusi mal di pancia.
Il fatto è che, grazie ad un Pd del tutto irrilevante, le misure adottate da Monti sono le stesse che avrebbe adottato Berlusconi se fosse restato in sella: antipopolari e recessive.
Perciò i mercati non si fidano: come scommettere su un Paese, acquistandogli i titoli del debito pubblico, quando il suo Pil è in caduta libera proprio grazie al governo Monti?
Se Bersani nel frattempo non si fosse ritagliato il ruolo di comparsa, restando assente dal dibattito politico e intervenendo a giochi fatti, sospinto sulla scena solo dai mugugni del partito persino su una questione cruciale come  l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, probabilmente si sarebbe potuto fare una manovra che, a parità di saldi, avrebbe potuto essere non solo equa ma di stimolo per l'economia.
Costringendo finalmente a pagare evasori fiscali e quanti vivono ben al di sopra dei propri meriti.
Pure l'intervento correttivo sulle pensioni d'oro (quelle dai 200'000 euro annui in su)  promesso dal ministro del Welfare Elsa Fornero è stato alla fine ridimensionato: dal 25% di contributo annunciato al 15% deliberato.
Insomma, mentre i problemi finanziari restano intatti e quelli economici, abbandonati a se stessi, si complicano con conseguenze forse irrimediabili, si insiste a parlare di flessibilità del mercato del lavoro.
Un paese allo stremo, senza una politica industriale, con un equilibrio sociale sempre più precario, con servizi pubblici allo sfascio, collegamenti ferroviari che spaccano in due il paese, si permette però il lusso di acquistare dagli USA tra i 15-20 miliardi di cacciabombardieri d'attacco, rifinanziare le missioni militari all'estero, firmare il contratto con la Francia per l'avvio dei lavori per la TAV impegnandosi come prima tranche per 2,7 miliardi.
Roba da matti, come non dice in questo caso l'ineffabile Pierluigi Bersani.
Buon Natale.

lunedì 5 dicembre 2011

Dentro la macelleria Monti, Bersani fa il pesce in barile

E' molto interessante leggere oggi l'analisi del vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini, sulla manovra appena varata dal governo Monti.
Riconosce che "dal governo dei Professori ci saremmo aspettati qualcosa di più" ma ritiene che si sia fatta "un po' meno 'macelleria sociale' di quanto si temeva".
Poi affonda il colpo: "Non serviva un autorevolissimo tecnico prestato alla politica come Monti, che con i suoi atti ha combattuto in Europa i grandi trust del pianeta e che con i suoi articoli si batte da anni per la modernizzazione del Paese, per varare una manovra che ha comunque un vago sapore di stangata vecchio stile. Non serviva una squadra d'élite per mettere insieme un pacchetto di misure che comprendono la solita infornata di imposte per i contribuenti e la solita carestia di risorse per gli enti locali."
Il giudizio è talmente negativo che non richiede ulteriori commenti. Anche per Giannini è sconcertante che la manovra sia in gran parte fatta di aumenti di imposte e tasse (ben 17 su 30 miliardi), tenuto conto che la pressione fiscale per Bankitalia viaggia e viaggerà (a maggior ragione nel prossimo biennio) su livelli record.
Adesso non staremo lì a stroncare, uno ad uno, i singoli provvedimenti.
Comunque, il quadro tracciato non lascia adito a dubbi: la manovra è profondamente iniqua.
Infatti Giannini è costretto ad ammettere, ad uso e consumo dei suoi lettori,   che "Con la pistola del Cavaliere alla tempia, il premier ha dovuto rinunciare a spostare drasticamente il prelievo, dal reddito al patrimonio. È deludente che un governo tecnico non sia stato in grado di varare un'imposta sulle grandi fortune sul modello francese, e non abbia nemmeno tentato di riequilibrare l'imposizione sulle rendite finanziarie (ferma al 20%) rispetto a quella sul lavoro (ormai a quota 36%)."
Così come è stato fatto un buco nell'acqua nel contrasto all'evasione fiscale (che ogni anno vale 120 miliardi di euro, all'incirca il totale delle cinque manovre fatte nel 2011).
Insomma: non è colpa di Monti se la manovra è inguardabile.
Per i vertici di Repubblica, la colpa è ancora una volta del Cavaliere (sempre lui), che ha preteso dal Professorone ampie rassicurazioni sulla mancanza di un'imposta patrimoniale e di una seria lotta agli evasori.
Diamo per buona questa interpretazione. Ma il leader dell'opposizione che fu, Pierluigi Bersani, che cosa ci stava a fare nel frattempo?
Ad accettare supinamente i diktat berlusconiani? E a farsi non solo passare sopra la propria testa una riforma delle pensioni, spietata, ma persino quella che Giannini riconosce come la "tassa sul pensionato", cioè il blocco della rivalutazione dei vitalizi sopra i 940 euro mensili. 
Traduzione bocconiana: l'inflazione? Scarichiamola su pensionati poveri e dipendenti col contratto bloccato!
Bersani, che ieri sera si è detto "parzialmente deluso" (ma anche, come direbbe Se po' ffà Veltroni, parzialmente soddisfatto), facendo la sua consueta parte di pesce in barile, non è riuscito neppure a spuntare che sui capitali già scudati a suo tempo col misero 5% da Tremonti, fosse fatta pagare una maggiorazione più alta dell'innocuo1,5%.
Soltanto per fare un paragone, l'Inghilterra farà pagare il 50% dei redditi generati sui conti svizzeri dai cittadini di sua Maestà, oltre una sovrattassa.
La macelleria Monti, che notoriamente non fa sconti a nessuno, chissà perché, a coloro che hanno portato illecitamente i capitali all'estero, spesso di matrice criminale, concede un privilegio incredibile: solo il 6,5% di tassazione.
Insomma anche questa volta, l'incorreggibile PD lascia che la sua gente venga fregata alla grande, all'ombra del governo tecnico. Bravo Bersani!
Ragassi! 'Sto segretario qui è proprio un portento!


sabato 2 luglio 2011

Michele Serra, l'uomo dell'Amaca, casca sulla TAV

L’inopinata uscita di Michele Serra del 28 giugno a favore della TAV nella sua Amaca su "la Repubblica", dimostra quanto sia rischioso fare l’intellettuale di professione.

A furia di restare fuori dall’agone quotidiano, grazie ai servigi di un fine intelletto che protegge il fortunato dalle incombenze dei comuni mortali, si vive così separati dal mondo reale da finire per confonderlo con la propria rappresentazione mentale.

Può capitare così che la battaglia contro la Tav, perda per strada i connotati di una sacrosanta lotta allo sperpero di denaro pubblico, all’assoluta inutilità economica dell’opera, alla distruzione ambientale su larga scala, per divenire nella testa di un intellettuale ormai d’antan una disputa tra progressisti e reazionari, tra futuristi e passatisti, tra europeisti e secessionisti, in cui, sicuramente a causa di un bug di software, i contrari alla Tav, sarebbero, loro malgrado, i secondi.

Tutto questo perché, spiega Serra, "a favore di quel buco, c’è l’Europa".

Affermazione tanto impegnativa quanto risibile.
Quale sarebbe questa Europa favorevole al buco? Quella che metterebbe solo 600 milioni di euro su una spesa complessiva di circa 20 miliardi che l’Italia, sola soletta, si dovrebbe accollare?

E poi, se l’Europa volesse davvero la TAV perché subordinerebbe il contributo all’avvio dei lavori entro il 30 giugno? Con buona pace degli europeisti.

Per il momento è accertato che dietro questa decisione ci sono molti burocrati, alcune agguerrite lobbies, gli ineffabili politici del Pdmenoelle e quelli del Pdelle.

Ma, per favore!, lasciate stare l’Europa di Giuseppe Mazzini o quella di Altiero Spinelli!

Forse un giorno, più prosaicamente, la magistratura accerterà che c’erano pure tante ma tante tangenti a decorare il paccotto per le popolazioni della Val di Susa...

In somma per l’uomo dell’amaca o mangi questa minestra o salti nella "dannazione delle Piccole Patrie, che sono la sentina di ogni grettezza reazionaria, di ogni chiusura di orizzonte. Non possiamo invocarla quando ci fa comodo, l’Europa, e maledirla quando mette il naso nel nostro cortile. O la malediciamo sempre, come fa con qualche coerenza Borghezio, o ne accettiamo lo scomodo ma autorevole patrocinio".

Così deraglia Michele Serra volteggiando verso i massimi sistemi dell’Europeismo quando il problema della TAV resta terra terra (proprio come le rotaie da piazzare sotto le Alpi!) ed è quello di valutare la sostenibilità ambientale, economica e finanziaria e l’opportunità politica, in tempi di vacche magre, di un’opera pubblica faraonica.

Ma pur di dare, chissà come mai, il proprio avallo all’avventurismo dei Fassino, dei Chiamparino, dei Bersani e di buona parte della nomenklatura democratica, Serra casca malamente dalla sua Amaca.

Sperando che non si sia fatto troppo male, aspettiamo una release di correzione: L’Amaca 2.0.

martedì 9 marzo 2010

E l'ex presidente Ciampi prese le distanze da Napolitano

Che la firma di Giorgio Napolitano sul famigerato decreto interpretativo sottopostogli da Berlusconi sia stato un gesto perlomeno avventato è un fatto ormai assodato.
L’ennesima conferma autorevole è infatti venuta dal TAR del Lazio che ha bocciato la sospensiva chiesta dal PDL per consentire la riammissione della propria lista, presentata largamente fuori tempo massimo.
La motivazione addotta dai giudici amministrativi non lascia adito a dubbi: il Governo non poteva intervenire su di una materia, la legge elettorale regionale, di competenza della regione; inoltre, nel verbale dei carabinieri presenti nell'ufficio elettorale della corte di appello di Roma è scritto che alle ore 12 erano presenti solo 4 delegati di lista e che tra questi non risultava il delegato della parte ricorrente. Discorso chiuso.
Oggi, Repubblica.it riporta la dichiarazione rilasciata al suo vicedirettore Massimo Giannini dall’ex presidente Ciampi, a cui nel titolo si fa dire: "E' il massacro delle istituzioni / ora proteggiamo il Quirinale".
Apparentemente sembrerebbe una presa di posizione di Carlo Azeglio Ciampi a difesa del suo successore.
Ma come sempre più spesso capita al quotidiano di piazza Indipendenza, il titolo è fuorviante.
Basta leggere un breve stralcio dell’articolo per rendersene conto.
Al dubbio avanzato dal giornalista se Napolitano potesse non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo, così l'ex Capo dello Stato risponde:
"Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell'irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso "io avrei fatto, io avrei detto...". Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo...".
E circa le critiche che scrosciano dalla rete contro il Colle fino al possibile impeachment prospettato da Antonio Di Pietro? Ciampi sbotta:
"Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell'interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese...".

Traduzione: ormai quel che è fatto è fatto, è inutile piangere sul latte versato.
Ma le parole di Ciampi, che evidentemente non ha nessuna intenzione di aprire una querelle con il suo successore, si decifrano piuttosto facilmente: lui non avrebbe firmato; ma dal momento che Napolitano lo ha fatto, è inutile se non controproducente rinfacciarglielo.
La vogliamo chiamare una autorevolissima presa di distanze?
Se non è una sconfessione questa… poco ci manca!

sabato 6 marzo 2010

Fuori dalla Costituzione del 1948

Che stessimo vacillando follemente sull’orlo del baratro lo sapevamo da tempo. Che, di fronte alla straordinaria pericolosità della sfida berlusconiana, non potessimo contare sugli uomini giusti, dentro le istituzioni ma anche nei partiti di opposizione, pure con questo, negli anni, avevamo dovuto fare i conti.
Ma che al Quirinale fosse capitata la persona sbagliata al momento sbagliato, non tutti purtroppo, ancor oggi, in pieno day after, mostrano di accorgersi.
A cominciare dal Partito democratico e dal giornale che, ormai da tempo ne ha sposato, di più, ne ha formulato, la linea politica: la Repubblica.
Che in questi anni, sotto gli auspici del suo fondatore, ha condotto la più inutile e sterile battaglia politica contro Silvio Berlusconi, esempio lampante di come sia sempre sbagliato ingaggiare un confronto di natura squisitamente politica su un piano puramente soggettivo, privo di mordente ideologico ma basato esclusivamente su rilievi personali.
E’ così potuto succedere che, dalle sue colonne, è stato aspramente criticato l’uomo politico Berlusconi (vi ricordate l’inutile tormentone estivo delle dieci insulse domande scabrose del caso Noemi?) ma si è lasciato campo libero, rendendolo indenne da qualsiasi seria critica e riflessione, al berlusconismo, il letale virus pandemico della società italiana, in grado di farla collassare in pochi anni con la farneticante e violenta politica del fare che ha fatto strame della legalità, cioè delle regole e dei principi di uno stato democratico.
Con un pericoloso corollario: si è esaltata la figura del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, soltanto perché di area Pd, quale custode illuminato della sovranità costituzionale, nonostante i gravissimi errori che ne hanno funestato sistematicamente il mandato, a cominciare dalla promulgazione fatta, nel luglio 2008, a tempo di record del lodo Alfano, primo solenne attentato alla nostra Carta.
Errore a suo tempo denunciato clamorosamente, prima ancora che fosse compiuto, da decine di insigni costituzionalisti e, poi, sancito inoppugnabilmente dalla bocciatura della Corte Costituzionale nell’ottobre scorso, nonostante le continue intimidazioni a cui venne sottoposta in quei giorni.
Già ce l’immaginiamo l’editoriale di Eugenio Scalfari di domani, il quale sicuramente si esibirà in una serie di arzigogoli verbali pur di negare l’ennesimo svarione del Presidente della Repubblica per aver controfirmato un decreto interpretativo della legge elettorale ad uso e consumo del partito del premier, mentre la questione della riammissione della sua lista alle prossime Regionali resta ancora sub judice.
Atto che ci pone evidentemente fuori dal solco democratico: si cambiano le regole del gioco mentre la partita elettorale è già in corso e la squadra del premier si è già fatta un clamoroso autogol.
Pare già di leggere come la penna più tronfia di Piazza Indipendenza difenderà domani Napolitano:
"Ringraziare dobbiamo il rigore morale e l’austera fermezza del Capo dello Stato che, solitario al tavolo di lavoro, si attardava fino a notte inoltrata, dopo una giornata di impietosa resistenza alle cupe mire del Cavaliere, per arginare la sua debordante furia demolitrice e, con abile e superbo piglio, pari solo alla sua forza d’animo ed al suo amore sconfinato verso la nostra carta fondamentale, sola stella polare del suo firmamento, poneva fine alle inusitate onde telluriche che attentavano all’integrità dell’edificio costituzionale, apponendo tosto la firma in calce al decreto invocato dalla canaglia, così evitando l’abisso e risparmiandoci più dolorose e perigliose giornate…".
Fatto sta che, ampollosità e bizantinismi a parte e vuote dissertazioni che volentieri lasciamo ai soloni ed ai politologi à la page, nella giornata di venerdì 5 marzo 2010, siamo usciti dall’alveo della democrazia costituzionale, per addentraci nelle spesse, imperscrutabili nebbie di un ignoto far west.

domenica 4 ottobre 2009

Scudo fiscale: la Casta tutta sorregge Silvio Berlusconi

Il modo con cui gli ambienti del Quirinale si sono affrettati a giustificare l’immediata promulgazione del decreto legge che contiene le norme sullo scudo fiscale tradisce il grave imbarazzo di spiegare all’opinione pubblica il perché di un passaggio istituzionale così impopolare.
A fronte dei mille gravi rilievi di un provvedimento che, nonostante le migliori intenzioni, oggettivamente favorisce gli interessi della criminalità organizzata mentre fa a pugni con la nostra Costituzione, la risposta che discende dal Colle appare perlomeno insufficiente.
Basterebbe ascoltare l’intervista rilasciata dal magistrato Roberto Scarpinato, della DIA di Palermo, ai microfoni di RaiNews24, per farsene un’idea.
Sconcertano sia i cosiddetti motivi tecnici che avrebbero indotto il Capo dello Stato a non avere esitazioni nell’apporre la propria firma, sia l’argomentazione da questi espressa informalmente ad alcuni cittadini nel corso della visita di Stato in Basilicata, secondo cui, anche astenendosene in questa occasione, egli sarebbe stato comunque costretto a farlo successivamente, qualora le Camere avessero di nuovo licenziato lo stesso testo.
Ragionamento perlomeno bizzarro: è vero che il capo dello Stato non ha un diritto di veto sulle decisioni del Parlamento ma, per l’art. 74 della nostra Costituzione, "può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata".
Ritenere invece che, nel processo di formazione delle leggi, il Presidente della Repubblica sia solo un passacarte, questo sì è lesivo della sua dignità e delle sue prerogative.
Perciò, ha ancora una volta ragioni da vendere Antonio Di Pietro nel sostenere che, di fronte ad un provvedimento che sana comportamenti gravemente illeciti garantendo a coloro che se ne sono macchiati l’immunità e l’anonimato, Giorgio Napolitano avrebbe dovuto rinviare il testo di legge alle Camere, separando quindi la propria responsabilità formale da quella, politica, del Governo.
Così non è stato ma, in fondo, da questo presidente non ci si poteva attendere nulla di diverso. L’amara esperienza maturata dall’anno scorso con l’immediata promulgazione del lodo Alfano e, quest’anno, con il varo del pacchetto sicurezza, non lasciava adito a dubbi.
E’ convinzione da tempo maturata da alcuni osservatori che l’ex comunista Napolitano, nonostante il partito di Repubblica ne incensi quotidianamente l’opera, si collochi sul gradino più basso di un’ipotetica classifica degli inquilini del Quirinale. Il pur contestato Giovanni Leone, su cui si concentrarono a suo tempo sospetti e critiche anche ingenerose, fu almeno un fine giurista.

Ma, adesso, è tutta la Casta dei politici di Pdl, Lega, Udc e Pd ad essere messa sotto accusa.
La legge sullo scudo fiscale ha mostrato, inoppugnabilmente, l’assoluta inconsistenza dell’opposizione espressa dal Partito democratico: il decreto è passato con 270 sì contro 250 no.
Solo venti voti hanno, cioè, separato una maggioranza che sulla carta disponeva di ben altri numeri da una minoranza in cui si sono registrati addirittura 29 defezioni!
E non era una delle tante votazioni di commissione: il governo di centrodestra aveva posto la fiducia e, con l’eventuale bocciatura dello scudo fiscale, si sarebbe potuta sancire la fine dell’era berlusconiana e l’inizio di una stagione nuova per l’Italia.
Così non è stato, per colpa dei deputati di opposizione, 22 dei quali assenti tra le fila del Partito democratico.
Di fronte ad un passaggio istituzionale tanto delicato, che poteva rivelarsi storico, a nessuno doveva essere consentito di sottrarsi al solenne rito del voto; neppure per ordinari motivi di salute.
Infatti, l’unico motivo plausibile per cui chi rappresenta gli elettori può godere di una sin troppo sterminata serie di privilegi è forse proprio perché le sue sono specialissime funzioni, da esercitarsi anche in frangenti particolari.
E’ paradossale che mentre l’ineffabile ministro Brunetta escogita per i lavoratori italiani in malattia un istituto molto simile agli arresti domiciliari, i parlamentari si prendano il lusso di astenersi da una votazione importantissima, per la quale il Governo ha imposto persino il voto di fiducia, per motivi risibili: a causa di una banale febbriciattola o, peggio, per sottoporsi ad accertamenti clinici di routine o, peggio di peggio, per recarsi ad una conferenza.
Poche illusioni, è la Casta tutta a sorreggere il governo di Silvio Berlusconi.

domenica 14 giugno 2009

Anche Scalfari perde la pazienza: Veltroni e D'Alema, go home!

In queste ultime ore, a dati elettorali ormai archiviati, tutti i commentatori si sono affrettati a scrivere il proprio pezzo, dimostrando una convergenza di opinioni persino sorprendente.
Il verdetto è stato unanime: gli elettori hanno bocciato entrambi i due colossi, Pdl e Pd.
Un’emorragia di voti che, in termini assoluti (le percentuali spesso travisano la realtà), raggiunge quasi i 3 milioni di consensi in meno per il Pdl e i 4 milioni addirittura per il Pd: una Waterloo.
A sinistra saremmo tentati di chiamarla Walterloo, data la pesante ipoteca dell’ex segretario Walter Veltroni sul risultato del Partito democratico, malgrado l’abilità con cui l’attuale leader Dario Franceschini si è mosso in questa campagna elettorale.
Il commento che più colpisce è quello domenicale di Eugenio Scalfari che oggi fa un’analisi impietosa dell’esito elettorale per il Partito democratico, di cui sembra rimasto l’unico vero ideologo, essendo tutti i suoi dirigenti affaccendati in liti da cortile.
Ma questa volta, abbandonati i toni conciliativi, spara a zero contro i maggiorenti del partito; ne citiamo il passo più significativo:
"Se l'opposizione non fosse così fortemente debilitata avremmo almeno un aggancio robusto per riportare ordine e chiarezza. Purtroppo anch'essa ha perso credibilità anche se la campagna elettorale condotta dal segretario Franceschini è riuscita almeno a contenere le perdite salvando il salvabile. Sono molti ora a chiedere in che modo si possa e si debba costruire un partito che ancora non c'è, che è ancora un'ipotesi di lavoro e fatica a decollare per debolezza dei motori e insufficiente portanza.
Ci sono almeno tre esigenze generalmente avvertite: la prima è quella di radicare il partito nel territorio, la seconda è di selezionare una classe dirigente nuova, la terza riguarda la vecchia nomenclatura composta da quelli che guidarono i vari spezzoni confluiti nel Pd. I membri di quella nomenclatura non sono affatto da ostracizzare; rappresentano tuttora un deposito di esperienze, memorie, valori. Ma dovrebbero riporre ambizioni e pretese rassegnandosi ad un ruolo che resta peraltro di notevole importanza: ruolo di padri e di zii, ruolo di saggezza e incoraggiamento, non di comando e di intervento.
Quando Veltroni si dimise, con lui fece un passo indietro l'intero vecchio gruppo dirigente e questo fu l'aspetto positivo di quella drammatica ma ormai necessaria decisione. Sembra tuttavia che ora quel collettivo passo indietro sia rimesso in discussione e si riaccendano tra gli zii sentimenti di rivalsa e nuovi fuochi di battaglia."
E conclude:
"Controvoglia non so, ma certo il tornare a gara di tutta la vecchia nomenclatura sbarra la strada al necessario rinnovamento e riaccende eterne dispute che un corpo sano e robusto potrebbe sopportare ma un corpo debilitato non tollera rischiando la sua stessa sopravvivenza."
Finalmente anche il fondatore di Repubblica lancia strali contro quella che da tempo chiamiamo la nomenklatura democratica, rea di farci vivere in questa tristissima condizione.
Quella in cui, per fare solo un esempio di stringente attualità, il Presidente del Consiglio denuncia pubblicamente l’esistenza un piano eversivo contro di lui e minaccia apertamente gli industriali di non fare pubblicità sui media cosiddetti disfattisti.
Tutto ciò mentre è in corso di approvazione in Parlamento il ddl sulle intercettazioni che non solo rende impraticabili le indagini della magistratura su gravissime fattispecie di reato ma che imbavaglia la stampa e, tanto per convincere i più scettici sull’instaurazione di un regime, cerca di normalizzare persino la rete impedendo la libertà di espressione in blog, social network e portali informativi, imponendo una serie di vincoli burocratici e di sanzioni pecuniarie, come se ne possono trovare solo nei sistemi autoritari.
Insomma, dopo aver depenalizzato il falso in bilancio e deresponsabilizzato sul piano penale le Alte cariche, diffamato con il ministro Brunetta i dipendenti pubblici, ridotta alla canna del gas la scuola, si cerca adesso di attaccare frontalmemente giornalisti e magistrati, mentre tutto attorno l’economia agonizza.
Che i vertici del Partito democratico, corresponsabili non fosse altro che per ignavia di questo stato di cose, debbano fare un passo indietro per dare vita, subito dopo la prossima domenica dei ballottaggi, ad un percorso congressuale rapido dove si discuta non più sulle persone ma finalmente di politica, sembra talmente scontato da sembrare una precisazione superflua.
Eppure, dell’auspicato passo indietro della vecchia nomenklatura non si può essere per niente certi: lo conferma Massimo D’Alema che, nella trasmissione In 1/2 ora ospite oggi dell'Annunziata, pur convenendo sulla necessità di andare al congresso quanto prima, si è mostrato piccato dell’invito del fondatore di Repubblica di limitarsi ad un’opera di saggezza e incoraggiamento.
Anzi, pur ribadendo di tirarsi fuori da una lotta al vertice, ha però voluto precisare: "Una candidatura come la mia avrebbe senso in una sorta di emergenza nazionale. Non credo, però, che siamo alla necessità di richiamare la vecchia guardia per salvare il salvabile".
Ottimista sulla situazione italiana o ai blocchi di partenza per aggiudicarsi di nuovo la leadership dei democratici, magari dopo uno scontro al calor bianco proprio con il mai rassegnato Veltroni?
Gli elettori del Pd hanno compreso da tempo che al peggio non c’è mai fine… si rassegni anche Scalfari!

lunedì 25 maggio 2009

Nulla di scandaloso nel "respingimento" di questo Pd

La politica italiana è arrivata ad un livello di degrado intellettuale (quello morale è superato da tempo!), come probabilmente non si era mai verificato nella storia repubblicana.
Non si era mai vista tanta povertà di idee e una così forte omologazione nella proposta politica da parte dei due grandi contenitori politici, PD e PDL, che, riflessi l’uno nell’altro, per attirare le simpatie di coloro che ancora resistono a guardarli, hanno imboccato decisamente la strada del reality show, sicuri di replicarne le fortune.
Repubblica, lancia in resta, si spinge a rinnovare i fasti di Cronaca Vera, con le famose dieci domande al premier su Noemi e famiglia.
Per capire quale sia la potenza di fuoco messa in campo da questa corazzata editoriale, basta rendersi conto che ormai nei media nazionali da quattro giorni a questa parte non si parla di altro ed il centrosinistra si uniforma alla politica scandalistica del gruppo De Benedetti, rilanciando per bocca dei suoi dirigenti, il questionario di D’Avanzo & c.
Tutti gli altri grandi temi, dalla crisi economica sempre più grave alla questione ammortizzatori sociali, dalla giustizia in stato catatonico al nuovo sviluppo economico verde, dai tagli indecenti a scuola e università alla ricostruzione in Abruzzo ancora da progettare, tutto, ma proprio tutto, è sparito sotto i colpi dell’ultima intervista del quotidiano di piazza Indipendenza, udite udite, al personaggio del momento: l’ex ragazzo di Noemi...
Che Repubblica ieri gli abbia dedicato oltre la prima pagina ben due pagine interne con tanto di foto a colori e riproduzione della lettera che la ragazza gli scrisse prima di Natale, ci fa rabbrividire: alla faccia del giornalismo d’inchiesta, siamo caduti nella morbosità stile Cogne!
Certamente, nessuno può accusarci di essere stati mai morbidi con Silvio Berlusconi che, lo ribadiamo, non avrebbe mai dovuto salire a Palazzo Chigi se la nostra fosse stata una vera democrazia; perché le leggi, prima ancora di un’opposizione presentabile, glielo avrebbero dovuto impedire.
Ma questo è il paese in cui l’ex segretario del Partito democratico, Walter Veltroni appena acclamato vincitore delle primarie del 2007, tese la ciambella di salvataggio al Cavaliere, in caduta libera nei sondaggi e nel credito politico, dichiarando di volere concordare le riforme istituzionali proprio con lui, scaricando a stretto giro di stampa Prodi e i partiti della sua maggioranza e portando il Paese, inopinatamente, alle elezioni anticipate dopo appena 1 anno e mezzo di governo!
Questo è il paese in cui è tuttora in corso una durissima lotta di potere all’interno della casta dei politici, ma non in nome di principi costituzionali da salvaguardare o di interessi dei cittadini da difendere; unicamente allo scopo di una più ricca spartizione delle poltrone, un redde rationem tra potentati di varia matrice.
Il povero Dario Franceschini, che in questi mesi ha dimostrato di essere enormemente più abile di Veltroni, è suo malgrado espressione di quel gruppo dirigente che oggi si nasconde alle sue spalle: anzi trama nel dimenticatoio, nella prospettiva di un rilancio in grande stile.
Diverso sarebbe potuto essere il suo destino se sul suo nome si fosse coagulato un nuovo consenso nell’ambito di un congresso vero, che la nomenklatura non ha invece voluto celebrare, negandogli un mandato diverso.
Votare per il Partito democratico alla prossima tornata elettorale è, per l’elettore di centrosinistra, un po’ come gettarsi la zappa sui piedi: sai che soddisfazione a rivedere in primo piano i Fassino, D’Alema, Veltroni, Violante, Finocchiaro, i Bettini, cioè coloro che hanno permesso dopo pochi mesi a Silvio Berlusconi di tornare a Palazzo Chigi con le chiavi del portone!
Coloro che hanno tifato per la doppia scalata Bnl-Antonveneta e hanno favorito l’ostracismo contro Clementina Forleo e, contemporaneamente, contro Luigi de Magistris, titolare dell’inchiesta Why Not, colpevoli solo di aver fatto rispettare la legge.
Per fortuna i successivi pronunciamenti della magistratura ci hanno restituito adesso l’immagine specchiata e fulgida di questi due valorosi magistrati e la vergogna di una classe politica che ha scomodato il Csm pur di bloccarli.
Al procuratore di Salerno Luigi Apicella sono giunti persino a togliergli lo stipendio: un provvedimento del genere non sembra sia stato mai preso, neppure contro magistrati collusi con la mafia!
Eugenio Scalfari, maître à penser del Partito democratico, nel suo ultimo editoriale di ieri si dimentica di tutte queste vicende e, proprio come se non fosse successo niente, si ostina a pensare che il significato delle Europee andrà valutato attraverso la misura del distacco che ci sarà tra Partito democratico e Pdl.
Ci racconta la solita favoletta: elettori delusi del centrosinistra, se non volete rafforzare Silvio Berlusconi, votate Partito democratico!
Purtroppo per lui, è vero esattamente il contrario: è stato proprio il Partito democratico di Veltroni, quello che l’anno scorso perse clamorosamente raggiungendo il 33% dei voti, in questo primo anno di legislatura a lasciare campo libero a Silvio Berlusconi ed al suo enorme conflitto di interessi.
Soltanto indebolendo la stampella del Cavaliere, questo inguardabile Partito democratico, nonostante il recente make-up a cui lo ha sottoposto il bravo Franceschini, si potrà fare piazza pulita di un gruppo di potere che domina il centrosinistra da quasi vent’anni e che ha permesso all’uomo di Arcore di regnare per oltre un decennio e farsi con tutta tranquillità tante leggi ad personam ed, in ultimo, il lodo Alfano, vero buco nero della nostro assetto Costituzionale.
Accusare Di Pietro, delle cui ambiguità ideologiche certo noi non gli facciamo sconto, di spalleggiare il Cavaliere semplicemente perché critica le perplessità, cioè le vischiosità del PD, nell’opporvisi fieramente, è un’autentica castroneria!
Purtroppo Scalfari fa finta di non comprendere che il successo berlusconiano del 2008 è dipeso in misura soverchiante proprio dal fatto che la classe dirigente del Pd, rinnegate le proprie origini e la sua presunta diversità morale, abbia indossato gli stessi abiti dei lacchè di Berlusconi, diventandone troppo spesso una pessima controfigura, cioè mal destra.
Per sentire ancora una volta Piero Fassino ragionare come fanno Maroni e La Russa, beh è decisamente meglio cercarsi i propri rappresentanti altrove: magari nel variopinto arcipelago di sinistra o nelle liste civiche di Beppe Grillo; o proprio nell’Idv di Antonio Di Pietro, della cui fiera opposizione al Cavaliere gli va oggettivamente reso merito.
Un’opposizione che trova più congeniale rinfacciare a Silvio Berlusconi le sue burrascose vicende extraconiugali, piuttosto che affondare il coltello sulla scandalosa vicenda Mills o sulla gravità della situazione economica o, ancora, sui dissennati tagli alla spesa pubblica decisi da Tremonti, è destinata all’ennesimo naufragio.
Prendendo in prestito le parole di Fassino, per gli elettori di centrosinistra, non c’è niente di scandaloso nel respingimento di questo Pd. Anzi.

martedì 9 dicembre 2008

Il Partito democratico va sempre più giù

Ennesima settimana di crisi della politica.
La casta sta affondando ma ha perso anche quel residuo amor proprio, servisse soltanto per risalire la crisi di consensi che la investe aggrappandosi, come un naufrago in un mare in tempesta, alle cime della crisi economica e così dimostrare agli Italiani che ancora serve a qualcosa.
Il governo del centrodestra naviga a vista, tagliando a destra ed a manca la spesa pubblica fino a quando qualcuno da Oltretevere non alza la voce e gli fa rimangiare di colpo il taglio alle scuole cattoliche con tante scuse.
La sua politica deflazionista accelera la crisi e non restituisce in termini di provvidenze sociali neppure una parte di quello che toglie dal bilancio dello Stato: la social card è uno strumento del tutto inadeguato per lenire le sofferenze delle tante famiglie in rosso già alla terza settimana.
Sono bastati pochi giorni dal suo strombazzato varo per capire che, anche sul piano economico, il governo è nudo.
D’altra parte, premere ancora sull’acceleratore dell'ordine pubblico, della sicurezza e della paura dell'immigrazione a due settimane da Natale, con lo shopping che langue, più che una buona idea apparirebbe agli occhi dei più una provocazione.
La riforma della giustizia? Da sempre l’obiettivo dichiarato del Cavaliere, dopo la legge incostituzionale sulle alte cariche, non è poi così impellente almeno fino a quando la Suprema Corte non si sarà pronunciata contro. Diciamo così, il governo sta aspettando Natale…
E l’opposizione? Quale opposizione?
L’intervista di Veltroni a Repubblica della settimana scorsa dimostra che il vertice del Partito democratico ha perso il polso della situazione, non riuscendo neppure a capire cosa stia succedendo in casa propria, figuriamoci ad immedesimarsi nei guai che affliggono gli Italiani: l'odierno sondaggio Ipr per Repubblica.it lo dà in caduta libera di oltre 5 punti percentuali.
Più precisamente, l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro svetta al 7,8% mentre il Partito democratico accusa un crollo sulle Politiche di primavera del 5,7%!
Morale: quando l’opposizione la si pratica quotidianamente, la gente se ne accorge e premia i politici volenterosi; al contrario, quando ci si tira i piatti da pranzo, come fanno Walter Veltroni e Massimo D’Alema, semplicemente per decidere quale sia il modo migliore di non fare opposizione, ecco che anche lì il verdetto popolare cade giù duro come una tegola.
L’impareggiabile coppia Veltroni - D’Alema è riuscita a superarsi facendo addirittura guadagnare al Pdl altri due punti percentuali rispetto alla primavera scorsa, nonostante l’azione di governo sia stata in questi mesi decisamente mediocre: complimenti!
L’altra sera, nel salotto di Fabio Fazio, c’era il fondatore di Tiscali, Renato Soru, che rivendicava la sua coerenza nelle scelte fatte come governatore Pd della Sardegna; scelte che lo hanno costretto alle dimissioni quando si è visto mancare l’appoggio proprio degli esponenti regionali del suo partito.
Il suo parlare schietto, senza fronzoli, che richiama valori antichi ma di grande modernità, come l’impegno personale per la sua terra, l’ottimismo della volontà e del sacrificio contro i compromessi al ribasso, una idea alta della politica, hanno finito per sfiorare corde nell’animo di molti simpatizzanti del Pd che la politica di questi anni dei vari Fassino, Veltroni, D’Alema, Bettini, Rutelli aveva fatto completamente dimenticare.
Il richiamo all’ambiente, al rispetto che dobbiamo alle future generazioni per non lasciare loro un mondo invivibile, alla cultura del lavoro e del risparmio contro gli irresponsabili inviti all’ottimismo dei consumi, ha messo in luce un uomo politico che dimostra una sincera avversione per i riti della casta e che è in sorprendente, quasi inconsapevole, sintonia con ampi settori della società civile.
Ci domandiamo: nella crisi abissale in cui versa il Pd, crisi di identità, di strategia ma soprattutto di etica (come confermano le numerose inchieste in corso sulla sinistra d'affari), cosa impedisce alla leadership democratica di lasciare subito il testimone a uomini nuovi come Renato Soru?

giovedì 4 dicembre 2008

Se un leader sfodera un ottimismo fuori luogo

Interessantissima l’intervista a Walter Veltroni, leader del Partito democratico, che Massimo Giannini propone oggi ai lettori di Repubblica. Ne riproponiamo forse lo stralcio più significativo, quando, alla domanda se sarebbe disposto a farsi da parte nell’impossibilità di sanare le fratture interne al partito, così risponde:
"Considero gli interessi generali più importanti di quelli personali. Ho sempre lavorato per il bene di questa "creatura", un partito riformista di massa, una forza del 34% che in Italia non è mai esistita se non nella breve parentesi del primo governo Prodi, tra '96 e '98. In meno di un anno i risultati sono stati straordinari. La Summer School è stata un successo. La nostra tv sta andando benissimo. Il Circo Massimo è stato un trionfo. Abbiamo vinto le elezioni in Trentino e in Alto Adige. Abbiamo gioito per la vittoria di Obama, perché qui qualcuno aveva intuito che era uno straordinario seme di futuro. Siamo risaliti di 4 punti nei sondaggi mentre Berlusconi ha cominciato a cadere. Insomma, tutto stava andando per il meglio. Ho chiesto ai segretari regionali due giorni fa: cosa diavolo è successo in pochi giorni?".
Veltroni si lusinga immaginandosi una situazione politica inesistente, sfoggiando un ottimismo fuori luogo, esaltando successi surreali che agli occhi dei suoi simpatizzanti appariranno soltanto aria fritta.
Il riferimento alla vittoria di Barack Obama è poi un capolavoro di comicità, quasi che l’avesse rubata a Maurizio Crozza.
Quando la realtà supera la satira.

lunedì 24 novembre 2008

Tra i due senatori... l'inciucio vince!

Nell’intervista a la Repubblica di oggi il senatore del Pd Nicola Latorre chiede scusa per la brutta figura in cui è incappato durante un dibattito televisivo della settimana scorsa quando si è fatto sorprendere dalle telecamere di La7 nel passare un “pizzino” all’avversario del Pdl Italo Bocchino per suggerirgli la risposta da dare al capogruppo dell’Idv, Massimo Donadi.
Una scena al tempo stesso fantozziana e surreale, che ricorda Specchio segreto la fortunata trasmissione degli anni sessanta di Nanni Loy che, con l’obiettivo nascosto, filmava in presa diretta in giro per l’Italia frammenti di vita comune, con risultati a volte esilaranti, sempre di rara efficacia narrativa.
Però lo scoop di Striscia la Notizia, nonostante le risate montate di sottofondo com'è uso di questa trasmissione, non ha nulla di esilarante e non è stato realizzato nascondendo le telecamere: si rivela, né più né meno, che uno sberleffo nei confronti dei cittadini, in gran parte ancora troppo ingenui e idealisti.
Perché non rappresenta solo un gravissimo scivolone ed un evidente autogol dei protagonisti.
Quel comportamento molto più di tanti editoriali, commenti, dibattiti mediatici fotografa lo stato della nostra politica.
Uno stato pessimo, a giudicare dalla disinvoltura con cui i due protagonisti Bocchino e Latorre si sono mossi, incuranti dell’occhio vigile delle telecamere di studio.
Non solo è scandalosa l’imbeccata di Latorre, ancora più sconcertante è la reazione compassata di Bocchino che riceve il messaggio senza fare una piega; anzi, subito dopo si dà da fare per raccogliere il suggerimento dell’avversario prendendo la parola contro il rappresentante dell’Idv, alleato di Latorre.
La verità che emerge inconfutabile è che i nostri politici rispondono soltanto a se stessi, coinvolti nei loro giochi sottotraccia, in una strategia trasversale e autoreferenziale in cui i bisogni dei cittadini sono l’ultimo dei loro pensieri.
In un paese normale, come ripete spesso il suo capofila Massimo D’Alema, Nicola Latorre avrebbe dovuto spontaneamente rassegnare le dimissioni da ogni incarico politico.
Da noi, al di là del prevedibile clamore sollevato nella gente dallo scoop della trasmissione di Antonio Ricci, la cosa è passata tra i politici quasi inosservata, tanto a destra quanto a sinistra.
Lo stesso Massimo D’Alema, che sicuramente non deve averla presa bene, fa finta di niente, in ben altre faccende affaccendato nello scontro in corso dentro il Pd.
Eppure Latorre, dopo le scuse d’obbligo, ha l’ardire di rilanciare; ecco come esordisce nell’intervista curata da Goffredo De Marchis:
"Innanzitutto, sento il dovere di chiedere scusa agli elettori e ai militanti del Pd. Ho commesso una grave leggerezza, ho contribuito ad accreditare un'idea della lotta politica che non corrisponde al mio modo di essere. Non volevo mettere in difficoltà il mio partito, semmai il contrario. Ma ho sbagliato il modo. Dunque, mi scuso e l'ho fatto anche sul sito. Detto questo, considero un segnale allarmante far derivare da quella vicenda una sequela di iniziative inquisitorie. Chiedere formalmente le mie dimissioni da tutto, sentirmi dire dal gruppo dirigente che ho infangato miseramente la politica, ascoltare Di Pietro invocare misure poliziesche nei miei confronti senza che nessuno del Pd alzi un dito, beh tutto questo mi fa credere che l'episodio in sé c'entri poco. C'entra invece l'idea di un partito in cui il problema è reintrodurre il reato di lesa maestà".
Chi avrà la calma di leggere l’intera intervista, troverà ulteriori spunti di riflessione su come la casta abbia completamente smarrito il senso della realtà prima ancora che il senso della sua missione.
E qualcuno ci dovrebbe pure spiegare perché, rispetto a quello di Latorre, dovrebbe considerarsi più riprovevole il comportamento di Riccardo Villari, anch’egli senatore del Pd, che resiste pervicacemente sulla poltrona di Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, dopo essere stato regolarmente designato con una votazione parlamentare formalmente ineccepibile, malgrado gli inviti a farsi da parte rivoltigli ormai da entrambi i poli dopo l’intesa bipartizan raggiunta fuori tempo massimo sul nome di Sergio Zavoli.
Perché Ricardo Villari merita l’espulsione dal partito, mentre per Nicola Latorre può bastare al massimo una lavata di testa?
Forse perchè tra i due senatori… l’inciucio vince!

giovedì 30 ottobre 2008

Da una debole democrazia all'abisso, in nove mesi netti!

Il 25 ottobre è passato da un pezzo ma gli eventi della settimana hanno presto fatto dimenticare il rito che si è consumato stancamente al Circo Massimo.
Il raduno organizzato da Veltroni e suggellato dal suo inutile discorso ha confermato in pieno le previsioni della vigilia.
I motori della potente macchina organizzativa del partito democratico si sono accesi per dargli modo di verificare se nella cabina di pilotaggio i comandi fossero ancora efficienti, una sorta di collaudo voluto dal leader per tastare il polso del partito.
In questo senso, al di là delle dichiarazioni del sindaco di Venezia Massimo Cacciari che ha colto l’ennesima facile occasione per sbeffeggiarlo pubblicamente, la manifestazione ha espresso alcuni verdetti: nolenti o volenti, i democratici confermano Walter Veltroni come guida del partito ma chiaramente la sua resta un leadership a sovranità limitata.
Solo Repubblica è riuscita a dare dell’evento di sabato pomeriggio una rappresentazione surreale al limite della propaganda: l’articolo di Scalfari del giorno successivo è costruito come un gigantesco spot pro Veltroni.
Anche se il fondatore del quotidiano romano non può però non prendere in qualche modo le distanze dai numeri sbandierati: "... Gli organizzatori sono molto prudenti nel valutare la consistenza numerica di quella marea di folla in movimento ma ora azzardano una stima di due milioni. Alla fine arriveranno a due milioni e mezzo valutando non tanto la capienza del Circo Massimo e delle alture che gli stanno intorno quanto le strade adiacenti interamente occupate. Chi segue le dirette televisive ed ha sotto gli occhi la visione panoramica complessiva capisce che quella stima è molto vicina alla realtà."
Il semplice fatto che per valutare l’efficacia dell’evento, lo stesso suo ideatore Walter Veltroni sia costretto a sparare cifre ridicole, è la conferma che, mancando una chiara piattaforma rivendicativa, il suo unico obiettivo era quello di chiamare gente in piazza a fare numero.
Pertanto a sostegno di una manifestazione indetta tre mesi prima non si sa bene esattamente per che cosa (lo slogan Salva l'Italia! sembra satirico...) c’era la necessità, per non limitarsi al classico buco nell’acqua, di gonfiarne la consistenza numerica: se la questura ritocca drasticamente le dimensioni a duecentomila partecipanti, è altamente probabile che comunque ad ascoltare Veltroni non fossero più di cinquecentomila.
Comunque un bel numero, non c’è che dire, ma sparare cifre assurde non migliora l’umore di una protesta sociale che non trova più nel partito democratico il principale punto di riferimento: senza l’Italia dei Valori che prosegue con grande successo la raccolta di firme contro il cosiddetto lodo Alfano, i numeri della giornata sarebbero stati ben più miseri.
E’ così vero che, dopo averne avuta la riprova dai sondaggi, Veltroni è stato costretto nel giro di pochi giorni a rimangiarsi la rottura con Di Pietro, così spocchiosamente pronunciata nello studio di Fabio Fazio.
Proprio Repubblica ha mostrato, numeri alla mano, che i suoi elettori non capiscono affatto come sia possibile allearsi con il partito di Totò Cuffaro piuttosto che con quello di colui a cui va dato il merito sedici anni fa, con i suoi illustri colleghi magistrati del pool di Milano, di aver scoperchiato Tangentopoli.
La svolta di Veltroni, finalmente in campo anche contro la legge Gelmini, che taglia addirittura 8 miliardi di euro alla scuola pubblica (una cifra enorme!), minacciando la via referendaria per abrogarla appare però tardiva e imbarazzata.
Nel luglio scorso, quando Tremonti fece approvare la famigerata finanziaria da nove minuti e mezzo che prevedeva quei tagli, il governo ombra dove stava? Sotto l’ombrellone?
La verità è che adesso i nodi stanno venendo al pettine: abbiamo un governo estremista che sta mostrando il suo volto più arcigno e reazionario, mentre la società civile è costretta a trovare fuori dal Parlamento nuove forme di espressione per comporre il proprio disagio e manifestare la protesta.
Se poi pensiamo a quello che si è verificato ieri a due passi dal Senato, con un gruppo di black block lasciati dalle forze dell’ordine impunemente infiltrare il pacifico movimento studentesco a cui ha fatto seguito una vile aggressione di stampo squadrista contro ragazzi inermi, dopo le preoccupanti parole pronunciate qualche giorno fa dall’ex presidente Cossiga, si capisce come il nostro Paese stia scivolando a velocità incredibile verso una deriva sudamericana.
Sembra impossibile, ma in pochi mesi per colpa di una destra priva di senso dello Stato e dell’imbelle opposizione di una generazione di cinquantenni vissuti da sempre tra i privilegi di casta, stiamo precipitando fuori dalla democrazia: dal governo Prodi all’abisso, in nove mesi netti.
Complimenti al tandem Veltroni - Berlusconi!

venerdì 10 ottobre 2008

Veltroni implora ma Berlusconi se ne frega...

Non è un mistero che il Pd, sin dalla sua nascita, consideri strategica la collaborazione con il centrodestra per varare le cosiddette riforme istituzionali; ma, con la sconfitta patita nelle elezioni del 13-14 aprile, la predilezione all’inciucio si è fatta via via più netta, anche su questioni di ordinaria amministrazione, ad esempio per talune scelte di politica economica.
A luglio dicemmo che il Cavaliere non aveva al momento alcun interesse ad assecondare l’istinto accomodante della leadership democratica. Avrebbe aspettato probabilmente la vigilia di un durissimo inverno per aprire agli uomini di Se po' ffà.
Nel frattempo abbiamo assistito al disfacimento completo dell’opposizione parlamentare con un Veltroni più intento ad attaccare Di Pietro che il Cavaliere, dal momento che i sondaggi danno il partito democratico in caduta libera, forse addirittura sotto il 28%.
Ultimamente, vedendosi la terra mancare sotto i piedi proprio a causa di una linea politica praticamente inesistente, infarcita soltanto di vuote parole come responsabilità, dialogo, pacatezza, giustizialismo, moderazione, semplificazione della politica ed altre amenità del genere, Veltroni si è all’improvviso risolto a parlare di emergenza democratica, dittatura strisciante, diritto dell’opposizione a fare l’opposizione (finalmente!) e di attaccare in prima persona il Cavaliere.
Ma se si vanno a recuperare le cronache di questi giorni, il suo è stato un attacco tardivo e sconsiderato, una sorta di finto proclama: infatti, che senso abbia adesso dichiarare ai quattro venti di voler stoppare la candidatura di Berlusconi al Quirinale tra cinque anni (!), qualcuno glielo dovrebbe domandare.
Persino il suo mentore, Eugenio Scalfari, preferisce non commentare simili sciocchezze, probabilmente stufo di dovere correre settimanalmente in suo soccorso.
La sortita di Veltroni fa il paio, come avemmo a suo tempo già modo di sottolineare, con quell’altra pronunciata al forum dei circoli lombardi del Pd qualche mese fa quando fece intendere che, insieme a quelle del 2013, già pensava alle elezioni del 2018…
Non a caso il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, vista la china pericolosa che ha imboccato il suo capo, lo maramaldeggia di continuo, arrivando a dargli del ridicolo e dell’inadeguato.
E’ in tale stato di irrisolutezza che l’ex sindaco di Roma dovrebbe capeggiare la manifestazione del 25 ottobre, da lui indetta in solitudine addirittura tre mesi fa, dopo la figuraccia patita per aver disertato senza un motivo plausibile la manifestazione del 10 luglio a Piazza Navona contro il governo.
Siamo al 10 ottobre ma lui stesso non è ancora sicuro se l’evento si terrà perché, fa capire, "se la situazione della crisi finanziaria precipitasse ulteriormente e ci si trovasse in una autentica emergenza, siamo tutte persone responsabili con la testa sulle spalle…" (1).
Addirittura il suo braccio destro Goffredo Bettini, preso in contropiede dall’ennesima veltroneria, si è affrettato a smentirlo seccamente: "la manifestazione del 25 ottobre si farà".
Comunque, neppure si sa bene su quali contenuti; ad esempio, l’impareggiabile Walter sarebbe tentato di farla diventare anche giornata contro il razzismo.
Noi gli suggeriamo, per rendere il programma ancora più allettante, di aggiungerci la lotta alla fame nel mondo, ai gas serra, al buco dell’ozono, alle guerre, all’inquinamento, alla criminalità… Magari in questo modo riuscirà finalmente a riempire una piazza.
Ma il vero capolavoro costruito in questi mesi da Se po' ffà è l’aver prolungato a dismisura la luna di miele del Cavaliere con gli Italiani: infatti, gli ultimi rilevamenti danno la popolarità del Cavaliere al 60% e oltre: purtroppo, di fronte a tanta confusione di idee, uno tosto come Berlusconi giganteggia, nonostante la sua scadente guida politica.
Sì, l’uomo di Arcore, impenitente guascone, millanta se non altro un grande ottimismo, una dote forse pericolosa dato il suo ruolo ma che di certo non lo rende indifferente alla gente: confessa le sue durature qualità persino sotto le lenzuola, a bella posta rasentando, a seconda dei gusti, il ridicolo o il patetico; ironizza con barzellette di pessimo gusto sul carovita; mostra un grande attivismo, magari solo per varare altre leggi ad personam, tagliare la spesa sociale (vedi il voto di fiducia sul decreto Gelmini che cancella migliaia di posti di lavoro nella scuola) o consegnare l’Alitalia su un piatto d’argento ad una cordata di imprenditori dopo aver lasciato i debiti in testa ai contribuenti italiani, che sembrano però non accorgersene.
Eppure un po’ di risentimento ce lo dovrebbero avere se non altro per l’inettitudine finora mostrata dal suo governo sui temi economici mentre le famiglie continuano ad impoverirsi.
Se ciò non accade è anche frutto del lavoro oscuro ma prezioso per il Cavaliere compiuto in questi mesi dal leader dell’opposizione che non perde occasione per farla apparire inutile e senza prospettive: basta pensare alla farsa del governo ombra...
Anche la pronta disponibilità del Pd a collaborare con il governo per gestire l’emergenza causata dall’improvvisa caduta delle borse mondiali, lascia veramente interdetti non fosse altro perché, non essendo stata avanzata nessuna richiesta in questa direzione da parte del governo, appare stonata rispetto alla durezza dello scontro verbale in essere tra i due poli.
Come se Veltroni avesse preso la palla al balzo della crisi finanziaria internazionale per tornare alla politica che gli è più congeniale: fare da spalla al Cavaliere, magari per permettergli qualche altra fuga in avanti.
Questo navigare a vista da parte del partito democratico risulta veramente deleterio e conferma per altri versi il suo peccato originale: l’assoluta inconsistenza ideologica.
Al punto da far apparire quella di Veltroni, più che un’assunzione di responsabilità, un’ invocazione d’aiuto rivolta al suo avversario per sottrarsi ad una imminente resa dei conti interna.
Ed è chiaro che in un sistema bipolare, se l’opposizione rinuncia ad esistere, bisogna accontentarsi di ciò che caccia il governo, per quanto indigesto possa sembrare.
Ad un anno dalle primarie che lo incoronarono leader del PD, Walter Veltroni ha così dilapidato un patrimonio di consensi, inabissando le speranze di quanti videro in lui sia un importante interlocutore del governo guidato allora da Romano Prodi che una carta vincente da calare in futuro sul tavolo della politica italiana.
Niente meglio del "Me ne frego", indirizzatogli beffardamente da Silvio Berlusconi, simboleggia l’eclisse della sua stella politica.
(1) la Repubblica: "Veltroni: pronti ad aiutare il governo" , 9/10/2008